Philippe Ariès Georges Duby

La Vita privata - Ottocento

Laterza, Bari 1988
ATTORI (pp. 75-148)

La famiglia, teatro principale della vita privata, nel secolo XIX, le fornisce le sue figure e le sue prime parti, le sue pratiche e i suoi riti, i suoi intrighi e i suoi conflitti. Mano invisibile della società civile, essa è a un tempo nido e nodo.

Trionfante nelle dottrine e nei discorsi che tutti, dai conservatori ai liberali, addirittura ai libertari, la celebrano come la cellula dell'ordine vivente, la famiglia è, di fatto, molto più caotica e contrastata. La famiglia come nucleo emerge appena da sistemi di parentela più estesi e duraturi, multiformi a seconda delle città e delle campagne, delle regioni e delle tradizioni, degli strati sociali e culturali.

Totalitaria, essa intende assegnare ai suoi membri le proprie finalità. Ma questi, spesso e sempre di più, si ribellano. Di qui, tra generazioni, tra sessi, tra individui desiderosi di scegliere il loro destino, tensioni che alimentano i suoi segreti, drammi che la fanno esplodere. Tanto più che essa ricorre più spesso alla giustizia come arbitra delle sue liti, sottomettendosi così insidiosamente al controllo esteriore.

La famiglia, soprattutto la famiglia povera, è anche minacciata nella sua autonomia dall'intervento crescente dello Stato, che, non potendo agire attraverso di essa, ci si sostituisce, soprattutto per la gestione del bambino, essere sociale e capitale fra tutti più prezioso.

La famiglia non esaurisce, certamente, tutte le possibilità della vita privata, che conosce ben altre forme ed altri scenari. Tuttavia, nell'Ottocento, essa tende, per ragioni in parte politiche, ad affrontare tutte le funzioni, ivi compresa la sessualità di cui è le cristal (M. Foucault) e a definire le regole e le norme. Le istituzioni e gl'individui che vivono da celibi — prigioni e internati, caserme e conventi, vagabondi e dandies, monache ed amazzoni, bohemiens ed apaches — sono spesso costretti a darsi un'identità in rapporto ad essa o nei suoi margini. Essa è il centro di cui costituiscono la periferia.

                                                                                                                        

Il trionfo della famiglia
di Michelle Perrot

La Rivoluzione francese aveva tentato di sovvertire la frontiera tra pubblico e privato, di costruire un uomo nuovo, di riplasmare il quotidiano attraverso una nuova organizzazione dello spazio, del tempo e della memoria. Ma questo grandioso progetto era fallito di fronte alla resistenza degli uomini. I «costumi» si erano rivelati più forti della legge.

Quest'esperienza ha colpito parecchio i pensatori contemporanei. Per Benjamin Constant, George Sand o Edgar Quinet, è un soggetto ricorrente di riflessione. In che la Rivoluzione ha — o non ha — sconvolto la loro vita e quella dei loro concittadini? George Sand mostra come i contadini del Berry resistano al tu generalizzato che vorrebbero imporre «i piccoli signori di città», questa nuova borghesia così fiera di dare del tu alla nonna, la cittadina madame Dupin. Benjamin Constant sottolinea la forza del tenere le distanze: «A quel tempo ho sentito le arringhe più concitate; ho visto le dimostrazioni più energiche; sono stato testimone dei giuramenti più solenni; non serviva a nulla, la nazione si prestava a queste cose come a cerimonie per evitare le discussioni, e poi ognuno se ne tornava a casa propria, senza credersi o sentirsi più impegnato di prima».

È la ragione per cui i rapporti del pubblico e del privato sono al centro di ogni teoria politica post-rivoluzionaria. Definire le relazioni tra Stato e società civile, fra collettivo e individuale, diventano i problemi più importanti. Mentre il lasciar fare, l'ideale della «mano invisibile» prevale in un pensiero economico che segna il passo e vive sulle brillanti conquiste del secolo XVIII, il pensiero politico si mostra preoccupato di determinare le frontiere e di organizzare «gl'interessi privati». La cosa più nuova è senza dubbio l'importanza accordata alla famiglia come cellula di base. L'elemento domestico è un'istanza regolativa fondamentale: fa la parte del dio nascosto.

Questa riflessione è largamente diffusa in Europa. Catherine Hall ha mostrato come il pensiero della vita domestica è costruito parallelamente, in Gran Bretagna, all'inizio dell'Ottocento, dai protestanti e dagli utilitaristi. Il panoptismo di Bentham, per la società civile, si fonda sullo sguardo sovrano del padre di famiglia, signore per volontà di Dio o secondo ragione.

Hegel: la famiglia fondamento della società civile

Hegel è forse il filosofo che ha portato più lontano questo concatenamento fra pubblico e privato. Nei Lineamenti di filosofia del diritto (1818), analizza il rapporto tra le tre istanze fondamentali: l'individuo, la società civile, lo Stato. L'individuo è il fondamento del diritto, che non può essere se non personale. Il corpo definisce l'io a cui la proprietà individuale è necessaria per oggettivarsi; il suicidio è il segno ultimo della sovranità dell'io, come la colpa lo è della sua responsabilità. Ma l'individuo è subordinato alla famiglia, che, con le corporazioni, è uno dei «circoli» essenziali della società civile. Senza di essa lo Stato si troverebbe davanti soltanto a «collettività inorganiche», a folle, facile preda del dispotismo.

La famiglia è garante della moralità naturale. È fondata sul matrimonio monogamico, stabilito per mutuo consenso; le passioni vi hanno un posto contingente, anzi dannoso; il miglior matrimonio è il matrimonio «combinato» che tien conto dell'inclinazione, non il rovescio. La famiglia è una costruzione ragionevole e volontaria, legata da forti legami spirituali, per esempio i ricordi, e materiali. Il patrimonio è a un tempo necessità economica ed affermazione simbolica. La famiglia «oggetto di pietà per i suoi componenti», è un essere morale: «Una sola persona le cui membra sono degli accidenti». Il capo è il padre; solo la sua morte discioglie la famiglia liberando gli eredi.

La famiglia è il tutto superiore alle parti che ci si devono sottomettere; è, nella società dell'Ottocento, un gruppo «olista», come lo ha definito Louis Dumont. La divisione dei compiti tra i sessi si fonda sui loro «caratteri naturali», secondo un'opposizione passivo/attivo, interno/esterno che domina tutto il secolo. «L'uomo ha la sua vita sostanziale reale nello Stato, nella scienza, ecc., e anche nella lotta e nel lavoro alle prese col mondo esterno e con se stesso». «La donna trova il proprio destino sostanziale nella moralità oggettiva della famiglia, la cui pietà familiare esprime le disposizioni morali».

I figli sono al tempo stesso membri della famiglia e individui per se stessi. Liberi, devono essere educati, senza abusare cftel giuoco che lusinga il senso della loro distinzione. La maggiora età li rende capaci di avere una famiglia, «i figli come capi e le figlie come mogli». Ma a permettere loro di accedere veramente a questa nuova condizione è la morte del padre. La libertà di testare è limitata dal diritto di famiglia. Hegel critica vivamente su questo punto il carattere arbitrario del diritto romano; disapprova il diritto di primogenitura o l'esclusione delle figlie. Ciò che conta ai suoi occhi, non è la stirpe, su cui pesa un residuo feudale, ma la famiglia, pietra angolare della società moderna. Cerchi di «persone concrete indipendenti», le miriadi, «le moltitudini di famiglie», formano la società civile, che altro non è se- non «la riunione di collettività familiari disperse».

La casa di Kant

Se Hegel pensa la concatenazione macrosociale del pubblico e del privato, si riferisce soprattutto al microspazio della casa di Kant, poeticamente trascritto da Bernard Edelman. Il diritto domestico è il trionfo della ragione; dà una radice e impone una disciplina abolendo qualunque volontà di fuga. E’ «un diritto di quaggiù e di conservazione, che spegnerà nei cuori il richiamo del lontano e delle foreste selvagge». La casa è il fondamento della morale e dell'ordine sociale. È il cuore del privato, ma di un privato sottoposto al padre, solo capace d’assoggettare gl'istinti, di render docile la donna. Perché la guerra domestica è sempre presente come minaccia. «La donna può diventare un vandalo, il bambino, contagiato dalla madre, un essere molle o vendicativo, e la vita domestica può riprendere la sua libertà». Centro della casa, la donna ambigua è anche la sua minaccia. «Basta che sfugga per trasformarsi subito in un elemento ribelle e rivoluzionario». Di qui la contraddizione, ben avvertita da Kant, del suo stato giuridico; come individuo gode di diritto personale, come membro della famiglia è sempre sottoposta al diritto coniugale, di natura essenzialmente monarchica. Sempre la donna «assetata» [di libertà] si contrappone alla donna «addomesticata».

La famiglia liberale

Il pensiero francese sulla famiglia, nel secolo XIX, è particolarmente ricco, in ragione del carattere incalzante dei problemi legati alla ricostruzione politica, giuridica e sociale post-rivoluzionaria. Tre grandi poli_di riflessione: le frontiere tra pubblico e privato, e la nozione delle «sfere»; il contenuto della società civile; i ruoli maschili e femminili.

I liberali — da Germaine de Staèl a Alexis de Tocqueville — sono in primo luogo preoccupati della difesa di una frontiera che garantisca la libertà degli «interessi privati», forza della nazione. «Solo il rispetto dell'esistenza particolare della fortuna privata può far amare la Repubblica», scrive madame de Staèl, che le chiede essenzialmente «di non esigere, di non pesare». «La libertà ci sarà tanto più preziosa quanto più tempo l'esercizio dei nostri diritti politici ci lascerà di dedicarci ai nostri interessi privati», dice Benjamin Constant. L'uno come l'altra contrappongono gli Antichi, che vivevano per l'Agorà o per la guerra, al mondo moderno, universo del commercio e dell'industriosa attività degl'individui, che conviene soprattutto «lasciar fare». Questa concentrazione sul privato sottintende che per gli affari pubblici ci si affidi a dei rappresentanti. La distinzione delle due sfere complementari implica il regime rappresentativo e, in una certa misura, la specificità del politico, quella di chi agisce nel mondo politico e, al' limite, la sua professionalità.

(Questo aveva visto perfettamente Guizot, recentemente studiato da Pierre Rosanvallon. In una riflessione che non è priva di affinità con quella di Hegel, analizza il funzionamento del potere, che vede multiplo. L'ordine e la libertà dipendono dall'articolazione del «potere sociale», responsabile della società civile e del potere politico, degli orientamenti d'insieme, e «devoluto» ai «capaci», alla élite degli organizzatori: faccenda da uomini e non da salotti, misti e frivoli. Largamente domestico, il potere sociale non è tuttavia femminile. Il padre di famiglia ne è la chiave non arbitraria, perché egli è «l'espressione di una ragione superiore, più qualificata degli altri per giudicare del giusto e dell'ingiusto». Luogo di una permanente transazione, la famiglia è, secondo Guizot, un modello politico di democrazia. «In nessun altro luogo il diritto di suffragio è più reale o così esteso. Esso tocca nella famiglia il punto più vicino all'universalità».

Royer-Collard e Tocqueville si preoccupano con la stessa ansia del contenuto della società civile. «La Rivoluzione ha lasciato in piedi solo gl'individui. [...]. Dalla società polverizzata è venuta fuori la centralizzazione», scrive il primo, che vede nelle «associazioni naturali» — il comune, la famiglia - l'antidoto del giacobinismo. Tocqueville, così sensibile d'altra parte al fascino del privato e dell'intimo, ha perfettamente visto i pericoli di un individualismo eccessivo, quello dell'«ognuno a casa propria, ognuno per sé» caro al barone Dupin. «Il dispotismo, che di sua natura è timoroso, vede nell'isolamento degli uomini la più certa garanzia della sua lunga durata, e pone di solito ogni cura a isolarli [...]. Chiama buoni cittadini quelli che si chiudono strettamente in se stessi» (La democrazia in America, 1. II, cap. Vili). Tutta l'opera di Tocqueville si muove attorno a questo problema: come conciliare felicità privata e azione pubblica. Preconizza le associazioni e celebra le virtù della famiglia americana, suscettibile di creare un legame sociale. «La democrazia allenta i legami sociali, ma rinsalda i legami naturali. Avvicina i parenti nel momento stesso in cui separa i cittadini».

Così, per i liberali, la famiglia, comunità in qualche modo «naturale», è la chiave della felicità individuale e del bene pubblico.

I tradizionalisti

La famiglia è ugualmente la maggior preoccupazione dei tradizionalisti, i cui principali rappresentanti sono stati Louis de Bonald sotto la Restaurazione e, più tardi, Frédéric Le Play e la sua scuola. Il loro assillo e la critica del rilassamento dei costumi, della perversione dei ruoli sessuali, del diffondersi dell'effeminatezza. Del resto, le famiglie in dissoluzione, le donne dimentiche dei loro doveri sono abitualmente i capri espiatori delle sconfitte militari e dei rivolgimenti sociali. La Restaurazione (cfr. i lavori di R. Deniel), l'ordine morale (cfr. Mona Ozouf) sono, da questo punto di vista, esemplari. Il regime di Vichy lo sarà più ancora (cfr. Robert Paxton).

L'offensiva in favore della famiglia sotto la Restaurazione è triplice. In primo luogo, religiosa: le missioni fanno del rispetto della famiglia il loro tema preferito. «Dove si può star meglio che in seno alla famiglia?» canta un cantico del 1825. In sede politica si volge contro il divorzio, ammesso dal 1792, e ne ottiene la soppressione nel 1816. In sede ideologica: Bonald ne è l'apostolo. Molto letto negli ambienti della nobiltà di provincia (Renée de Lestrade, l'eroina materna dei Mémoires de deux jennes mariées, lo cita spesso), è il sostenitore di una moralizzazione dell'aristocrazia che per mezzo suo si rifà una verginità. Il sogno della «vita al castello» e del lusso ostentato di un'aristocrazia dissoluta, così tenace nella psicologia popolare da sopravvivere ancora nei commenti delle visite ai castelli delle nostre vacanze, trae alimento di fatto da un tempo passato: quello della «dolce vita».

Il pensiero di Bonald sulla famiglia si trova, per esempio, nel suo discorso alla Camera dei deputati «per l'abolizione del divorzio» (26 dicembre 1815). Il divorzio è intrinsecamente perverso, non solo per via delle ingiuste conseguenze per le donne e i figli che soprattutto ne soffrono, ma per ragioni morali. Riconoscendo implicitamente il diritto alla passione fa d'altra parte un posto esorbitante all'amore nel matrimonio. Richiesto per lo più dalle donne, diminuisce l'autorità paterna: «Vera e propria democrazia domestica, permette alla moglie, alla parte debole, di ribellarsi all'autorità maritale». Ora, la grandezza della moglie consiste nella sottomissione al padre e, quando è vedova, al figlio maggiore, depositario della dimora ancestrale.

Fondamento dello Stato monarchico, la famiglia è essa stessa una monarchia paterna, una società fondata sul lignaggio che garantisce la stabilità, la durata, la continuità. Il padre ne è il capo naturale, come il re padre è il capo della Francia, che è anche una «casa». Restaurare la monarchia vuol dire restaurare l'autorità paterna. «Per sottrarre lo Stato alle mani del popolo, bisogna sottrarre la famiglia alle mani delle mogli e dei figli». Il matrimonio non è soltanto un contratto civile, ma indissolubilmente un atto religioso e politico. «La famiglia esige dei costumi, e lo Stato esige delle leggi. Rafforzate il potere domestico, elemento naturale del potere pubblico, e consacrate la completa dipendenza delle mogli e dei figli, pegno della costante obbedienza dei popoli».

Le Play, o «la famiglia fondamentale dello Stato»

Decisamente controrivoluzionario, il pensiero di Frédéric Le Play è originale nella misura in cui elabora inoltre una strategia di osservazione sociologica che vorrebbe essere il preludio di un intervento a favore della famiglia. Ostile all'amplificazione dello Stato, Le Play vorrebbe rinvigorire la società civile attraverso la felicità delle famiglie, felicità che egli definisce come «la legge morale più il pane». «La vita privata imprime le proprie caratteristiche alla vita pubblica; la famiglia è il principio dello Stato» (Ouvriers européens, 1877). Nondimeno Le Play è l'opposto di un liberale. L'egoismo degli «interessi privati» nella giungla del lasciar fare, l'urbanizzazione e l'industrializzazione selvagge, l'oblio del decalogo e della morale, sono le cause di quest'autentica sciagura che è la proletarizzazione. Rimedio: la restaurazione della «famiglia come ceppo», con un solo erede, designato dai genitori (la melouga pirenaica, molto vicina all’oustal dello Gévaudan), che Le Play contrappone tanto alla famiglia instabile (quella del Codice civile) come alla famiglia patriarcale, in cui il potere è concentrato nelle mani di un capo di famiglia ereditario. La gerarchia, in Le Play, non è dunque puramente «naturale», ma fondata sul merito, la capacità.

Il rispetto delle gerarchie è una condizione dell'equilibrio. Ma i capi devono rispettare i loro subordinati e proteggerli. La «questione sociale» e il crescente intervento dello Stato si innestano sulla dimenticanza dei loro doveri per parte dei padroni. Paternalismo e patronato offrono i migliori tipi di relazioni sociali. La famiglia è allo stesso modo sottoposta al padre. Tuttavia Le Play accorda grande importanza alle virtù della donna da casa, come più tardi Emile Cheysson, suo discepolo su questo punto, e le sue Monographies de famille offrono una documentazione eccezionale sui compiti, le mansioni e i poteri della madre nelle famiglie del popolo e sul lavoro domestico.

Il pensiero di Le Play e della Réforme social è senza dubbio il più compiuto fra quelli che, nel secolo XIX, prendono la famiglia come perno della riflessione e dell'azione. Quel suo tornare indietro scaturisce da ragioni politiche ed ideologiche che hanno contribuito al trionfo della scuola di Durkheim, supporto della Repubblica. La famiglia è stata la vittima innocente di questa peripezia, nella misura in cui ha cessato, per un pezzo, di essere un elemento base della ricerca nel campo delle scienze sociali.

I socialisti e la famiglia

Prima che il marxismo rimandasse il privato alle sue origini borghesi, anzi piccolo borghesi, i socialisti hanno accordato alla famiglia un'estrema importanza, come ha dimostrato Louis Devance in una tesi purtroppo rimasta inedita.

Unanimi nel criticare la famiglia dei loro tempi, raramente i socialisti ne hanno immaginato la completa soppressione. Altrettanto rari sono stati quelli che hanno preso in considerazione un sovvertimento dei ruoli sessuali, tanto la credenza in una diseguaglianza naturale tra uomo e donna è profonda. Ma esiste una grande varietà di correnti e di soluzioni. Stanno dalla parte dei sostenitori di una libertà illimitata: Fourier, Enfantin, la femminista Claire Démar, i comunisti degli anni 1840 come Théodore Dézamy, il cui Code de la Communauté si contrappone al familiarismo puritano de l’Icarie di Cabet. «Niente più casa parcellizzata! niente più educazione domestica! niente più "familiarismo"! Niente supremazie del marito! Libertà di legami! Perfetta uguaglianza dei due sessi! Libero divorzio!» esclama il primo, mentre il secondo condanna il celibato volontario e vede nel «concubinaggio e nell'adulterio delitti senza attenuanti». Icarie è di un moralismo a tutta prova e di un machismo senza crepe. A Nauvoo, nella colonia americana dove Cabet tenterà di realizzare la sua utopia, si troverà in contrasto con le donne che, per civetteria, rifiutano di impegnarsi a indossare un'uniforme!

Fourier rappresenta un radicalismo abbastanza eccezionale, lo «scarto assoluto», tanto nell'ambito dei ruoli quanto in quello dei rapporti sessuali. Colui che denunziava nelle donne «le proletarie delle proletarie» vedeva nella loro emancipazione la chiave del progresso. «L'estensione dei privilegi delle donne è il principio generale di tutti i progressi sociali». Al falansterio egli preconizza una completa uguaglianza, funzioni intercambiabili, totale libertà di scelta dei partners di natura carnale, un matrimonio tardivo e facile da sciogliersi. Malthusiano per via della sua diffidenza in fatto di crescita della popolazione, non lo è per il riconoscimento della legittimità della contraccezione e dell'aborto. Il radicalismo di Fourier in materia sessuale ha fatto paura ai suoi discepoli, comprese le donne, come Zoe Gatti de Gamond, o Considérant, che su questo punto lo hanno espurgato. Non hanno pubblicato la più rivoluzionaria delle sue opere, Le Nouveau monde amoureux («Il nuovo mondo amoroso»), che è stata pubblicata solo nel 1967 da Simon Debout. Il familisterio edificato a Guisa (Aisne) da Godin, aveva ripudiato qualunque morale che fungesse da perno, più vicino sotto questo rispetto a Icarie che al falansterio. E la compagna di Godin era una donna che restava in ombra, come tutte le altre donne dei «grandi uomini».

I saintsimoniani posteriori ad Enfantin, la maggioranza dei comunisti, i socialisti d'ispirazione cristiana — come Pierre Leroux, Constantin Pecqueur, Louis Blanc e persino Flora Tristan — si pronunziano in favore di un ammodernamento dell'istituto familiare: uguaglianza dei sessi anche nell'educazione, diritto al divorzio. Ma il matrimonio monogamico resta ai loro occhi il fondamento del nucleo familiare dall'affettività rafforzata, dove i figli tengono il primo posto. Dopo il 1840, la maggior parte delle femministe, per esempio quelle del 1848, che vedono nello Stato una «grande famiglia», si rifanno a queste posizioni moderate che convenivano alle loro rivendicazioni di uguaglianza civile e offrivano delle possibilità di azione concreta. Liberissima dal punto di vista personale come da quello familiare, George Sand è fra queste.

Infine, una corrente tradizionalista che s'incontra con Buchez, i socialisti cristiani dell'«Atelier», i discepoli di Lamennais e di Proudhon, sosteneva la disuguaglianza irriducibile dei sessi fondata sulla natura, la necessaria sottomissione delle donne che trovano la loro libertà nell'obbedienza, e il matrimonio indissolubile e patriarcale, garante dell'ordine e della morale. Proudhon specialmente proclama in modo costante la superiorità creatrice del principio virile, della castità sulla sensualità, del lavoro sul piacere. Per il teorico dell'anarchia la famiglia coniugale è la cellula vivente di un privato che dovrebbe assorbire il pubblico e ridurre a niente lo Stato.

Così, da Fourier a Proudhon, l'evoluzione non procede in direzione della libertà dei costumi. Senza dubbio i socialisti sono alle prese con una doppia esigenza: quella del moralismo ambientale, delle critiche che il pensiero borghese rivolge alla bestialità proletaria e che li porta a irrigidirsi su una posizione di rispettabilità; quella della loro «clientela» operaia e popolare, per cui l'economia e la morale familiare erano costitutive della coscienza di classe.

Ma c'è anche un'evoluzione propria dello stesso socialismo e della sua visione della trasformazione sociale. I socialisti della prima metà del secolo credono a una rivoluzione promossa dalla base e dai comportamenti pratici. Se la rappresentano come il propagarsi della virtù delle comunità esemplari: comuni e associazioni di lavoro a base familiare, versione altruistica della piccola impresa. Di qui la volontà di una trasparenza, che anche Rousseau postulava, e che alimenta una discussione sulla «pubblicità dei costumi» opponendo ad Enfantin certe donne saintsimoniane che rivendicano il diritto all'intimità come una conquista della dignità femminile. Claire Démar, in Ma loi d'avenir, si scaglia contro certi riti matrimoniali e contro «la pubblicità di quei scandalosi processi che nelle nostre corti, nei nostri tribunali, fanno risuonare davanti ai nostri giudici le parole adulterio, impotenza, violenza, provocando delle indagini, delle sentenze rivoltanti».

Col blanquismo, ma soprattutto col marxismo, il problema della conquista del potere si pone diversamente; dall'alto, la rivoluzione politica indispensabile prelude alla rivoluzione economica, promossa dallo Stato. Nell'analisi sociale, il sistema di produzione si sostituisce alla famiglia e i costumi sono relegati nell'ambito delle sovrastrutture. Engels ha un bel sottoscrivere le conclusioni di Bachofen e soprattutto di Morgan sull'esistenza di un matriarcato nei tempi primitivi della barbarie felice ed egualitaria, e considerare che la sua abolizione è stata «la grande sconfitta storica del sesso femminile», egli fa della rivoluzione socialista dei mezzi di produzione la condizione necessaria — se non sufficiente — per ristabilire l'uguaglianza. Le donne sono invitate a subordinare le loro rivendicazioni alla lotta di classe, e la lotta dei sessi è considerata come un diversivo. Il femminismo è ormai condannato a essere borghese, quasi per essenza: inizio di un lungo malinteso.

Correlativamente il marxismo — e il socialismo che d'allora in poi esso influenza largamente — si ferma all'analisi antropologica, accusata di idealismo. Jacques Capdevielle ha dimostrato come si è determinato questo fatto che non è il prodotto del caso, ma di una critica esplicita del Marx dell’Ideologia tedesca o dello Hegel della Filosofia del diritto e della sua negazione del dualismo Stato/società civile, individuo/cittadino. Ne è risultato un certo impoverimento dell'analisi marxista: il rifiuto delle mediazioni, la sottovalutazione dell'avere, del patrimonio e della morte.

Tuttavia conviene osservare che questa liquidazione della famiglia nella teoria sociale non riguarda solo Marx, ma anche Durkheim, come hanno spesso sottolineato Hervé Le Bras ed Emmanuel Todd. Restio alla traduzione dei fenomeni in termini spaziali, Durkheim vuole riconoscere solo dei fatti sociali universali e facendo questo «polverizza l'antropologia». Nello stesso momento la storia positiva interamente rivolta verso la costruzione della nazione e del politico, bandiva il privato dal suo campo di studio.

La famiglia, mentre come categoria esplicativa spariva dalle scienze sociali, era più forte che mai nel pensiero politico degli organizzatori della Terza Repubblica: Grévy, Simon, Ferry e gli altri. La riflessione sulla famiglia scompare: la politica della famiglia comincia.

Le funzioni della famiglia - funzioni assegnate, funzioni assunte — contano anche di più del suo valore euristico.


Funzioni della famiglia
di Michelle Perrot

Atomo della società civile, è la famiglia che gestisce gl'interessi privati» il cui buon andamento è essenziale alla forza degli Stati e al progresso dell'umanità. Le è assegnato un gran numero di funzioni. Chiave di volta della produzione, essa assicura il funzionamento economico e la trasmissione dei patrimoni. Cellula della riproduzione, fornisce i bambini a cui dispensa una prima socializzazione. Garante della razza, veglia sulla sua purezza e sulla sua salute. Crogiolo della coscienza nazionale, trasmette i valori simbolici e la memoria su cui si fondano. Crea tanto i valori della cittadinanza quanto quelli della civiltà. La «buona famiglia» è il fondamento dello Stato, e in modo particolare per i repubblicani (cfr. Jules Simon, Le devoir, 1878), c'è continuità tra l'amore per la famiglia e quello per la patria, le cui maternità si confondono, e il sentimento dell'umanità. Di qui il crescente interesse dello Stato per la famiglia: in primo luogo per le famiglie povere, anello debole del sistema, poi per tutte le famiglie.

Ma per la maggior parte dell'Ottocento la famiglia agisce liberamente, con parecchie varianti legate alle tradizioni religiose e politiche, all'ambiente sociale e, più ancora, locale, tanto la Francia a quell'epoca è diversa sotto la vernice centralizzatrice.

Famiglia e patrimoni

Rete di persone e complesso di beni, la famiglia è un nome, un sangue, un patrimonio materiale e simbolico, ereditato e trasmesso. La famiglia è un flusso di proprietari che, in primo luogo, dipende dalla legge.

Ambiguità del codice

Il Codice civile ha abolito in linea di principio i vecchi costumi, vietato il diritto di testare, soppresso il diritto di primogenitura, stabilito la parità degli eredi, maschi e femmine. Sotto molti rispetti è una rivoluzione, e come tale è avvertita. Se Pierre Rivière, il «parricida con gli occhi rossi» del Bocage normanno uccide la madre (e, per di più, la sorella e il fratello), non è forse in parte perché questa donna che dispone liberamente dei suoi beni rappresenta, in rapporto al costume normanno che non riconosceva nessun diritto alle donne, un vero e proprio sovvertimento? Questa diavolessa che senza posa fa e disfà i suoi contratti è una sfida insensata.

E tuttavia «la regola del giuoco nella pace borghese», secondo l'espressione di André Arnaud? Si è colpiti, al contrario — e P. Ourliac lo sottolinea a più riprese — dalla persistenza dei valori patrimoniali, dalla preminenza del padre in questo sistema di trasmissione dei beni in linea paterna. Il marito «amministra da solo i beni della comunità» (art. 1.421); i suoi poteri sono limitati solo dalle clausole del contratto di matrimonio. Ora questo, caratteristico dei paesi di diritto scritto, subisce una continua diminuzione nel corso del secolo, anche nella zona occitanica, dove il regime dotale era stato largamente conservato. In Provenza e in Linguadoca dapprima, poi nell'interno dell'Occitania. La stessa evoluzione si nota in Normandia: a Rouen, J.-P. Chaline censisce il 43 per cento dei contratti di matrimonio nel 1819-1820, il 24 a metà del secolo XIX e solo il 17 alla vigilia del 1914. Solo i borghesi conservano più a lungo il regime dotale, che garantisce i beni della donna e tutela, in caso di fallimento, una parte del patrimonio: precauzione di un capitalismo a forte struttura familiare.

Le divisioni successorie hanno, in linea di massima, diffuso la piccola proprietà e contribuito a ritardare — per lo meno a tenere a freno — l'industrializzazione, contenendo l'esodo rurale, contrariamente a ciò che avviene in Inghilterra. Ma in parecchie regioni, e specialmente in quelle dove predominano le famiglie fedeli alla stirpe, la resistenza al Codice civile è fortissima. Cosi nello Gévaudan, descritto da Elisabeth Claverie e Pierre Lamaison, dove il proposito di salvaguardare l’oustal determina tutta una serie di pratiche per aggirare le difficoltà. I genitori — per lo meno l'onnipotente padre — procedono in vita ad «arrangiamenti» destinati a mantenere l'unità dello sfruttamento nelle mani del più capace (e/o del preferito?); i figli minori possono essere indennizzati (ed è questo un motivo di migrazione temporanea destinata a procurare il danaro della compensazione); ma il più delle volte restano celibi, a lavorare la terra, e anche come domestici. Lo sviluppo dell'individualismo avrebbe un po' alla volta annullato il consenso necessario a questo sistema.

In verità una gran parte della popolazione era esclusa da qualunque partecipazione a suddivisioni. All'inizio come alla fine dell'Ottocento (cfr. A. Daumard, F. Codacioni), i due terzi di quelli che muoiono se ne vanno senza lasciare successione. La concentrazione delle fortune tende addirittura ad accrescersi: a Parigi l'1 per cento dei parigini detiene il 30 per cento degli averi nel 1820-1825, e lo 0,4 per cento nel 1911. La stessa situazione a Bordeaux o a Tolosa. Peggiore a Lilla, città proletaria: nel 1850 l'8 per cento degli abitanti posseggono il 90 per cento della fortuna cittadina e nel 1911 il 92. Lo sviluppo, reale tuttavia, delle classi medie è ancora caratterizzato in piccola misura dalla distribuzione della fortuna e tende a corroborare l'idea di una società bloccata, in cui le prospettive di mobilità sono modeste e pronunciati i rischi di tensione interna che minacciano le famiglie a proposito della proprietà.

Le forme di proprietà

I risultati dell'accumulazione sono globalmente modesti. Ma il desiderio del patrimonio è ardente. Si rivolge dapprima agl'immobili, primo oggetto del desiderio, segno indispensabile di notabilità per i borghesi, bisogno di possedere un cantuccio per i meno abbienti. Il padre di Henri Beyle — Henry Brulard — pensa solo al suo «dominio» e, se nella piccola borghesia di Grenoble all'inizio dell'Ottocento, il danaro «necessità purtroppo indispensabile per vivere, come i gabinetti, ma di cui non si doveva mai parlare», resta tabù, «la parola "immobile", al contrario, è pronunciata con rispetto».

A metà del Secondo Impero gli immobili urbani danno il 18 per cento delle rendite, e gli sfruttamenti agricoli il 41, di fronte al solo 5,9 degl'investimenti mobiliari. Ma nella seconda metà dell'Ottocento l'attrazione esercitata da questi aumenta senza posa, stimolata dallo sviluppo delle società anonime, dal mutamento delle strategie bancarie e dalle conseguenti speculazioni, in cui tanti eredi hanno mandato in rovina il loro patrimonio. Le obbligazioni si sostituiscono alla rendita fondiaria. Possedere azioni di cui si segue il corso in borsa diventa pratica molto diffusa, anche nella piccola borghesia di provincia. Una certa brava signora di una cittadina del Berry, figlia di viticoltori, vedova di un falegname, è abbonata a un giornale finanziario e si mette insieme un portafoglio — prestito russo, Città di Budapest... — come ha comprato un pianoforte alle sue figlie.

Jacques Capdevielle ha mostrato la diffusione, in quasi tutti gli strati sociali, di questo spirito di proprietà, fondamento della Terza Repubblica opportunista e radicale che fa dell'equazione «cittadini = proprietari» uno dei perni della sua politica, ponendone in rapporto la diffusione dei valori mobiliari, discreti e divisibili, con la democrazia. Ha sottolineato lo stupefacente consenso che alla fine del secolo si verifica attorno alla proprietà, perfino nelle file socialiste e addirittura in quelle anarchiche. Il «buon padre di famiglia», figura centrale del sanculottismo rivoluzionario e pilastro della Repubblica, è un piccolo proprietario che lega ai suoi eredi un patrimonio. E Gambetta vanta «le modeste fortune, i piccoli capitali, tutto quel piccolo mondo che costituisce la democrazia» (discorso di Auxerre, 1874).

Così si forma lentamente uno spirito capitalistico che s'infiltra nelle conversazioni e nelle corrispondenze familiari, e che modifica l'immagine che la famiglia dà di sé a se stessa.

Lavoro ed economia familiare

Con o senza patrimonio, la famiglia è un sistema economico di gestione che la rivoluzione industriale, così diversa nei suoi ritmi, non ha abolito, tutt'altro; lo ha anzi utilizzato e rafforzato. La costituzione di un'antropologia economica, sulle tracce di Chaya-nov e di Jacques Gody, è uno dei risultati più interessanti della ricerca contemporanea. È una delle linee di forza dell’Histoire des Français, pubblicata sotto la direzione di Yves Lequin; a questa rimandiamo per i dettagli analitici. Senza spingersi fino a parlare di «modo di produzione familiare», bisogna dire di una rete di accumulazione, di savoir-faire e di solidarietà.

In ambiente rurale la famiglia è l'unità economica di base. Famiglia e terra si confondono e le loro necessità s'impongono agl'individui che le compongono. L’oustal dello Gévaudan è un caso estremo; ma anche in forme più distese di sistema patrimoniale, la famiglia è un'impresa, la casa uno spazio di lavoro, e i rispettivi ruoli dei genitori e dei figli, dei giovani e dei vecchi, degli uomini e delle donne vi sono rigorosamente fissati in una complementarità di cui non va esagerata la serenità e che talvolta è alterata dalle migrazioni.

La protoindustrializzazione ha puntato a fondo sulla cellula familiare, dove impresa e domicilio si confondono. I tessitori offrono il miglior esempio di economia industriale domestica, di divisione sessuale del lavoro e di endogamia, sistema che a lungo si oppone alla fabbrica e di cui, nonostante la sua estrema povertà, molti serberanno la nostalgia. Mémé Santerre (Serge Grafteaux) all'inizio del Novecento, ne è un'ultima testimonianza. Lo sviluppo dell'elettricità ridarà corpo a questo sogno di officina a domicilio in cui Pierre Kropotkin vedeva una via libertaria di autonomia.

La piccola impresa familiare — bottega o laboratorio — è in Francia tenace e al tempo stesso esposta ai fallimenti — questo disonore di famiglia — e di continuo rinascente. Il sub-appalto si aggrappa ai rami delle industrie pesanti. Mettersi per conto proprio è un'ambizione tenace; non separare domicilio e luogo di lavoro un ideale, in un paese in cui gli operai rifiutano tanto a lungo la sporta o la gamella — per lo meno le mogli devono portarla ben calda a mezzogiorno — e fanno le barricate quando la riduzione calcolata del tempo di pausa impedisce di tornare a casa per far colazione (processo dello Houlme, presso Rouen, nel 1827). L'economia è qui difesa di un modo di vivere.

L'industrializzazione ha dovuto tenerne conto. La fabbrica si installa nel villaggio, quanto più è possibile vicino alla manodopera, utilizzando e pagando in blocco il gruppo di famiglia — il padre è aiutato dalla moglie ed organizza i figli — nelle filande meccaniche. I problemi disciplinari si trovano ad esser risolti immediatamente.

È il padrone stesso a dare l'esempio; abita molto vicino, talvolta nella corte della sua fabbrica; la moglie tiene la contabilità, e il personale viene invitato alle feste di famiglia. Il paternalismo è stato il primo sistema di relazione industriale, per lo meno nei confronti del nocciolo operaio che si voleva rendere stabile. Esso presuppone almeno tre elementi: residenza sul posto, linguaggio e pratica di tipo familiare (il padrone è il «padre» degli operai e l'impresa è una «grande famiglia» il cui fallimento significherebbe la «morte»), accettazione da parte degli operai. Se il consenso vien meno, il sistema crolla; com'è avvenuto, per esempio, nella seconda metà dell'Ottocento, quando gli operai si rivoltarono contro le «cooperative» padronali che spesso celavano un truck-system mascherato. Essi esigono sempre più la condizione salariale e rifiutano ciò che appare loro come un residuo di condizione servile, gl'insopportabili legami di dipendenza. Si potrebbe del resto stabilire un parallelo fra la crisi della famiglia «naturale» e quella della famiglia industriale, sottoposte entrambe alla spinta dell'individualismo in vena di conquiste.

Forza dell'economia familiare operaia

Ma, anche al di fuori della fabbrica, una rigorosa economia familiare sta alla base della condizione di vita dei proletari. Il salario del padre fornisce l'essenziale; lo completa, appena è possibile, il contributo dei figli, ed è questa la spiegazione di una natalità operaia rimasta a lungo rilevante. Guardando le cose da quest'angolo visuale si capisce l'ostilità a ogni limitazione del lavoro dei bambini. Essa contrappone le prospettive a lungo termine di chi vuole instaurare un assetto sociale agl'interessi immediati delle famiglie la cui povertà limita il progetto. Presuppone un altro equilibrio economico, un'altra programmazione delle cose. La limitazione delle nascite in ambiente operaio nascerà da tutto ciò che impone «l'interesse del bambino» - più caro, quindi più raro.

Il lavoro delle donne è anch'esso regolato dalle esigenze familiari, cioè intermittente, interrotto dalle maternità. Fornisce, comunque, solo un «salario supplementare» - nozione molto antica ma che ha ripreso forza -, talvolta destinato a spese particolari. La donna da casa, attaccatissima tuttavia a questo apporto monetario che la valorizza, ha in primo luogo come compito, oltre alla cura dei bambini, quella della casa nel senso più largo del termine. Di questa donna da casa, indispensabile nella vita quotidiana, gli operai non cessano di tessere l'elogio, dando alle loro necessità economiche giustificazioni ideologiche, trasformando in qualità «naturali» un lavoro quasi professionale, complici inconsapevoli del movimento che gabella il lavoro domestico per lavoro improduttivo. In caso di crisi, il salario complementare delle donne diventa fondamentale: gli operai colpiti dalla grave disoccupazione del 1884 ne vengono fuori, dicono da sé, perché le loro mogli fanno servizi a ore e bucati. È questa la ragione per cui le donne, di solito, ricordano le crisi come fonte di un lavoro in sovrappiù.

In linea generale, l'autoconsumo familiare, la produzione del giardinetto — penso a quegli orticelli che si aggrappano anche sugli avanzi delle vecchie fortificazioni parigine — gli scambi di servizi o di un'economia largamente fondata sul ricambio, sono efficaci difese contro la penuria o la miseria. Essi suppongono delle relazioni orizzontali, la cui scomparsa nelle società contemporanee spiega una maggior vulnerabilità di fronte alla disoccupazione e una più grande dipendenza nei confronti dello Stato.

La loro persistenza, in certi paesi come l'Italia, permette di capire l'importanza dell'economia sommersa di un tempo: economia essenzialmente familiare e vicinale.

La famiglia non è soltanto fortuna comune ed equilibrio di bilancio. Essa regola anche le strategie matrimoniali, nel quadro delle endogamie tecniche costituite dai mestieri. Essa sottintende i percorsi di una mobilità geografica che assume forma di apprendistato o strategia di mutata condizione sociale, come ha mostrato Maurizio Gribaudi nello spazio torinese. Le migrazioni o i trasferimenti operai non sono frutto del caso; seguono il canovaccio della parentela quanto quello del mestiere. Queste solidarietà consentono una più facile integrazione alla città. Mantenendo dei legami con la campagna assicurano delle possibilità di ripiegamento: così Simon Parvery, operaio dei forni delle porcellane di Limoges, vittima di un incidente, può riprendere uno sfruttamento agricolo familiare. Sono queste solidarietà a organizzare le complementarità, ad assolvere i compiti dell'ufficio di collocamento o della banca. Nei gruppi etnici più fortemente strutturati favoriscono e pianificano la promozione sociale: così avviene per gli Alverniati di Parigi (F. Raison-Jourde). Attraverso la famiglia i «selvaggi» ammansiscono la città.

Ed è ancora per questa via che, prima dell'epoca dell'obbligo scolastico, hanno accesso all'istruzione e, in particolare alla lettura: il metodo Jacotot è un metodo di «padri di famiglia», di madri anche, molto più alfabetizzate di quanto non si creda, delle quali, d'altra parte, Raspail fa le depositarie delle tradizioni relative alla salute del corpo e delle norme mediche. Quindi la famiglia del popolo non nasce dall'imitazione dell'ordine borghese, ma è «un luogo naturale d'appropriazione del sapere e d'emancipazione del povero» (J. Rancière).

Accumulazione primitiva e capitalismo familiare

Forma elementare della vita popolare, la famiglia è stata anche il modo prevalente della prima accumulazione e gestione per il capitalismo dell'Ottocento. La storia delle imprese è in primo luogo una «storia familiare». Si associa ai matrimoni ed ai lutti, alle prosperità e agli accidenti. La famiglia come nucleo si è rivelata ben predisposta al decollo industriale. «Lo spirito domestico, la nozione di vita privata si accordavano perfettamente con quell'attività di formica bisognosa, segreta, priva di convivialità, che imponeva l'industrializzazione primitiva» (Louis Bergeron, Histoire des Français, t. II, p. 155). I sistemi familiari offrono al patronato a un tempo le basi economiche ed i princìpi di funzionamento delle imprese. Segreto di famiglia: segreto negli affari. Contratti di matrimonio: determinarsi di rapporti di parentela e diversificazione di firme. Eredi capaci: imprese ben gestite, anche con audacia. Eredi sciocchi o spendaccioni: malthusianismo di industrie in declino o di «famiglie» in decadenza. Persino le pratiche finanziarie hanno assunto alla perfezione la forma del calco familiare. Si traducono nelle società in accomandita, ideali in periodi in cui prevale l'autofinanziamento. E, dopo il 1867, le famiglie si sono facilmente adattate alle società anonime che permettevano loro di accrescere il capitale pur mantenendo la maggioranza azionaria e la direzione del gruppo, e tutelando i loro propri beni.

La genealogia delle imprese segue allora rigorosamente quella delle famiglie che le gestiscono. L'industria tessile del Nord offre degli esempi che colpiscono in modo particolare per una crescita dovuta a gemmazione familiare: così a Roubaix i Motte e le loro molteplici parentele: Bossut, Lagache, Brédart, Wattine, Da-wawrin, ecc.; i Pollet, padri della Redoute; a Lilla, i Thiriez o i Wallaert; più di recente i Willot. Scelte ideologiche o accidenti personali imprimono un ritmo alla vita degli affari. In Normandia, dove le nostalgie aristocratiche hanno un gran peso, l'endogamia è spinta al massimo e costringe al ripiegamento su se stessi e ad investimenti fondiari nefasti allo sviluppo industriale. Fra i padroni di ferriere gli Schneider o i Wendel non stanno indietro in nulla agl'imprenditori tessili, ma il loro radicarsi terriero li lega ancora di più al suolo e li porta a sviluppare un paternalismo da signori. Le Creusot, città-fabbrica, è anche un sistema di dominio quasi feudale del paese, del paesaggio, delle persone.

I fondatori dei grandi magazzini hanno portato ai sette cieli il modello del «buon nucleo familiare». Il diorama che ancora oggi all'ultimo piano della Samaritaine racconta la storia edificante di Cognacq e di Louise Jay, esalta le virtù e l'unione laboriosa di quella coppia ideale, che la sera teneva i propri conti alla luce della lampada. Divenuta vedova e senza discendenza capace, madame Boucicaut cerca di perpetuare una gestione familiare, e i suoi successori coltivano il tema della fedeltà, fondamento di una legittimità rafforzata dai matrimoni dei gerenti e dei grossi azionisti tra di loro. Persino le istituzioni volte a formare il personale dei quadri, per promozione interna, intendono costituire una «famiglia morale, se non biologica», veramente legataria per la via traversa dell'associazione capitale-lavoro. Tutto ciò si accompagna a un controllo rigoroso della vita privata e a un'inesorabile riduzione in termini familiari.

Del resto, non si tratta unicamente di uno stadio primitivo. «La grande industria privata e, più di recente, pubblica sfugge molto meno di quanto non si creda alle strutture familiari [...]. Nel gruppo dei dirigenti economici i legami di famiglia continuano a determinare le carriere» (L. Bergeron), come hanno dimostrato anche Pierre Bourdieu e Monique de Saint-Martin. Attraverso il caso dei Cossé-Brissac essi analizzano il ruolo del privato nella gestione della vita pubblica contemporanea, l'impatto delle relazioni familiari nelle decisioni politiche: lo Stato colonizzato dalle famiglie, anche se queste non arrivano a duecento! Così gli affari di famiglia possono essere a volte segreti di Stato e viceversa.

E questo è anche dire che il legato familiare non si riduce ai beni materiali. L'eredità è anche un portafoglio di relazioni, un capitale simbolico di reputazione, una situazione, uno statuto, «un'eredità di oneri e di virtù» (Sartre, L'ìdiot de la fatatile, t. II, p. 1.117). La più grande delle protezioni, la peggiore delle disuguaglianze, insomma. Nel momento del processo Bovary, Flaubert scrive ad Achille, suo fratello: «Bisogna che al ministero dell'Interno sappiano che noi siamo a Rouen ciò che si chiama una famiglia, ossia che abbiamo delle radici profonde nel paese e che attaccandomi, soprattutto per immoralità, si ferirà una quantità di gente» (3 gennaio 1857).

Famiglia, sesso e sangue

Ma oltre a queste funzioni che realmente compie, sono assegnate alla famiglia altre missioni, che si fanno più pressanti sul finire di un secolo assillato dai fantasmi della denatalità e dalla paura della degenerazione: la riproduzione di una razza numerosa, feconda e sana; una sessualità esplicata senza inganno e senza agitazione.

Senza dubbio l'idea che il matrimonio è il mezzo più favorevole a un buon regime sessuale, il cui stesso equilibrio è garanzia di salute, affonda le sue radici nell'Antichità. Michel Foucault (Le Souci de soi, 1984) ha mostrato come, a Roma, all'epoca degli Antonini e nell'ambiente stoico si costruisce un'ideale di coniugalità temperata. Il secolo XIX non ha inventato nulla, e i repubblicani si appellano volentieri a questa morale antica. Influenza puritana? Uno degli opuscoli ripubblicati più spesso della letteratura popolare, La Scienza del buon Riccardo di Benjamin Franklin, così

preoccupato di evitare gli sprechi in tutti i campi, predica la moderazione. I medici, novelli sacerdoti, fanno del matrimonio qualcosa di sacro a un tempo come regolatore di energie e come mezzo per evitare le pericolose copulazioni del bordello, rovina della razza.

Nella seconda metà del secolo XIX, in modo particolare, le «mitologie dell'eredità» (Jean Borie) sviluppate dai medici come dai romanzieri (vedi lo Zola di Fécondité e del Docteur Pascal), la paura dei grandi «flagelli sociali» — tubercolosi, alcolismo, sifilide —, il terrore delle «tare» trasmesse e del sangue «avariato» fanno della famiglia l'anello di una catena la cui fragilità richiede vigilanza. La castità è raccomandata anche ai giovanotti, di cui si consideravano con tanta indulgenza le scappatelle, segno di virilità, purché le ragazze restassero vergini.

Tempio di sessualità abituale, il nucleo familiare pone delle norme e squalifica le sessualità periferiche. Il letto coniugale è l'altare delle celebrazioni legittime. Attorno ad esso, niente più cortine, ma lo spessore dei muri della camera «da letto», la chiusura di una porta che i figli oltrepassano solo in via eccezionale, mentre i genitori possono in qualunque momento penetrare nel luogo dove essi dormono. La Chiesa, prima così accigliata, prescrive ai confessori di smetterla d'importunare la gente - le donne maritate - con le loro domande. Si lasci in pace la santa notte coniugale! «Specchio della sessualità» (M. Foucault), la famiglia è anche garante del nascere bene, del «buon sangue». Guai agli anelli deboli della catena! Persino gli anarchici neomalthusiani, desiderosi di liberare i poveri e le donne dalla schiavitù di una riproduzione non controllata, si lasciano prendere nella corrente delle seduzioni dell'eugenetica, questo sogno di purificazione della discendenza nato dalle ambiguità del darwinismo sociale.

Così la famiglia è sottoposta a moti contrastanti. Da un lato i compiti che senza posa le si scoprono o le si assegnano accentuano la sua densità, la sua forza, i suoi poteri, e la spingono a chiudersi sui suoi temibili segreti. La sua privacy si fa più gelosa, mentre aumenta la sua ansietà. Si pensa a quella madre di famiglia angosciata dall'educazione del suo bambino a cui Freud diceva: «Comunque facciate, farete sempre male».

D'altra parte, la crescente consapevolezza del posto che la famiglia tiene sullo scacchiere demografico e sociale trae il potere - filantropi, medici, Stato - a circondarla di premura, a voler scoprire i suoi misteri e a penetrare nella fortezza. Quest'intervento si volge dapprima alle famiglie povere, le più bisognose, quelle che si ritengono meno adatte a svolgere i loro compiti, soprattutto nei confronti dei figli. All'inizio del secolo XX, giudici, medici e poliziotti, in nome di un «interesse del bambino» che riguarda il bambino come essere sociale, moltiplicano le loro incursioni in seno al privato.

Ma spesso anche la famiglia è complice e, in preda ai suoi propri dubbi o di fronte alle sue difficoltà e ai suoi conflitti interni, richiede l'intervento poliziesco. Dimodoché il controllo sociale non è solo il peso di uno sguardo esteriore, l'efficacia rinforzata del panoptismo, ma un giuoco infinitamente più complesso di desideri e di lamentele. Nello Gévaudan, alla fine del secolo XIX, la richiesta d'intervento della giustizia viene sempre più spesso dalle famiglie stesse e dall'individuo bersagliato dalla famiglia.

«Mano invisibile» del funzionamento sociale, «divinità nascosta» dell'economia, a volte cospiratrice perfino in seno alla democrazia politica, la famiglia si colloca ai confini indecisi tra pubblico e privato. La frontiera che li separa serpeggia in essa, variando secondo i tempi, i luoghi e gli ambienti, come ondeggia attraverso la casa. Bisognava metter su questo scenario per capire l'intensità dei movimenti che la animano, dei conflitti che la dilaniano, delle passioni che la attraversano.

Ma ora dovremmo penetrare nel suo cuore, nella sua stessa intimità.

Pluralità dei tipi di famiglie e di vita privata

«Si tratta della famiglia», diceva Michelet, da buon giacobino. Consapevoli che questo singolare rende un suono falso, non ne eviteremo tuttavia l'uso. La letteratura qui crea l'illusione, polarizzata dall'assunzione della borghesia cittadina, affascinata da Parigi, e la costruzione di un'identità nazionale.

Tuttavia è il plurale che bisognerebbe impiegare costantemente, tanto sono grandi le diversità introdotte dall'opposizione città/campagna, questa frattura fondamentale della storia delle intimità, dagli ambienti sociali, dalle confessioni religiose, dalle stesse opzioni politiche. In verità, quali variazioni introduce nelle pratiche private il fatto di essere cattolico, protestante, ebreo o agnostico? C'è un carattere specifico del padre ebreo o della madre calvinista? Il libero pensiero ha modificato il rapporto tra i sessi o il modo di considerare il corpo? C'è una morale socialista efficace? Essere anarchico muta le maniere d'amare? Fra le due guerre, Armand faceva della libera unione la pietra di paragone della liberazione individuale e «l'En dehors», il suo giornale, offriva l'eco delle esperienze dei compagni in materia. La storia di Victor Coissac e della sua colonia di Harmonie mostra fino a che punto le resistenze in proposito erano forti. Dal dire al fare ci corre parecchio.

Ricordando la morte di sua madre, i suoi sentimenti e il loro modo di esprimersi, Stendhal contrappone i cuori del Delfinato «ai cuori di Parigi». «Il Delfinato ha la sua propria maniera di sentire, viva, tenace, portata a ragionare, una cosa che non ho incontrato in nessun paese. Per occhi chiaroveggenti, a tutti e tre i gradi di latitudine, la musica, i paesaggi e i romanzi dovrebbero mutare» (la Vie de Henry Brulard).

Ciò che Stendhal, così sensibile alle differenze regionali, spiega anche col clima, Hervé Le Bras ed Emmanuel Todd, in un libro recente (L'invention de la France, 1981) attribuirebbero all'estrema varietà delle strutture familiari per cui «dal punto di vista antropologico la Francia non dovrebbe esistere». Criticando il carattere troppo spesso universitario di una storia delle mentalità preoccupata più dell'evoluzione temporale che delle diversità geografiche, gli autori insistono sulla varietà dei sistemi di parentela regionali. Sotto questo angolo visuale «c'è tanta differenza tra la Normandia e il Limousin quanta fra l'Inghilterra e la Russia». Riprendendo e assottigliando le classificazioni di Le Play, distinguono tre grandi tipi, di cui stabiliscono la cartografia: 1°, le regioni a struttura nucleare, in cui l'età del matrimonio e il tasso di celibato sono meno stabili che altrove: Normandia, Interno dell'Ovest, Champagne, Lorena, la regione di Orléans, Borgogna, Franca Contea; 2°, le regioni di struttura complessa, dove l'età del matrimonio sfugge in parte al controllo: zona di Sud-Ovest, Provenza, Nord; 3°, le regioni di struttura complessa dove l'età matrimoniale è controllata: Bretagna, regione basca, Sud del Massiccio centrale, Savoia, Alsazia.

In ognuno di questi complessi ci sono dei sistemi di autorità che obbediscono a certe logiche familiari diverse e che influiscono tanto sui rapporti genitori-figli che sull'età del matrimonio e sui rapporti tra i coniugi. «Ognuno di questi grandi tipi familiari corrisponde a un tipo di sentimento familiare. [...] Ogni struttura familiare produce le sue tensioni e la sua patologia specifica». Tassi di illegittimità, di suicidio, forme di violenza, anche opinioni politiche sono ampiamente condizionati da questo parametro fondamentale. Senza seguire gli autori fino ai limiti di una dimostrazione volutamente sistematica — e per forza di cose semplificatrice —, ammettiamo volentieri le lacune della nostra analisi regionale più ancora che sociale.

Si manca, è vero, di materia prima, nonostante gli studi della scuola etnologica francese e soprattutto di quello, del tutto esemplare ai nostri fini, di Elisabeth Claverie e Pierre Lamaison. Questo lavoro, fondandosi sullo spoglio di importanti archivi giudiziari, tende necessariamente a privilegiare i conflitti. Ma è un saggio antidoto alle prospettive troppo serene di un equilibrio delle famiglie nelle società tradizionali. Gli studi culturalisti o strutturali hanno dei risultati d'immobilismo che vengono appunto dalla ricerca di ciò che resta lo stesso, senza subire variazioni. Ora, la società dell'Ottocento non ha nulla d'immobile, nemmeno nelle campagne arretrate. Essa è in continuo movimento e a questo movimento si associano le frontiere del pubblico e del privato, le maniere di vivere, di sentire, d'amare e di morire.

Certo, i fattori di unificazione sono molto potenti: il diritto, le istituzioni, la lingua, ben presto la scuola, questo rullo compressore della diversità, i mass media, gli oggetti di consumo che diffondono le mode parigine, il potere di attrazione d'una capitale adorata quanto temuta, la circolazione degli uomini e delle cose: tutto pesa su un processo che impone uniformità ai modi di vita privata.

Ma anche le resistenze hanno una forza che stupisce. Per Eugen Weber solo la Seconda guerra mondiale segna la fine dei «paesi d'origine». Quanto alla classe operaia, ha unità solo nei discorsi della paura borghese, poi della coscienza militante.

I segreti che caratterizzano le famiglie e il mistero degl'individui persistono e mutano. Ecco ciò che dovremmo afferrare e che invece possiamo solo intravedere.


Figure e compiti
di Michelle Perrot

 

La figura del padre

Figura rappresentativa della famiglia come della società civile, il padre domina con tutta la sua statura la storia della vita privata dell'Ottocento. Il diritto, la filosofia, la politica, tutto contribuisce a consolidare e giustificare la sua autorità. Da Hegel a Proudhon — dal teorico dello Stato al padre dell'anarchia —, il suo potere si basa su una maggioranza. Il padre dà il nome, ossia mette al mondo in senso proprio e, secondo Kant «il parto giuridico è il solo parto autentico». Privati del re, i tradizionalisti vogliono restaurare il padre. Ma, su questo punto, i rivoluzionari non restano per nulla indietro, non più dei repubblicani — come ha dimostrato Françoise Mayeur a proposito di Jules Ferry —, che affidano al solo padre di famiglia le chiavi della città. «È un assioma della scienza politica che bisogna rendere onnipotente l'autorità nella famiglia per renderla meno necessaria nello Stato. Sotto questo rapporto, le nostre grandi assemblee repubblicane si sono ingannate sminuendo il potere maritale e quello paterno», scrive Jules Simon, deplorando il retrocedere della correzione paterna. I repubblicani deliberano sotto l'occhio di Marianne, mentre una statuomania delirante colloca donne dappertutto: ai piedi dei grandi uomini o in atto di incoronare la loro fronte. Ma questo sovrainvestimento dell'immaginario, questa frenetica celebrazione della «Musa e della Madonna» non sono che una maniera di riaffermare l'organizzazione dello spazio pubblico e privato.

Il Codice dei diritti dell'uomo

Portalis scrive: «La differenza che sussiste nell'essere dei coniugi presuppone una differenza nei loro rispettivi diritti e doveri». In nome della natura il Codice civile stabilisce la superiorità assoluta del marito nella cellula coniugale e del padre nella famiglia, nonché l'incapacità della donna e della madre. La donna sposata cessa di essere un individuo responsabile: lo è molto di più se nubile o vedova. Quest'incapacità, espressa dall'art. 213 («Il marito deve protezione alla moglie e la moglie obbedienza al marito») è quasi assoluta. La donna non può essere tutrice o sedere in un consiglio di famiglia: le vengono preferiti dei parenti lontani di sesso maschile. Non può testimoniare agli atti. Se abbandona il domicilio coniugale, può esservi riportata dalla forza pubblica e costretta «ad adempiere ai suoi doveri e a godere dei suoi diritti in piena libertà». La moglie adultera può essere punita con la morte perché rischia di attentare alla cosa più sacra della famiglia: la filiazione legittima. Nello Gévaudan, si tollerano le avventure galanti ma si guarda alle gravidanze: nessuna indulgenza per le donne colpevoli di mettere al mondo un illegittimo. L'uomo adultero non rischia nulla; gode di grandi complicità; la ricerca di paternità è vietata dal Codice civile, mentre la morale consuetudinaria esigeva il matrimonio del genitore con la ragazza che aveva ingravidato.

Nella comunanza dei beni, la donna non può disporre dei suoi, regime che si estende senza posa. Come il figlio minorenne a cui tanto somiglia, non può disporre del proprio salario, fino a una legge del 1907 che gliene accorda finalmente la disponibilità. Nelle famiglie dei viticoltori dell'Aude, alla fine dell'Ottocento, il salario della coppia è versato al marito. La donna è protetta nei suoi beni solo dal regime dotale, in netta regressione, o dalla separazione dei beni che presuppone contratto, pratica da ricchi, anch'essa in regresso. Eventualmente efficace nelle famiglie ricche, il Codice lascia singolarmente prive di protezione le mogli povere. Certuni vanno anche oltre la legge. Alexandre Dumas ritiene che un marito tradito abbia il pieno diritto di farsi giustizia da sé. Proudhon enumera sei casi (tra cui l'impudicizia, l'ubriachezza, il furto e la dilapidazione) in cui «il marito può uccidere la moglie in base al rigore della giustizia paterna» (la Pornocratie ou les Temps modernes, 1875).

Quest'onnipotenza vale anche nei confronti dei figli. La sensibilità nei riguardi dell'infanzia non ha intaccato né l'autorità della famiglia né il potere paterno. La Rivoluzione francese si era limitata a piccole riforme (abolizione del potere paterno sui maggiorenni; soppressione del diritto di diseredare; limitazione del diritto di correzione...), e il progetto di Robespierre — sottrarre ai genitori i bambini di sette o otto anni per allevarli in comune nel rispetto delle idee nuove — non fu mai discusso.

Per quanto, secondo Le Play, la Rivoluzione abbia ucciso il padre privandolo del diritto di testare, il Codice civile mantiene molte concezioni antiche. Il figlio, anche maggiorenne, deve «provare un sacro rispetto alla vista degli autori dei suoi giorni», e se «la natura e la legge allentano per lui i legami del potere paterno, la ragione viene a stringerne vieppiù i nodi». L'autorizzazione dei genitori per il matrimonio è, fino al 1896, obbligatoria prima dei venticinque anni.

Il padre può fare arrestare i figli e servirsi delle prigioni di Stato come faceva col sistema delle lettres de cachet, a titolo di «correzione paterna», mantenendo così una polizia di famiglia in cui il potere pubblico agisce per delega. Tuttavia gli articoli 375 e 382 del Codice civile (libro I, titolo IX) ne fissano le condizioni. «Il padre che [ha] dei motivi di malcontento molto gravi a proposito della condotta di un figlio» può appellarsi al tribunale del distretto; fino a sedici anni la detenzione non. può superare un mese; da sedici anni alla maggiore età va fino a sei mesi. Le formalità e le garanzie sono molto ridotte: niente di scritto, nessuna formalità giudiziaria, se non l'ordine stesso, d'arresto in cui non sono precisati i motivi. Se, dopo uscito di prigione, il figlio «cade in nuove mancanze», la detenzione può essere di nuovo ordinata. Per consentire alle famiglie povere di valersi di questa pratica, con leggi del 1841, poi del 1885, lo Stato provvede alle spese di vitto e di mantenimento quando la famiglia non può assumersene il carico. Chi è imprigionato per motivi di correzione paterna è assimilato al giovane delinquente di cui è dichiarato che ha agito «senza discernimento», che, se la famiglia — il padre — non lo richiede, viene eventualmente internato fino alla maggiore età in una casa di correzione.

Pazzi, dementi e imbecilli, privati dei loro diritti civili, possono essere internati, se la famiglia ne fa richiesta, in forza della legge del 1838. Sotto questo rispetto è riconosciuto il diritto del marito sulla moglie, come dimostra la storia di Clémence de Cerilley, la sorella d'Emilie; la sua famiglia si trova ad affrontare gravissime difficoltà per liberarla da un internamento ottenuto dal marito attraverso la compiacenza di chi di ragione. I casi d'internamento delle donne dichiarate pazze nel secolo XIX aumentano in misura spettacolare: 9.930 nel 1845-1849, sono più di 20.000 nel 1871 (Yanick Ripa). Nell'80 per cento dei casi i richiedenti sono degli uomini (per un terzo mariti, padri o padroni). È vero che le donne facevano uso anche più che non gli uomini della domanda di internamento, che opera più largamente come una polizia familiare: ci torneremo su.

Poteri

I poteri del padre sono duplici. Egli domina totalmente lo spazio pubblico. Lui solo gode dei diritti politici. Nel secolo XIX la politica è definita dominio esclusivo dell'uomo, fino al punto che Guizot prescriveva di bandirla dai salotti, luoghi di presenze miste e frivoli. La contessa Arconati Visconti, il cui salotto accoglieva i repubblicani della fine del secolo, fu un giorno pregata da Gambetta di escluderne le donne per accrescerne la serietà: e lo fece.

Ma i poteri del padre sono anche domestici. Si esercitano in quella sfera privata di cui si avrebbe torto a pensare che è affidata in esclusiva alle donne, anche se la loro parte effettivamente vi va crescendo. In primo luogo il padre è padrone del danaro. Negli ambienti borghesi regola le spese della famiglia rimettendo alla moglie una somma globale, spesso appena sufficiente. La tenera Caroline Orville non capisce che il marito, in piena guerra e separazione (1871), la rimproveri per un conto di sarta, la sola spesa che lei si permette perché ci «tiene a essere ben messa»: è il suo dovere. Anche generoso il padre esercita così controllo e potere. Lo si vede bene nel caso di Victor Hugo che, nell'ansia dell'unità del goum, si sforza di trattenere a Guerneseg i suoi che cercano di andarsene facendo il conto delle somme che chiedono per i loro viaggi. Questo pesa in particolare sulla moglie e sulla figlia, Adele, che dipendono totalmente da lui. Hugo si lamenta di essere solo il «cassiere» della famiglia (Henri Guillemin, l'Engloutie, 1985, p. 105). Ma come poteva essere altrimenti? Negli ambienti rurali la situazione è molto simile. Solo gli strati operai o popolari della città sfuggono in parte alla dipendenza finanziaria dal padre; la donna, bottegaia o semplicemente donna di casa, ha conquistato questo posto di «ministro delle Finanze» della famiglia a cui tanto tiene.

Le decisioni fondamentali spettano al padre. Nel campo economico sembra persino che i suoi poteri vadano crescendo. Così le borghesi della Francia del Nord, strettamente associate alla gestione degli affari, donne che nella prima metà del secolo fanno le contabili o le segretarie e anche le vere e proprie imprenditrici — come Mélanie Pollet, antenata di La Redoute —, nella seconda metà del secolo si ritirano nelle loro case ormai lontane dalla fabbrica, senza più il minimo rapporto con questa, (cfr. Bonnie Smith).

Lo stesso accade per le decisioni relative all'educazione, specialmente per quanto concerne i maschi, e per i matrimoni. La madre di Martin Nadaud riteneva poco utile che il figlio andasse a scuola, desiderando di avviarlo quanto prima era possibile al lavoro dei campi. Il padre decide diversamente e si presenta qui come uomo di buon senso. Parecchi matrimoni sono combinati dai padri e vedono madri, che simpatizzano con la voce del cuore, prendere le parti delle figlie desolate, come nelle commedie di Molière. E’ il caso di madame Hugo, nel penoso conflitto che contrappone Adele a Victor.

In molti casi la decisione del padre si fa forte degli argomenti della scienza e della ragione. Contro le donne devote e oscure, troppo sensibili al sentimento, tentate dalla passione, minacciate dalla follia, il padre — il maschio — deve sostenere i diritti dell'intelligenza. A questo titolo Kant, Comte e Proudhon rivendicano il primato del padre nella famiglia: gli affari di casa sono troppo importanti per essere lasciati alle deboli donne.

Sempre a questo titolo, il marito ha diritto di tener d'occhio le frequentazioni, l'uscir di casa, l'andare o venire, la corrispondenza della moglie. Alla fine dell'Ottocento ci fu tutta una controversia in proposito; essa dimostra a un tempo la spinta di un femminismo individualista condiviso da un certo numero di uomini, e i suoi limiti, poiché nessuna misura fu presa per proteggere il diritto delle mogli al segreto della loro posta: tutt'al contrario, la maggior parte dei magistrati si pronunciarono contro questo diritto. «Le Temps» (marzo 1887), avendo sollecitato il parere dei suoi lettori in proposito, ricevè un gran numero di risposte e ne pubblicò qualcuna.

Fortemente favorevole al diritto del marito, Alexandre Dumas riteneva che «un marito con qualche dubbio sulla moglie, se, per sincerarsi, esita ad aprire le lettere che ella riceve, è un imbecille». Un sacerdote adduceva l'appoggio della dottrina della Chiesa: «Il marito è il padrone nella sua casa». Pressensé aveva, per parte sua, una posizione molto più sfumata, che opponeva il diritto ai costumi, mentre Juliette Adam e madame de Peyrebrune prendevano, con importanti sfumature, nettamente posizione per la libertà. Per la prima la realtà quotidiana smentisce il Codice; la donna «conquista una libertà nonostante la legge», corrisponde «con la madre, con le sorelle, con le figlie, con le amiche». La seconda sottolineava la logica della posizione degli avvocati, «conseguenza delle leggi che limitano la libertà morale della donna nel matrimonio». E dunque la legge che va cambiata.

Nel 1897, il sostituto procuratore generale della Corte d'appello di Tolosa, nella solenne conferenza di riapertura, passava in rivista gli argomenti degli uni e delle altre, per concludere affermando la legittimità dei diritti del marito e del dovere di sottomissione delle donne, nella maggior parte dei casi felici di essere protette contro se stesse. La questione non fu meno controversa in giurisprudenza: che fare del diritto al segreto delle lettere confidenziali che non devono essere comunicate a terzi, fino al punto che, alla morte del destinatario, era ammesso che il mittente ne chiedesse la restituzione? Ma il marito si poteva considerare un terzo?

La casa del padre

Così spesso fuori di casa, il padre domina anche la casa. Ha luoghi che gli appartengono: 'A fumoir e il biliardo, dove gli uomini si appartano per chiacchierare, dopo i pranzi mondani; la biblioteca, perché i libri — e la bibliofilia — restano una cosa da uomini; lo studio dove i figli entrano solo tremando. Secondo i Goncourt, Sainte-Beuve non è veramente se stesso se non nel suo antro del primo piano, lontano dal vocìo delle donne, a pianterreno. Nemmeno una donna che lavora ha un ufficio, estensione del pubblico nel privato. Pauline Reclus-Kergomard, ispettrice delle scuole materne dal 1879, smista le sue carte sulla tavola della sala da pranzo, mentre Jules, suo marito, se ne sta a fantasticare nel suo ufficio vuoto, con grande scandalo dei suoi figli, ci racconta Hélène Sarrazin (Élisée Reclus ou la Passion du monde, 1985).

In salotto compiti e posti sono divisi; per lo meno Kant li stabilisce rigorosamente. Il salotto di Victor Hugo, col gruppo degli uomini al centro in piedi, e le donne sedute tutt'attorno, è un modello del genere. La scelta dell'arredamento è, molto più di quanto non si creda, lasciata all'uomo. Al momento del matrimonio la casa è ammobiliata dal futuro genero in rapporto con la suocera, secondo i manuali di galateo. Ma Jules Ferry «bombarda di lettere suo fratello a proposito dell'appartamento desiderato» per la sua futura famiglia con Eugénie Risler e di direttive «sull'installazione, il colore delle tende e dei tappeti» (Fresnette Pisani-Ferry, Jules Ferry, l'homme intime, Colloque Ferry). Al tempo stesso, vero e proprio Pigmalione, insegna a sua moglie come vestire, come pettinarsi, come valorizzare la sua bellezza. Gli uomini, che mettono in scena le donne a teatro e attraverso la moda, fanno lo stesso in casa. Quando sono ricchi non disertano la casa, ma la riempiono dei loro acquisti — sono grandi collezionisti — e dei loro fantasmi. L'aspetto domestico allora sparisce di fronte alla creazione.

Victor Hugo ha sempre coltivato il sogno di una casa centro del suo mondo, e dunque del mondo. L'esilio gliene ha offerto l'occasione. A Guernesey ha comprato, trasformato, ornato Hauteville House a dispetto della moglie. «La nostra condizione di proprietari non mi piace», scrive alla sorella. Adele vede anche troppo bene ciò che questo installarsi comporta di servitù per lei, così amante dei viaggi e delle città, e d'isolamento per i figli privati dei rapporti sociali necessari alla gioventù. «Ammetto che con la tua celebrità, con la tua missione, con la tua personalità, tu abbia scelto una roccia che ti fa mirabilmente da cornice, e capisco che la tua famiglia, che è qualcosa solo per merito tuo, si sacrifichi non solo al tuo onore, ma alla tua immagine», scrive a Victor (1857). «Io ti amo, ti appartengo, ti sono sottomessa. Ma non posso essere assolutamente schiava. Ci sono circostanze in cui si ha bisogno della propria libertà personale». Il padre, patriarca, troneggia come un dio nel tabernacolo della sua casa.

Hugo — questo «dolce tiranno» a detta del figlio — è senza dubbio una delle figure di padre più grandiose del secolo. Innalza fino al sublime tutte le caratteristiche, fisiche e morali, di generosità e di dispotismo, di devozione e di potere, accompagnate da tutti i lati ridicoli e dalle piccinerie del padre borghese, provvisto d'amanti e timoroso dei pettegolezzi; dall'egoismo del padre crudele che preferisce l'internamento in un'oscura «casa di salute» della figlia demente alla vergogna che sarebbe «per il nostro nome» il fatto che la sua pazzia fosse nota e la sua presenza in famiglia. «Una disgrazia può sempre accadere», scrive a proposito di lei; e Henri Guillemin osserva che, quanto a lui, sembrava desiderarlo (op. cit.). Il potere del padre offeso nella sua gloria può arrivare al delitto. E per questo, se si vuol sopravvivere, bisogna uccidere il padre.

Il secolo XIX è pieno di figure di padri trionfanti e dominatori e si riconosce in questi. La maggior parte dei creatori ha trasformato la sua casa in studio e le mogli e le figlie o sorelle in segretarie: così nel caso di Proudhon, di Elisée Reclus, Renan e Marx, altro ritratto a figura intera della nostra galleria, ben noto nell'intimità grazie specialmente alla corrispondenza scambiata con le figlie e delle figlie tra loro. Padre adorato e attento, padre despota e pignolo quanto alle scelte, professionali o matrimoniali, delle figlie. Èleanor, praticamente costretta a rinunciare a far l'attrice e ad amare Lissagaray è finalmente tradita da colui di cui il padre preferiva il socialismo, Aveling. Eleanor, reclusa accanto a Marx, malato e che non la capisce, viene a far parte dell'esercito di figlie sacrificate alla gloria e ai desideri del padre. Quel padre che spesso anche apre loro le porte del mondo. Perché il potere del padre è la forma suprema del potere maschile, esercitato su tutti, ma più sui deboli, dominati e protetti.

Questa figura di padre non è solo cattolica: essa è ugualmente protestante, ebraica o atea. Non è solo borghese: è profondamente popolare. Proudhon ne ha fatto una forma di onore. C'è in lui un insistente desiderio di paternità. Molto presto ha pensato di farsi fare un figlio, «mediante un'indennità pecuniaria, tramite una ragazza che avrei sedotto allo scopo». A quarantun anni sposa una giovane operaia di ventisette «semplice, graziosa e ingenua», attaccata al lavoro e ai suoi doveri, «la più dolce e la più docile delle creature»; l'ha intravista per la strada e le fa la sua richiesta per lettera: un pezzo da antologia. La sceglie perché succeda alla madre: «Se questa fosse stata viva, non mi sarei sposato». Ma «in mancanza dell'amore, io sognavo la famiglia e la paternità [...]. La riconoscenza di mia moglie mi ha gratificato di tre bambine bionde e colorite, allattate personalmente dalla madre; la loro esistenza colma tutta la mia anima». «La paternità ha colmato in me un immenso vuoto», scrive anche; è «come un raddoppiamento dell'esistenza, una specie d'immortalità».

Per i proletari la paternità è a un tempo la forma più elementare di sopravvivenza, di patrimonio e di onore. La classe operaia fa sua la paternità/virilità, questa visione classica dell'onore maschile venuta dalle società rurali tradizionali e costruisce su di essa, in parte, la propria identità.

La morte del padre

Perciò la morte del padre è, fra tutte le scene della vita privata, la più grande, la più carica di tensione e di significato. E la scena che si racconta e che si rappresenta. Il letto del morente non è più senza dubbio quello delle «ultime volontà»: queste sono regolate dalla legge. Ma, lo stesso, resta il luogo degli addii, del passaggio di potere, delle grandi riunioni, dei perdoni e delle riconciliazioni, dei nuovi odii nati dall'ingiustizia dell'epilogo.

La madre muore con discrezione; vedova sola, più vecchia, ha visto già i suoi figli andar via; solo di rado conserva ancora la chiave degli affari o delle scorte. Nello Gévaudan, spesso ella non è più altro che una bocca da nutrire, alloggiata con impazienza in mezzo ai figli minori dall'erede. Il padre, come nella favola, «chiama a sé i figli». Caroline Brame a Lilla, ha visto morire «Bon Papa», il nonnino, il fondatore della dinastia, il vecchio Louis Brame. I fratelli nemici sono là. «Bon Papa ci ha baciato tutti, poi, chiamando mio padre e mio zio Jules, ha consegnato loro i suoi libri contabili, ha reso loro conto degli affari e ha raccomandato loro i suoi domestici. Aveva in viso non so quale espressione celeste» (Journal). Il padre di Proudhon, un povero bottaio, sceglie una morte da principe, alla fine di un pasto a cui ha convitato parenti e amici per far loro i suoi addii: «Ho voluto morire in mezzo a voi. Su, servite il caffè».

Grande frattura economica ed affettiva della vita privata, la morte del padre è l'evento che dissolve la famiglia, che consente alle altre famiglie di esistere e agli individui di rendersi liberi. Di qui il desiderio che talvolta si prova di questa morte e la severità della legge contro il parricidio. Delitto sacrilego, da cui di rado si è assolti, ha come più sicuro esito il patibolo e mantiene a lungo il suo marchio d'infamia.

Ma ci sono molti altri modi di uccidere il padre, compresa la propria nevrosi. Sartre vede la malattia di Flaubert come «uccisione del padre» (L'Idiot de la famille, t. II, pp. 182 sgg.), Achille-Cléophas, il modello temuto, quello che dispone della sua vita e lo destina al diritto: «Gustave farà il notaio. Lo farà perché già lo è, in virtù di un destino segnato in precedenza che si riconduce alla volontà d'Achille-Cléophas». «La nevrosi di Flaubert è il padre stesso, quest'essere assoluto, questo Super-io installato in lui, che lo ha ridotto a un impotente valore negativo». La morte del padre libera Flaubert del peso insopportabile che faceva gravare sulla sua vita. All'indomani della sepoltura Flaubert si dichiara guarito. «È stata una cosa che mi ha fatto l'effetto di una bruciatura per togliere una verruca [...]. Finalmente! Finalmente lavorerò».

La morte del padre assilla i romanzi d'appendice la cui struttura familiare è così forte nella prima metà dell'Ottocento. È la sola via che abbia il figlio per accedere alla maturità e al possesso della donna (Lise Quéffelec).

Tuttavia ci sono bene dei limiti al potere paterno, stilati dal diritto o imposti dalle resistenze crescenti che incontra. La storia della vita privata nell'Ottocento può essere letta come una lotta drammatica tra il Padre e gli Altri.

La soppressione del diritto di testare, quest'uccisione del padre (Le Play), permette e incoraggia la divisione dei patrimoni e dissolve il potere dei patriarchi. Considerata distruttiva nei paesi di famiglie allargate che fanno resistenza evadendo la legge, è salutata altrove come liberatrice: così nelle regioni del Centro. Nel 1907, Émile Guillaumin denunzia i vecchi costumi della famiglia allargata come «uno sfruttamento dei figli per parte del padre», che va bandito per sempre. Anche nelle regioni dove sopravvive la cultura occitanica, le tensioni, nel corso del secolo, si fanno sempre più vive.

L'evoluzione giuridica, nel secolo XIX, è un lento, lentissimo, è vero, rosicchiamento delle prerogative del padre. Da un lato sotto la spinta delle rivendicazioni concorrenti delle mogli e dei figli; d'altro lato in ragione della tutela crescente che esercita lo Stato, soprattutto sulle famiglie povere, in nome dell'incuria del padre. Le leggi del 1889 sulla perdita della patria potestà o del 1898 contro i maltrattamenti inflitti ai bambini determinano un accresciuto controllo in nome dell'interesse del bambino. La legge del 1912, dopo tutta una serie di tentativi che cominciano nel 1878, riconosce alla fine il diritto di ricerca della paternità nel caso, non solo di rapimento e di violenza, ma anche di «seduzione dolosa» (prove scritte). I partigiani della legge — filantropi, legislatori, gente di Chiesa — difendono le ragazze madri e il bambino abbandonato.

La crescente capacità accordata alle mogli, il diritto di divorzio (1884), per lo più richiesto da queste, come le separazioni legali, tutto ciò costituisce evidentemente una retrocessione del potere del padre. Si potrebbe trovarne conferma perfino nei dettagli della giurisprudenza; per esempio sulla questione del diritto di visita ai nonni materni da parte dei bambini delle coppie separate affidati al padre. Fino al Secondo Impero il padre non ha nessun obbligo in proposito; una decisione del 1867, che costituirà giurisprudenza, decide «nell'interesse del bambino» di venire incontro alla domanda dei nonni materni.

Ma il diritto non fa che ratificare, timidamente e con ritardo, la sorda e costante rivendicazione che si esercita in seno alla famiglia e che porta alla fine la sua trasformazione. La famiglia democratica e contrattuale, come la vedeva Tocqueville negli Stati Uniti all'inizio del secolo, non è il risultato di un'evoluzione spontanea, legata al progresso della modernità, ma piuttosto il risultato di un compromesso, fonte a sua volta di nuovi desideri.

Matrimonio e famiglia

Il matrimonio, crogiolo della famiglia, ha costituito l'oggetto di numerosi studi, etnologici e demografici, che ci dispensano dal soffermarci a lungo su di esso. Più oltre, Anne Martin-Fugier descrive i suoi riti; Alain Corbin mostra il lento affermarsi del sentimento, l'esigenza affettiva e sessuale che trasforma la coppia moderna e si oppone talvolta in forma conflittuale alle strategie familiari.

Qui ci limiteremo a ricordare certi tratti fondamentali. In primo luogo la forza normativa della coppia eterosessuale che mette capo al doppio rifiuto dell'omosessuale e del celibe, questi esclusi. La caratteristica dell'Ottocento risiede nella polarizzazione degl'interessi intorno al matrimonio che tende ad assorbire tutte le funzioni: non solo il legame di affinità, ma anche il sesso. «La famiglia stabilisce lo scambio della sessualità e dell'affinità: trasporta la legge e la dimensione giuridica nel dispositivo della sessualità; e trasporta l'economia del piacere e dell'intensità delle sensazioni nel regime del legame di affinità» (M. Foucault). Questa trasformazione si effettua a velocità variabili. Qui la borghesia è motrice: la coscienza del corpo è una forma della coscienza di sé. D'altra parte matrimonio e desiderio non sempre vanno d'accordo, tutt'altro. Il dramma delle famiglie, la tragedia delle coppie stanno spesso in questo conflitto tra vincolo matrimoniale e desiderio. Più le strategie matrimoniali volte ad assicurare la coesione familiare sono strette, più canalizzano o soffocano il desiderio. Più l'individualismo è forte, più insorge contro la scelta del gruppo, i matrimoni decisi o combinati. Questa è la molla del dramma romantico o del delitto passionale.

Due aspetti demografici traducono queste caratteristiche. Da un lato un forte tasso di nuzialità (intorno al 16 per cento) relativamente stabile, con una flessione sotto il Secondo Impero e soprattutto per il periodo 1875-1900. Questo ha destato la preoccupazione dei demografi, che si erano in precedenza trovati davanti alla diminuzione del tasso di natalità: e di qui le campagne popolazioniste e moralizzatrici dell'epoca, e le diatribe contro i celibi. Tuttavia il tasso di celibato o di nubilato come condizione definitiva è scarso: al disopra dei cinquantanni non supera in media il 10 per cento per gli uomini e il 12 per cento per le donne.

Secondo aspetto notevole: l'abbassamento dell'età matrimoniale. Il matrimonio ritardato, legato a una perdita del matrimonio-sistemazione, era anche il principale mezzo contraccettivo delle società tradizionali. Proudhon dice dei suoi ascendenti che si sposano «quanto più tardi è possibile»; ostile alle pratiche contraccettive resta, per quel che lo riguarda, favorevole a questo ritardo. Nell'Ottocento, tuttavia, la diffusione di uno spirito contraccettivo (se non di metodi, che restano molto rudimentali), e quella della piccola proprietà, che permette una più rapida sistemazione, hanno favorito l'abbassamento dell'età matrimoniale.

Contadini proprietari di piccoli appezzamenti, operai e anche borghesi cercano di farsi una famiglia quanto prima è possibile. «Nel mondo civilizzato», dice Taine, i principali bisogni dell'uomo sono «un mestiere e una famiglia». E anche il modo di sfuggire all'influenza dei genitori, di vivere indipendenti. Ci si aggiunge la ricerca di un partner più giovane e desiderabile, in particolar modo da parte delle donne, ormai riluttanti a sposare dei vecchioni. George Sand si meraviglia dei quarantanni circa che separano la nonna dal marito, Dupin de Franceuil, tirandosi addosso questa superba replica: «E stata la Rivoluzione a inventare la vecchiaia nel mondo». Caroline Brame, tanto dolce, insorge contro simili pratiche; assistendo al matrimonio di una ragazza che sposa «un amico di suo padre che ha il doppio dei suoi anni» commenta: «Una cosa che non mi piacerebbe affatto» (Journal, 25 novembre 1864). I suoi gusti la portano verso un giovane della sua età, diciannove anni, cosa del resto disapprovata dalla famiglia.

In verità percentuali e tendenze medie non significano molto nei campi che dipendono strettamente dalle strutture familiari. La documentazione fissata da H. Le Bras ed E. Todd è eloquente. «Il grado di precocità matrimoniale è un buon indizio del tipo di controllo esercitato da un sistema sociale su questi giovani adulti [...]. Un'età matrimoniale alta indica una struttura familiare di tipo autoritario. Dà luogo a numerosi casi di celibato, e questi celibi, talvolta, restano per tutta la vita nelle famiglie dei fratelli o delle sorelle sposati, come bambini invecchiati, come etemi zii». L'età matrimoniale delle donne, nel 1830, e in grado minore nel 1901, è particolarmente elevata in Bretagna, nel Sud del Massiccio centrale, nella regione basca, in Savoia e in Alsazia. La persistenza delle pratiche malthusiane coincide anche coi paesi cattolici, poiché la Chiesa preferisce la «morale ristretta» del matrimonio ritardato a ogni altra forma di controllo delle nascite.

Sposare il proprio simile

La scelta sociale del coniuge è ugualmente oggetto di strategie che sono il grande affare delle famiglie. Omogamia, anche endogamia, sono in tutti gli ambienti, regionali e sociali, tendenze affermate, che spiegano anche le forme di sociabilità: si sposa il proprio simile anche perché lo si incontra. La riproduzione (nel senso di P. Bourdieu) è all'opera in quei processi il cui determinismo non deve far dimenticare i giuochi degl'individui che ci si sottomettono o ci si ribellano in una molteplicità di storie singolari.

L'endogamia, accentuatissima nelle campagne d'Ancien Regime, regredisce nel secolo XIX per effetto delle migrazioni. Tuttavia le regole familiari valgono anche per gli emigranti. Alverniati o nativi del Limousin che vengono temporaneamente a Parigi, nel movimento pendolare di stagione che caratterizza la prima metà del secolo, hanno un doppio circuito sessuale: quello delle frequentazioni cittadine e del matrimonio nel proprio villaggio. Così nel caso di Martin Nadaud, il cui matrimonio al paese combina tuttavia la personale attrazione (la seduzione attraverso gli sguardi vi ha la sua parte) con una scrupolosa realizzazione delle volontà paterne.

La liberazione dalle costrizioni è senza dubbio più reale per gli uomini, più mobili. Così a Vraiville (Eure), su cui vertono gli studi di Martine Segalen.

Matrimoni di nativi di Vraiville contratti nel comune calcolati in percentuale:

                        U         D

1753-1802       63        86

1853-1902       41,9      89,2

Le città accentuano questo mescolarsi fin dall'ultimo terzo del secolo XVIII. La proporzione dei coniugi nati fuori delle mura cresce senza posa, come hanno dimostrato numerosi studi demografici (Caen, Bordeaux, Lione, Meulan, Parigi...). Tuttavia i quartieri hanno fatto presto a ricostituire dei paesi d'origine. A Belleville, nell'Ottocento, «i futuri sposi s'incontrano e si sposano in uno spazio molto ristretto» (G. Jacquemet). Ma la conoscenza reciproca prende qui il posto della comune provenienza; i giuochi dello sguardo, della parola e del desiderio fanno esplodere le regole delle convenienze.

L'omogamia è ovunque elevatissima. Di regola nell'ambiente borghese, dove il matrimonio è dettato dagli interessi delle famiglie e delle firme, raggiunge il colmo quando si combinano parecchi fattori di identità: così presso gl'industriali protestanti del cotone, a Rouen, dove i nomi si incrociano in un vero e proprio balletto di cugini consanguinei. Nello Gévaudan, princìpi molto rigidi destinati a mantenere l'equilibrio degli eustals regolano il matrimonio, cicli che regolano la circolazione dei beni, delle doti e delle donne. Gli «eredi» sposano una «cadette»; la sorella fornita di dote sposa un erede.

Gli ambienti operai non sfuggono a questa economia di scambio. Vetrai, lavoranti di nastri o metallurgici della regione di Lione (cfr. Yves Lequin, E. Accampo) si sposano tra loro e davanti a testimoni che fanno lo stesso mestiere. Lavoro e vita privata si incastrano in «endogamie tecniche» in cui si sovrappongono mestiere, famìglia e territorio: così a Saint-Chamond (fabbricanti di nastri), a Givors (vetrai), a La Croix-Rousse o anche al quartiere Saint-Antoine (Parigi) dove, fra gli ebanisti, la tradizione professionale e anche militante si trasmette da padre a figlio.

In questi ambienti di mobilità ridotta le distinzioni si esprimono in un senso estremo di piccole gerarchie. Ecco qui Marie, giovane guantaia di diciannove anni, a Saint-Junien (Haute-Vienne). Di fronte all'alloggio della sua famiglia abita un cugino, specialista qualificato nell'arte di fabbricare i guanti. «Non si abbozza nessun romanzo» — scrive il ricercatore della monografia di famiglia che li descrive — Marie è troppo al disotto del cugino nella gerarchia operaia perché si possa pensare al matrimonio».

La ricerca della dote sotto diverse spoglie persiste a livello individuale. Le donne di servizio e le operaie serie sono apprezzate: con le loro economie i giovani operai pagano i loro debiti o tentano di sistemarsi: così a Lione, Norbert Truquin. Le donne sono le casse di risparmio degli ambienti popolari.

Matrimonio impossibile

Nel 1828 «le Journal des débats» si fa eco di un delitto passionale. Una giovane operaia di diciannove anni, figlia di sarti, corteggiata da un ventenne compagno di laboratorio, che la riaccompagna a casa «tenendola a braccetto», ne parla in famiglia: può sposarlo? Si tiene consiglio; si giudica che il giovanotto non abbia né abbastanza serietà né abbastanza capacità; il padre gli trova «un brutto sguardo» e ritiene «che non abbia l'aria di possedere le qualità richieste per essere sarto». «A quel che pare, credevo di amarlo, dirà la ragazza, ma, dato che i miei genitori erano contrari, ci ho rinunciato». Rifiuto, dunque, e delitto. La forza del desiderio s'infrange contro lo scoglio del gruppo. Parecchi fatti di cronaca dell'Ottocento ci informano di impossibili storie d'amore.

Negli ambienti piccolo borghesi, il matrimonio, elemento decisivo della promozione sociale, è oggetto di calcoli e di proibizioni. L'omogamia è meno decisa: si cerca di sposarsi in uno strato sociale superiore al proprio. Gl'impiegati postali, per esempio, rifuggono dallo sposare le colleghe perché sognano una moglie casalinga. Di qui il gran numero di impiegate postali nubili, perché, a loro volta, non sposano degli operai. Le donne pagano spesso con la solitudine la loro indipendenza. Per gli uomini in via d'ascensione sociale il danaro conta meno della posizione in società, della distinzione, delle qualità di padrona di casa, anche della bellezza. È il caso di Charles Bovary incantato da Emma, che ha un parasole, la pelle bianca, la «buona educazione» di una «signorina di città». Agiato, può offrirsi una donna graziosa, alleggerita delle cure domestiche da una donna di servizio.

Il matrimonio è un negoziato condotto dai parenti (le zie paraninfe), dagli amici, dalle persone accoste (il curato), e bisogna pesarne tutti i fattori. Un nobiluccio squattrinato di Lozère scrive alla zia incaricata di trovargli una moglie, quali sono le sue aspettative: una «legittima» sufficiente per permettergli di mantenere la sua casa di Mende e il suo castello; 100.000 franchi andrebbero bene per una persona di pari condizione; ma «per una condizione inferiore alla mia, bisognerebbe che le sue risorse economiche compensassero la sproporzione più o meno accentuata fra le due condizioni» (verso il 1809, Claverie e Lamaison, p. 139).

Ma le strategie matrimoniali si diversificano e si fanno più complesse. Il danaro prende forme diverse-, mobili, immobili, affari e «speranze». Altri elementi vengono a esser presi in considerazione: il nome, la considerazione, la «situazione» (le professioni liberali godono di parecchia stima), la «classe», la bellezza fanno parte dei termini dello scambio. Un uomo maturo e ricco cerca una ragazza giovane e bella, come un re. Le apparenze, valorizzate dalle attrattive fisiche personali, sono un'arma della seduzione femminile. Un altro, in difficoltà economiche, sposerà una ragazza madre che ha del suo: è il caso di Marthe.

Amore e matrimonio

Infine, l'inclinazione, di cui Hegel tanto diffidava, e anche la passione disapprovata dalle famiglie, entrano in scena. Nella seconda metà del secolo XIX, quelli che desiderano far coincidere vincolo matrimoniale ed amore, matrimonio e felicità, sono sempre più numerosi. Sogno di Emma Bovary: «Se avesse potuto collocare la sua vita su qualche gran cuore solido, allora, nella fusione di virtù, tenerezza, piacere e dovere [...]». Le donne soprattutto, che hanno il matrimonio come unico orizzonte, pendono da questo V lato. Claire Démar (Ma loi d'avenir, 1833) rivendica un mutamento radicale nell'educazione delle ragazze, a cui «si vorrebbe lasciar ignorare persino la forma di un uomo». Ella critica il matrimonio, «prostituzione legale», preconizza la libera scelta del partner, la «necessità di un'esperienza prematrimoniale tutta fisica», il diritto all'incostanza. Impossibile contarci, ai suoi tempi. Claire si suicida; e le sue compagne saintsimoniane addolciscono il suo testo deviandolo verso la maternità.

Senza andar così lontano, Aurore Dupin, che non è ancora George Sand, ma madame Dudevant, si spiega, in una lunga lettera a Casimir, sul malinteso che li separa: il disaccordo dei gusti e dei piaceri che mina la loro coppia. «Vidi che non amavi la musica e smisi di dedicarmici perché il suono del pianoforte ti metteva in fuga. Leggevi per compiacenza, e in capo a pochi righi il libro ti cascava di mano, per la noia e per il sonno [...]. Cominciavo ad essere proprio addolorata pensando che mai potrebbe esistere il minimo rapporto fra i nostri gusti» (15 novembre 1825).

Questo sogno di partecipazione è anche — al di fuori del matrimonio - il sogno di Baudelaire, che all'indomani dalla sua rottura con Jeanne, dopo quattordici anni di convivenza, sospira: «mi sorprendo a pensare vedendo una cosa bella, un bel paesaggio, qualunque cosa gradevole: perché non è con me per ammirare questo con me, per comprare questo con me?» (lettera a madame Aupick, 11 settembre 1856).

È un fatto che anche gli uomini vogliono qualcosa di diverso: non più la sottomissione passiva, ma il consenso; se non un ruolo attivo da parte della moglie, il suo amore; certi, addirittura, la reciproca uguaglianza. Da Michelet, che consiglia «di creare da sé la propria moglie», a Jules Ferry, che, fermo sostenitore della divisione dei compiti e delle sfere dei sessi, vanta il suo matrimonio con Eugénie Kestner: «È repubblicana e filosofa. La pensa come me in tutto e per tutto e io sono fiero di pensarla come lei» (lettera a Jules Simon, 7 settembre 1875).

Eugène Boileau, di cui Caroline Chotard-Lioret ha studiato la corrispondenza con la fidanzata, esprime perfettamente questo nuovo ideale della coppia repubblicana, tutto penetrato di stoicismo romano e di libero pensiero, che fa della sua stessa unità la sua religione: «Quando sento ripetere intorno a me: "Il matrimonio [...] è la schiavitù!", grido: "No! il matrimonio è la tranquillità, la felicità, la libertà. Per suo mezzo, e solo per suo mezzo, l'uomo (e intendo qui entrambi i sessi), l'uomo giunto al suo completo sviluppo può giungere alla sua vera indipendenza. Perché diventa allora un essere completo, che costituisce in questa dualità l'unica personalità umana» (lettera a Marie, 24 marzo 1873). Aspirazione a una coppia fusa in un'unità che basterebbe a se stessa («Non mescoliamo dei terzi alla nostra vita intima, al nostro pensiero») e che fa del marito il «confidente» della moglie: «Non potrei eccedere nel raccomandarti di prendere per confidente solo il tuo amico, di aprire il tuo cuore (ma interamente) solo a quello di tuo marito, di colui che deve fare, che farà ben presto... e, oso dire, che fa già ora tutt'uno con te».

La vita in famiglia: la rivincita delle donne?

In uno spazio globalmente dominato dall'uomo, le donne godono tuttavia di compensi propizi al consenso: una relativa protezione; meno possibilità di essere incriminate; il lusso ostentato, che ha pure le sue attrattive, nel caso delle borghesi che devono «comparire»; e in fin dei conti una longevità maggiore. Esse hanno anche una possibilità d'agire non trascurabile, tanto più che la sfera privata ed i compiti femminili non hanno smesso di essere rivalutati, nel secolo XIX, da una società preoccupata dell'utilità, ansiosa della sorte dei bambini e travagliata dalle proprie contraddizioni. Come, diceva già Kant, risolvere l'affermazione contraddittoria del diritto personale — la donna è una persona — e del diritto coniugale del padrone, di natura essenzialmente monarchica? Come, se non immaginando «un diritto personale con modalità reali»? Il femminismo si è insinuato in questa crepa del diritto e dei princìpi, come anche il discorso della «maternità sociale», svolto tanto dalla Chiesa quanto dallo Stato.

Ma che fine fa ciò che vale per la vita di tutti i giorni?

Nella società rurale

Martine Segalen, Yvonne Verdier, Agnès Fine, fra le altre, hanno molto contribuito a chiarire i compiti e il posto della donna nella società rurale francese. Prendendo vigorosamente le distanze dalle descrizioni improntate a commiserazione e incomprensione dei viaggiatori dell'Ottocento — un Abel Hugo, per esempio —, la prima insiste sulla complementarità dei compiti in uno spazio in cui il lavoro stabilisce una continuità, e anche una certa confusione, tra il pubblico e il privato. L'impressione d'insieme è quella di un equilibrio relativamente armonico fra i due sessi, con la donna che tiene spesso i cordoni della borsa ed esercita, attraverso i discorsi del lavatoio o di altro luogo, un contropotere efficace.

Yvonne Verdier ha descritto i personaggi chiave di Minot, in Borgogna, e i loro compiti culturali, radicati nel loro «destino biologico»: «Dal loro destino biologico le donne passano d'un colpo al loro destino sociale», scrive. La donna aiuto (lavandaia per lo più), la sarta, la cuoca hanno delle cognizioni e dei poteri inseriti nella vita del villaggio. Non sono assolutamente chiuse in casa.

Agnès Fine, attraverso dei racconti di vita, analizza come si costruiscono i rapporti madre-figlia, e al di là, uomo-donna nella formazione del corredo, come il biologico s'inserisce nel sociale attraverso la mediazione del simbolico.

Queste descrizioni, nella loro bellezza strutturale, hanno tuttavia un carattere che resta al di fuori del tempo. L'irenismo della cultura tende a mascherare le tensioni e i conflitti che, al contrario, sono sottolineati da Elisabeth Claverie e Pierre Lamaison. Nel sistema dell'oustal, in cui lo scambio delle donne obbedisce abbastanza rigorosamente allo scambio dei beni, le mogli, spesso picchiate, non hanno nemmeno la chiave della dispensa; spesso per sopravvivere sono costrette a rubare; le connivenze femminili, in genere, vengono meno per effetto del matrimonio e della paura degli uomini; e l'intolleranza di fronte alle gravidanze illegittime è molto accentuata.

Le donne sole hanno una sorte particolarmente difficile; le vedove, sospettate come sessualmente pericolose per via dei loro supposti appetiti, sono talvolta relegate fuori di casa, in capanne, con qualche indumento e sussidio; le giovani, preda sessuale dei pastori, o dei padroni, sono spesso violentate con la convinzione" di un legittimo esercizio di virilità. «Lo stupro non era vissuto se non come una variante ordinaria dei rapporti uomo-donna [...]. L'idea stessa della denuncia sembra inconcepibile, informulabile. La normalità sessuale include il ventaglio delle sue conseguenze: violenza, frustrazione, morte» {op. cit., p. 218).

Dobbiamo vedere in questo sovrappiù di oppressione della donna una conseguenza di un sistema di parentela particolarmente complesso, che, tuttavia, lascia più che altrove alle donne delle possibilità di eredità? Il Sud-Est del Massiccio centrale è d'altra parte una terra in cui persiste la vendetta come sistema di regolamento delle tensioni e che si registra in nero sulla carta dei delitti di sangue. Il contrasto tra i vari modi di rappresentazione viene anche dalla natura delle fonti: proverbi e costumi, da un lato, dossieri giudiziari direttamente fondati sulle liti dall'altro, non possono offrire una visione equivalente.

Padrone di casa borghesi

Le famiglie cittadine sono, in apparenza, improntate a una maggiore semplicità. Ma, anche in quelle, quante variazioni a seconda degli ambienti sociali, il tipo di habitat, essendo la distanza tra domicilio e luogo di lavoro un fattore abbastanza decisivo dell'autonomia domestica. L'esempio delle borghesi del Nord, di cui Bonnie Smith ci ha consegnato un ritratto ormai classico, è qualcosa che, da questo punto di vista, colpisce. Nella prima metà dell'Ottocento queste donne partecipano alla gestione degli affari, tengono la contabilità dell'impresa, preferiscono l'investimento industriale a un vestito di seta. Nella seconda metà del secolo sono soltanto le vedove a continuare questa tradizione. Attorno agli anni 1850-1860 la maggior parte delle donne si ritira dalla sfera economica per chiudersi in casa.

I mutamenti dell'habitat corroborano questo allontanamento che segna una svolta nel sistema di relazioni industriali meno paternalistiche; i padroni smettono di abitare nel perimetro o nelle vicinanze della loro fabbrica; arricchiti, sfuggono al fumo, alla vista e all'odore della miseria; si raggruppano nei quartieri nuovi — a Roubaix, viale parigino — e si costruiscono ville sontuose, «castelli» che in tempi di sciopero gli operai vengono a schernire. Le donne, ormai, dirigono la loro casa, la numerosa servitù e la non meno numerosa famiglia, frutto delle credenze cattoliche e più ancora delle strategie matrimoniali dell'industria tessile del Nord. Danno vita a una morale domestica di cui B. Smith mette in luce i tratti fondamentali: la fede contro la ragione, la carità contro il capitalismo, e la riproduzione come autogiustificazione. Attraverso questa funzione le borghesi con numerosa figliolanza — tra il 1840 e il 1900 il tasso medio di figli per famiglia passa da 5 a 7 — danno un senso alle meno importanti delle loro azioni.

Dalla pulizia e dalla decorazione della casa all'osservanza quasi religiosa di una moda tirannica — si vedano le «ore del giorno» disegnate da Deveria —, dal minimo lavoro d'ago — perché bisogna esser sempre occupate — all'assillo dei conti, tormento della padrona di casa che spesso deve cavarsela con ciò che le passa il marito a cui deve render conto del bilancio: ogni dettaglio assume un senso in una morale il cui fondamento è meno economico che simbolico. Poiché questo funziona come un linguaggio, come un rituale, la donna obbedisce a codici molto rigorosi.. Animate da un'alta coscienza di sé, queste donne del Nord non sono né passive né rassegnate; tentano al contrario di erigere la loro visione del mondo a criterio di giudizio delle cose, spesso in modo perentorio. Questo «femminismo cristiano» (si può parlare di femminismo? no, se si definisce questo come ricerca dell'uguaglianza: qui si rivendica la differenza) si esprime attraverso romanzieri come Mathilde Bourdon, autrice della Vie réelle, un best seller, Julia Bécour o Josephine de Gaulle, che compongono una sorta di epopea domestica dove sono messi a fronte il bene e il male: le donne e gli uomini. Col loro gusto distruttivo del potere e del danaro gli uomini portano il caos e la morte. Angeli del focolare, le bionde eroine ristabiliscono con la loro virtù l'armonia della famiglia.

Questo compiuto modello di vita domestica, adombrato d'un angelismo cui il culto della Vergine Maria impedisce di esser del tutto vittoriano, si ritrova, con gradazioni diverse, in tutti gli strati della borghesia. Varia a seconda dei livelli economici, misurati in base al numero dei domestici e del genere dell'habitat, delle credenze e dei sistemi di valori. La nostalgia aristocratica, così viva nel quartiere di Saint-Germain, è altrove temperata da un desiderio crescente di utilità che si diffonde, molto più di quanto non si creda, nella borghesia francese. Qui si insiste sulla funzione rappresentativa della donna della classe facoltosa, il cui lusso stesso esprime l'identità dello sposo nel campo della ricchezza, e perpetua l'etichetta di corte. Là si sottolinea l'importanza dell'economia domestica e della padrona di casa. Infine il bambino, la sua salute, la sua educazione sono invocati come fondamento dei doveri, e del potere, delle donne. Il femminismo stesso poggia le sue rivendicazioni sulla maternità; e questa insistenza su una diversità è senza dubbio il carattere specifico del femminismo francese in rapporto al suo corrispondente anglo-sassone, incentrato in modo più esclusivo sull'eguaglianza dei diritti individuali.

Di fronte al padre che non ne può più, la madre acquista sicurezza.

La donna da casa delle classi popolari

La donna da casa è nelle classi popolari di città un personaggio maggioritario e fondamentale. Maggioritario perché questa è la condizione del maggior numero di donne che fanno vita di coppia, sposate o no, restando d'altra parte il matrimonio lo statuto più generale ed anche più normativo, specialmente quando ci sono figli. Il modo di vivere popolare presuppone, lo si è detto, la donna dedita al «focolare», il che non vuol dire «alla casa», dato che l'indigenza dell'habitat fa dell'alloggio un luogo di riunione più che una residenza. Polivalente, la donna da casa è investita di funzioni multiple. In primo luogo la generazione e la cura dei bambini, ancora molto numerosi nelle famiglie operaie, che sono fra le ultime a limitarne la nascita. La moglie d'artigiano, la bottegaia, mettono a balia i loro figli; ma le più povere allattano da sé, scoprendo il seno, come la viaggiatrice del vagone di terza classe (Daumier).

La donna da casa porta i bambini con sé; le vanno dietro appena sanno camminare, figure familiari delle strade che l'iconografia del tempo ritrae in quantità o che vengono colte dalle prime fotografie cittadine. Molto presto, d’altra parte, i bambini vanno in giro da soli, intrepidi monelli che si aggregano a bande infantili, nel cortile o nelle strade. Ma sempre di più i «pericoli della strada» diventano un motivo di ansia per le madri, con la doppia paura dell'incidente e delle «cattive frequentazioni». Sempre di più la giornata della donna da casa e i suoi spostamenti saranno scanditi da quelli del bambino, soprattutto per via degli orari scolastici.

Seconda funzione: il mantenimento della famiglia, i «lavori di casa», che includono ogni sorta di cose: la ricerca del cibo al prezzo più conveniente, attraverso acquisto, scambio o anche raccolta diretta, tante sono le occasioni di andar spigolando in una grande città; la preparazione dei pasti, compresa la gamella del padre quando lavora lontano; la provvista dell'acqua, il riscaldamento, la cura della casa e, soprattutto della biancheria e delle vesti, lavate, riadattate, rammendate, rattoppate... Tutto ciò rappresenta degli andirivieni, un considerevole impiego di tempo. Solo i bilanci familiari di Le Play si sforzano di tenere una certa contabilità di questo tempo fluido, per lo meno per la lavatura della biancheria, la prima occupazione domestica che si sia tentato di razionalizzare attraverso la costruzione di grandi lavatoi meccanici.

Infine la donna da casa cerca di mettere in famiglia un salario complementare proveniente soprattutto da attività di servizio: servizi a ore, bucati eseguiti sistematicamente dalle addette dei lavatoi, gite e consegne (la donna che porta il pane, figura familiare), piccoli traffici femminili, bancarelliste o rivenditrici di generi d'abbigliamento, abili nel profittare del più piccolo angolo di marciapiede, della minima variazione di prezzo.

Progressivamente, soprattutto nell'ultimo terzo del secolo XIX, il lavoro a domicilio, nel quadro di un'industria della confezione divisa e razionalizzata, assorbe questa immensa forza di donne che stanno a casa. II primo fascino della macchina da cucire — avere la propria Singer diventa il sogno di tante massaie — le confina a casa, con una rottura totale del loro uso di andar camminando per la città. Gli abusi del sweating system valorizzeranno la fabbrica, preferibile, alla fine, perché meno solitaria, meglio controllata, più esposta agli occhi del pubblico.

«Ministro delle Finanze» della famiglia, la donna da casa ha dei poteri di cui la pratica della paga illustra tutte le ambiguità. Senza dubbio è una lenta conquista della donna, stanca di aspettare il danaro dal marito. Se ne ignorano le tappe. Verso la metà dell'Ottocento, in Francia — le monografie di Le Play oppongono su questo punto la Francia all'Inghilterra - un gran numero di operai consegnano la loro paga alla moglie, non senza contrasti i cui scoppi agitano periodicamente i quartieri periferici. Ma, contabili della paga, le donne da casa ne sono anche responsabili; se possono orientare i consumi, già esposti ai tentativi dei grandi magazzini e ai timidi inizi della pubblicità, devono soprattutto gestire la penuria e cominciare col sacrificarsi. Lasciando la carne e il vino, cose destinate agli uomini, al capofamiglia, lo zucchero ai bambini, si contentano troppo spesso di caffellatte, di formaggio; la «cotoletta della sarta», è una porzione del formaggio di Brie.

Nonostante tutto, questa modesta gestione finanziaria dà luogo a un certo matriarcato nell'ambito del bilancio a cui, ancora oggi, tengono tanto le donne da casa e le operaie. Esse hanno ben altri campi in cui intervengono: le cure del corpo e dell'anima per parlare come nell'Ottocento! A quei tempi, in cui ricorrere al medico costa troppo e, in ambiente operaio lo si fa in via relativamente eccezionale, esse utilizzano le risorse di una farmacopea multisecolare e i suggerimenti della nuova igiene: così per la canfora, consigliata da Raspati, il «medico dei poveri», che si rivolge specialmente alle donne conoscendone le mansioni tradizionali. Le mogli dei carpentieri parigini ne fanno grande uso (monografia di Le Play e Focillon, 1856).

Ghiotte di romanzi a dispense — l'alfabetizzazione delle donne progredisce rapidamente nelle città del secolo XIX, in cui molte madri, grazie al metodo Jacotot, insegnano addirittura a leggere ai loro bambini —, di canzoni e di danze, mantengono tutta la linfa di un mondo immaginario che i mass-media (e, dandosene il caso, i giornali a grande tiratura) cercano di incanalare. Corteggiate dalla Chiesa, sono a volte delegate a compiti religiosi; della Chiesa apprezzano le feste e la socievolezza, non senza contrasti coi mariti che si atteggiano a posizioni più materialistiche.

La massaia popolana non ha peli sulla lingua. È spesso una ribelle nella vita privata come in quella pubblica. Spesso paga questa sua caratteristica molto cara, costituendo il bersaglio prediletto di violenze che possono spingersi fino al delitto «passionale». Questi interventi femminili nella città, fondati sul vitto e l'alloggio, sono diventati più rari in rapporto alla loro maggiore regolarità. Non è certo che il modernizzarsi del costume abbia accresciuto questi poteri, nella misura in cui la sfera privata si è trovata ad essere investita da ogni lato e in cui i modelli d'identità della classe operaia erano in gran parte maschili. Di qui i conflitti, le difficoltà di inserimento, il ripiegamento della massaia popolana verso la casa dove tutti la spingono (guardate i manifesti della Ggt per la «settimana inglese»). E talvolta la sua indifferenza per quel mondo sindacale e politico che non la capisce.

Genitori e figli

«Quando compare il bambino, la famiglia in crocchio...». Nell’Ottocento il bambino è, più che mai, il centro della famiglia. E’ oggetto di investimenti di tutti i tipi: affettivo, certo, ma anche economico, educativo, esistenziale. Erede, il bambino è l’avvenire della famiglia, la sua immagine proiettata e sognata, la sua maniera di lottare contro il tempo e contro la morte.

Quest'investimento — di cui è indizio la letteratura sempre più prolissa sull'infanzia — non mira necessariamente al bambino nella sua individualità. Stendhal dice con molta penetrazione di suo padre: «Non mi amava come individuo, ma come figlio che doveva continuare la sua famiglia» (Henry Brulard). Il gruppo è al disopra dell'individuo e la nozione di «interesse del bambino» si svilupperà in Francia solo tardi. Inoltre, per lo più, non indica che gli interessi superiori della collettività: il bambino come «essere sociale».

In effetti il bambino non appartiene solo ai suoi familiari: è il futuro della nazione e della razza, che produce e riproduce. cittadino e soldato di domani. Tra lui e la famiglia, soprattutto quando Questa è povera e ritenuta incapace, si insinuano dei terzi: filantropi, medici, uomini di Stato, che intendono proteggerlo, allevarlo, disciplinarlo. Le prime leggi sociali (quella del 1841 sulla limitazione della durata del lavoro in fabbrica) sono state promulgate a proposito dell'infanzia. Poco importa se la loro efficacia fu dapprima modesta. La loro portata simbolica e giuridica non è perciò meno notevole poiché segna la svolta di un diritto liberale verso un diritto sociale (F. Ewald).

È quanto dire che l'infanzia è per eccellenza una delle zone limite in cui il pubblico e il privato stanno accanto e si scontrano a volte con violenza.

Posta in gioco di poteri, l’infanzia è anche luogo di dottrine sviluppate soprattutto nell'ultimo terzo del secolo XIX, per effetto degli sforzi sforzi congiunti della medicina, della psicologia e del diritto. Queste dottrine hanno effetti contraddittori. Determinano controllo, ma anche cognizione, per cui il bambino diventa per noi il mistero imperscrutabile che è.

Segreti della procreazione

In Francia, paese dove la limitazione delle nascite e la cognizione dei «funesti segreti» (Moheau, fine del secolo XVIII) sono un fatto precoce, il bambino non è certo «programmato» — non ce ne sono i mezzi —, ma è già sottoposto a limiti; il tasso di natalità non cessa di diminuire: 32,9 per cento nel 1800, 19 per cento nel 1910: qui sta il tormento dei demografi che trasformerà la nascita, atto privato, in natalità, affare di Stato. L'esistenza del bambino è dunque, in parte e in modo variabile, a seconda degli ambienti e delle regioni, relativamente volontaria. Secondo H. Le Bras ed E. Todd, la spiegazione delle disparità risiede nella volontà parentale che opera nelle strutture familiari. I fattori ideologici che abitualmente si mettono avanti si modellano in questi stampi preliminari. Nel 1861, si presentano nettamente tre poli di bassa natalità: Normandia, Aquitania, Champagne; ma lo sono in modo diverso: l'Aquitania ha un tasso abbastanza diffuso di 1 o 2 bambini per famiglia; la Normandia, al contrario, manifesta dei comportamenti estremi, con tassi anormali di coppie volontariamente sterili (nell'Orne, per esempio) e di premio Co-gnacq (9 figli e più in venticinque anni di matrimonio); gli studiosi del fenomeno si spingono a parlare di «comportamenti nevrotici»!

L'ondata di procreazione illegittima, in cui Edward Shorter ha visto un indizio di liberazione sessuale, ha un po' confuso le carte. Essa sembra avere significato ben diverso. I nostri autori contrappongono il Nord e l'Est, dove la percentuale dei bambini riconosciuti attraverso matrimonio è notevole, al Mezzogiorno mediterraneo in cui l'uomo riconosce il bambino senza sposarne la madre. Nel primo caso, c'è una più decisa uguaglianza dei sessi e libertà delle donne; nel secondo predomina la forza impellente della schiatta.

Impossibile avanzarci di più nella selva della demografia storica, se non per ricordare la sua complessità, tanto a livello di semplice constatazione che di interpretazione. «La storia segreta della fecondità» (H. Le Bras) formicola di teorie, che esitano tra tutte le specie di determinismo — sociale, biologico, ideologico (a questo si ascrivono abitualmente i «guasti» dell'individualismo di cui il femminismo è solo un caso particolare esacerbato), prima di analizzare una nascita come il frutto della «decisione» di una coppia.

Il letto: eccoci al punto più segreto del sesso e del cuore. Niente di strano che questo ci sfugga quando, al mistero dell'intimità più profonda, si aggiunga l'opacità del tempo e il mutismo degli attori e dei loro discendenti. Un oceano di silenzio avvolge l'essenziale della vita: la concezione degli esseri che ignorano, quasi sempre, da quale caso o da quale desiderio sono nati, senza che si possa contrapporre nettamente l'uno all'altro.

Il volontarismo concezionale, dai progressi statistici tanto più decisi accompagnandosi a un abbassamento dell'età matrimoniale, è stato senza dubbio conseguenza della presa di coscienza del bambino e di tutto ciò che egli implica, specialmente per l'educazione. Meglio curato, coccolato, amato, il bambino diventa più raro. I mezzi di questa concezione volontaria ci restano oscuri. Certuni non ne conoscono altri all'infuori dell'astinenza; per evitare di mettere al mondo un bambino certe donne «si sottraggono». Il coito interrotto lascia l'iniziativa al marito a cui spetta di «stare attento». Negli ambienti agiati, ci si attiene di più ai metodi inglesi o alle pratiche apprese clandestinamente al bordello, lavande che presuppongono l'uso dell'acqua e che faranno la fortuna del bidè — successo tardo, secondo J.-P. Goubert e limitato dalle convenienze.

Preoccupati di insegnare ai proletari e alle donne la concezione volontaria — «Donna, impara ad essere madre solo quando lo vuoi» (1906) —, i neomalthusiani libertari al principio del secolo si sforzano di diffondere preservativi e spugne absorbit; la loro propaganda va spesso a urtare contro la ripugnanza delle donne, messe di fronte a esigenze impossibili e forse urtate da questo ingerirsi negli affari loro. In caso di incidente, molte preferiscono, tutto sommato, ricorrere all'aborto. Praticato, soprattutto in città, da un numero crescente di donne sposate, multipare, l'aborto sembra essere stato, alla svolta del secolo, utilizzato come forma di contraccezione.

Ci dobbiamo vedere, come A. MacLaren, l'espressione di un femminismo popolare? Per lo meno la volontà di donne che rifiutano tanto una nascita non desiderata come gli orrori dell'infanticidio. Ancora molto diffuso nella prima metà del secolo XIX, fortemente perseguito sotto il Secondo Impero (fino a mille processi l'anno), l'infanticidio si fa meno frequente; resta l'appannaggio delle ragazze sole, serve di campagna, domestiche dei sesti piani parigini, messe in difficoltà senza scampo dalla vergogna di una nascita illegittima.

Questo significa che, per quanto la pratica della concezione volontaria nell'Ottocento abbia progredito, la scarsezza dei mezzi contraccettivi lascia un posto enorme all'«accidente». «Ritrovarsi incinta», «essere in un brutto guaio» sono modi popolari di indicare la gravidanza che non è necessariamente accolta dalla contentezza generale. Indica anche la sorte aleatoria dei bambini non desiderati, liquidati, abbandonati, o semplicemente accettati come una fatalità in seno alle famiglie.

Tuttavia c'è anche, molto vivo, il desiderio di un bambino, non solo per ragioni di stirpe o di posizione sociale, ma per desiderio personale. Da parte delle donne, che sono nate per questo, ma anche degli uomini. «Una donna senza figli è una mostruosità», fa dire Balzac a Louise, protagonista dei Mémoires de deux jeunes mariées; «siamo fatte solo per essere madri». Dieci mesi dopo il suo matrimonio, Caroline Brame-Orville si dispera, nel suo diario intimo: «La mia gran pena è di non avere un baby a cui vorrei tanto bene e che mi farebbe accettare la vita malinconica che faccio» (primo gennaio 1868). Farà di tutto allo scopo: cure mediche, cura a Spa, visita al papa alla cui benedizione attribuisce infine, quattordici anni dopo, la nascita di una bambina che, per questa ragione, chiama Maria Pia.

Gustave de Beaumont parla con Tocqueville della gravidanza della moglie, che lo tiene tanto in pensiero da fargli differire la stesura del suo libro, diviso com'è tra il dispiacere che gli causano le sue sofferenze e il desiderio di diventar padre: «Ci sono proprio dei momenti in cui, considerando la povera madre, se potessi, manderei al diavolo il bambino [...]. Tuttavia guardo come a una fortuna all'evento che aspetto, e il vivo desiderio che abbiamo di vedervi partecipi della medesima sorte è senza posa l'argomento dei nostri discorsi e delle nostre speranze» (10 giugno 1838). Parallelamente a un sentimento materno in espansione, o in congiunzione con esso, si esprime un sentimento di paternità per questo baby, così vicino al feto e che tarda ad assumere aspetto umano.

Tuttavia il desiderio di un bambino non si spinge fino all'adozione, tanto resta radicata l'idea della filiazione per via di sangue. A dispetto delle prime disposizioni abbozzate sotto il Secondo Impero, i mutamenti in materia saranno lentissimi, specialmente per giungere alla trasmissione del nome.

Nascita a domicilio

La nascita è un atto rigorosamente privato e femminile, anche nei racconti e nei ricordi, tema inesauribile delle conversazioni tra donne. La camera comune, e nel migliore dei casi coniugale, ne è il teatro, da cui gli uomini sono esclusi, eccetto il medico che l'assistenza medica del parto porta sempre più spesso al capezzate della cliente agiata. La differenza di onorari come la tradizione, ma anche il pudore mantengono tuttavia le levatrici in una posizione dominante, benché in declino. Partorire all'ospedale è segno di povertà, più ancora, di vergogna e di solitudine: ci vanno a finire le ragazze madri, che vengono a partorire in città, prima di un eventuale abbandono. Nell'Ovest, nel Sud-Ovest e nel Centro, «il rifiuto del figlio naturale porta la madre all'ospedale», come mostrano le ricerche effettuate da H. Le Bras ed E. Todd (p. 168). Il mutamento si verificherà solo fra le due guerre, e timidamente, in primo luogo a Parigi e negli ambienti più evoluti, desiderosi di evitare una mortalità legata alla nascita che resta tra le più rilevanti in Europa. Per la madre e per il bambino la nascita resta una prova spesso drammatica.

La denuncia in comune, questo dono del nome che agli occhi di Kant è il parto vero e proprio, appartiene, invece, al padre. Entrato nella vita il bambino entra allora nella famiglia e nella società.

«Baby, bébé»

Dal terreno vago e in qualche modo asessuato ed invertebrato dell'infanzia, questa terra di nessuno, si staccano un po' alla volta tre momenti — tre fjgure — considerate strategiche: l'adolescente, il bambino di otto anni, e il «bébé». Età critica della crisi puberale e dell’identità sessuale, il primo suscita inquietudine e fa accrescere la sorveglianza: ci si tornerà su. Il secondo, considerato come uno che accede all'età della ragione, attira l'attenzione dei legislatori, dei medici e dei moralisti (Jules Simon, L'Ouvrier de huit ans). Il «bébé», che viene chiamato baby all'inglese, fino agli anni 1860-1880, emerge molto più lentamente dalle fasce del bambino Gesù a dispetto della scoperta che nel secolo XVIII le classi dominanti avevano fatto del seno materno. L'Ottocento è. d'altra parte, sotto questo rispetto, paradossale: il numero dei bambini mandati a balia tocca le punte più alte; l'abbandono raggiunge dei record. Tuttavia, alla fine del secolo, nasce una scienza, la puericultura.

Per quanto lenta, la presa di coscienza del «bébé» non è meno sicura. Madre attenta che rifiuta di fasciare il suo bambino e ricorre alle cure di una nurse inglese, Renée de L'Estoril (Mémoìres de deux jeunes marìées) si presenta come una pioniera. Alla fine dell'Ottocento ogni buona madre si occupa effettivamente del suo lattante, divenuto un personaggio, accarezzato con diminutivi. Jenny e Laura Marx, madri feconde e contristate nonostante la loro vigilanza, fanno a Karl la cronaca delle gesta dei loro piccini. E la maggior parte delle corrispondenze borghesi ha degli accenti da nursery. Caroline Brame-Orville tiene nota del risveglio della sua piccola Marie, tanto desiderata. Berthe Morisot è la traduzione pittorica di questa contemplazione della culla. La culla resta tuttavia qualcosa di connotato da vita organica e di votato all'intimità. Flaubert scoppia a ridere vedendo una culla sulla scena del teatro. 1 padri più premurosi sfiorano il loro piccino con uno sguardo distratto. Gustave de Beaumont si interessa sul serio a suo figlio quando comincia a camminare; iniziazione virile: «Ora viene a caccia con me, con un fucile di legno».

L'universo asessuato della prima infanzia

In tutti gli strati sociali, la prima infanzia riguarda le donne, ed assume tratti femminili: maschietti e femminucce portano sottanine e capelli lunghi fino a tre o quattro anni, spesso anche più in là, e se ne stanno liberamente tra le sottane della madre o di una domestica. La camera dei bambini, in Francia, è un ritrovato tardo; Viollet-le-Duc ne disegna una nella sua casa del 1873 «perché bisogna prevedere tutto». I giocattoli dei bambini sono sparsi un po' dappertutto — perfino nelle tele dei pittori — e di preferenza in cucina. In città, il giocattolo diventa un genere di consumo abituale, una produzione industriale coi suoi scaffali nei grandi magazzini. In campagna è ignorato. Negli ambienti popolari i padri ne fabbricano da sé, a loro rischio e pericolo: il piccolo Vingtras-Vallès si ricorderà a lungo di un carretto che il padre ha costruito per lui con un pezzo d'abete e per cui si è ferito: il che fruttò al bambino una sculacciata materna, punizione al figlio e al padre troppo compiacente. Le bambole, relativamente asessuate all'inizio del secolo, tengono un gran posto nell'universo infantile, simulacri che si distruggono prima di essere creature che si amano. George Sand ha dedicato al ricordo delle sue pagine luminose.

Assai poco istituzionalizzata, la prima educazione è compito delle madri, compreso l'apprendimento della lettura per cui sono fornite del metodo Jacotot. Ci si applicano tanto di più via via che il posto del bambino è più valorizzato, e ne traggono un gran desiderio di educazione per se stesse. Aurore Dudevant arriva al femminismo attraverso l'amore materno: «A lungo mi son detta che le conoscenze approfondite erano inutili per il nostro sesso, che noi dovevamo cercare la virtù e non il sapere nella cultura, che le nostre finalità erano raggiunte quando lo studio del bene ci aveva rese buone e sensibili, e che al contrario, quando ne avevamo tratto della cultura, diventavamo pedanti, ridicole, e perdevamo tutte le qualità che ci fanno amare. Continuo a credere che i miei principi fossero validi. Ma credo di averli seguiti troppo alla lettera. Penso, oggi, che ho un figlio che andrà preparato con le mie cure all'educazione più estesa che riceverà, uscendo dall'infanzia. Bisogna che io sia in grado di fare questa prima educazione e mi ci voglio preparare» (lettera a Zoe Leroy, 21 dicembre 1825). Ella si tuffa nell'appassionata ricerca di un buon metodo di lettura.

Con l'età le differenze sociali e sessuali dell'educazione si fanno sentire. Entrano in scena i padri, per lo meno per i maschi, assumendo a volte funzione di precettori negli ambienti borghesi, di maestri d'apprendistato o di caposquadra nelle famiglie operaie. Molto più rara l'attenzione per le figlie, eccetto che in certi ambienti intellettuali, spesso protestanti. Dai Reclus ragazzi e ragazze vanno allo stesso modo in Germania a perfezionare i loro studi e, allo stesso modo, si sistemano come precettori o istitutrici in famiglie inglesi o tedesche: nessun ostacolo qui, ai viaggi delle ragazze. Guizot veglia sull'educazione della figlia; le scrive affettuosamente e per farle rilevare i suoi errori di ortografia. Forse è con le figlie che il sentimento paterno può espandersi davvero, senza quella concorrenza che contrappone a un altro maschio distruttore.

Ci sono anche dei casi di tenera amicizia, più moderna, specialmente tra padri di idee larghe e figlie intelligenti, soprattutto quando la madre è più conformista. Geneviève Bréton si scontra con la sua — la «Regina Madre» — che detesta gli artisti «che non fanno parte del loro ambiente», mentre una complicità scherzosa la unisce al padre. «Ci vogliamo molto bene, ci comprendiamo sempre, anche quando non ci diciamo nulla, perché tutti e due siamo silenziosi» (Journal, p. 28). Un padre, dopo tutto, come si deve, «che non può ammettere che una figlia si profumi» e fa buttar via a Geneviève tutte le sue boccette: tollera solo la polvere di iris, «un profumo onesto, decente, adatto a una giovanetta bene educata» (Journal, p. 43). Certe ragazze, avide di emancipazione, scelgono, in contrasto con la madre e con ciò che essa rappresenta, il modello maschile. Germaine de Staél dice del padre: «Quando lo vedo mi chiedo se posso esser nata dalla sua unione con mia madre; rispondo a me stessa di no: mio padre sarebbe bastato perché io venissi al mondo»: il che Freud interpreterebbe in parecchi modi...

Anche tra madri e figli esiste una gamma infinita di relazioni: tenera amicizia, che fa d'Aurore de Saxe e di Maurice Dupin, poi di George Sand e di suo figlio Maurice due coppie esemplari, quasi ininterrottamente, anche durante l'adolescenza; risentimento di Vingtras-Vallès nei confronti di sua madre che vuole farne un «signore»; odio di Rimbaud per la sua; qualcosa che può arrivare al delitto in Pierre Rivière, frustrato dal nuovo potere acquisito dalle donne; pietà di Gustave Flaubert per la madre rimasta vedova, dalla cui soggezione non riesce a liberarsi...

La presa delle madri sui figli è, in linea di massima, limitata per il posto ridotto che la legge accorda loro (per esempio non possono essere tutrici) salvo il caso, per l'appunto, che restino vedove, poiché i loro diritti sono relativamente garantiti, anche in regime di comunanza di beni. Perciò vengono sopportate a fatica. Il rafforzarsi dell'immagine della madre e dei suoi poteri domestici è uno dei temi dell'antifemminismo dell'inizio del secolo. Darien, Mauriac (Genitrix), più tardi André Breton sono interpreti dell'ancestrale terrore degli uomini davanti alla potenza materna. «Le madri!» scrive l'ultimo, «si ritrova lo spavento di Faust, si è colti come lui da una commozione elettrica al solo suono di queste sillabe in cui si nascondono le potenze divine che sfuggono al tempo e al luogo».

Le madri hanno responsabilità molto maggiori in ciò che concerne le figlie, lasciate in loro balìa dallo Stato (la scolarizzazione delle bambine è tarda) e affidate alla loro assistenza dalla Chiesa; quest'ultima, d'altronde, stabilisce una sottile divisione fra il corpo e l'anima, per lo meno a partire dall'adolescenza: M.-F. Lévy l'ha messo bene in luce (De mères en filles, Calmann-Lévy, 1984). La madre inizia alle cose del mondo; il confessore, alla morale e a Dio. Non c'è dubbio che si vorrebbe stabilire una catena di continuità fondata sul ruolo conservatore delle donne, capace di far vivere le memorie. Le madri hanno una pesante missione: maritare le figlie. Post-Bouille offre lo spettacolo nevrotico, appena eccessivo a giudicare dagli avvenimenti del tempo, dell'attività angosciosa che esse dispiegano a questo proposito, balli e ricevimenti, lezioni di piano e di ricamo: tutto per questo solo obiettivo.

In campagna, il corredo materializza e simboleggia questo legame tessuto intorno al matrimonio; l'inchiesta d'Agnès Fine nel Sud-Ovest sottolinea il contenuto, culturale ed affettivo, di «questa lunga storia tra madre e figlia».

A un tempo più dipendenti dalla madre e più vicine a lei, le figlie, soprattutto le maggiori chiamate a prenderne il posto, soffrono della sua assenza e della sua morte. Certi diari intimi (così nel caso di Caroline Brame) sono il sostituto della madre scomparsa, il che accentua ulteriormente la loro matrice.

Carezze e familiarità

Le relazioni quotidiane tra genitori e figli sono enormemente diverse tra città e campagna; in campagna non si apprezzano gran che le manifestazioni di tenerezza; variano inoltre a seconda degli ambienti sociali, delle tradizioni religiose, e anche politiche... L'idea che ci si fa dell'autorità, dell'immagine di sé, influiscono sulle parole, sui gesti quotidiani. Da questo punto di vista, la famiglia è il centro di un'evoluzione contraddittoria. Da un lato vi si rafforzano il controllo sul corpo e l'espressione delle emozioni; ce ne dà la misura per esempio, il fatto delle lagrime, riservate ormai alle donne, alle classi popolari, al dolore e alla solitudine; o anche la crescente correzione del linguaggio e degli atteggiamenti dei bambini, esortati a tenersi diritti, a mangiare educatamente, ecc. D'altro lato lo scambio di tenerezze fra genitori e figli, per lo meno nella famiglia borghese, è tollerato, e anche ricercato. Carezze e moine fanno parte del clima propizio allo sviluppo di un giovane corpo. Caroline Brame, tanto pudica, si duole di esserne privata dopo la morte della madre. Edmond About, viaggiando in Grecia verso il 1860, sottolinea la freddezza dei rapporti tra intimi ad Atene, in confronto al calore francese.

Altro segno di intimità: l'abitudine di darsi del tu che si generalizza, nei due sensi. «Una volta si dava del tu ai domestici e non ai figli. Oggi si dà del tu ai figli e non si dà più del tu ai domestici», osserva con approvazione Legouvé. «Bisogna dire abitualmente tu ai propri figli per poter dire qualche volta voi: in segno di malcontento» (les Pères et les Enfants au XIX siede). E la ragione per cui George Sand si spaventa tanto quando la nonna le da del voi.

L'uso di picchiare

George Sand come Legouvé, educatori liberali, si dichiarano decisamente ostili ai castighi corporali. «Ho in orrore il vecchio metodo e credo che dopo averli picchiati piangerei più dei bambini», scrive la prima. Ma come vanno le cose in realtà? Forse è su questo punto che più sono accentuate le differenze sociali. Bisogna anche vedere che cosa significano i castighi corporali in una società che ha abolito il regime feudale: il marchio supremo d'infamia.

Negli ambienti borghesi, più ancora che in quelli aristocratici, in casa non si battono più i bambini. C'è ancora, qua e là, qualche verga o qualche frustino, ma la disapprovazione va aumentando.

Resistono a scuola e in certi licei dove pretendono di imporre una disciplina militare. George Sand rabbrividisce ricordando il preside del liceo Henri-IV che «partigiano arrabbiato dell'autorità assoluta, [...] autorizzò un padre a far picchiare suo figlio dal suo negro, davanti a tutta la classe militarmente convocata per lo spettacolo di questa esecuzione nel gusto creolo o moscovita, e minacciata di severa punizione se avesse dato il minimo segno di disapprovare» (Histoire de ma vie, t. II, p. 179). Ma sempre più spesso gli adolescenti si ribellano — così Baudelaire e i suoi compagni, nel 1832, a Lione —, e le famiglie protestano. Al punto che, come pubblicità, i prospetti di pensionato precisano che escludono simili metodi. Lo Stato stesso interviene, e numerose circolari precisano che «i bambini non devono mai esser picchiati»: questo nelle classi d'asilo nel 1838 e nelle scuole primarie nel 1834 e nel 1851. La scuola Ferry è anche più categorica: il regolamento del 6 gennaio 1881 ripete con fermezza: «È assolutamente vietato d'infliggere castighi corporali».

Michel Bouillé, che ha studiato l'evoluzione delle «pedagogie del corpo», mostra come s'instaurano altre forme di disciplina che mirano all'interiorizzazione. Si tratta ormai di toccare l'anima più che non il corpo, come voleva Beccaria nel sistema penale. Lo scarto tra istituti pubblici e privati ormai aumenta; gli ultimi più arcaici nelle loro concezioni educative, che si tratti dell'igiene o della punizione. Per l'uso della ferula frati e suore saranno in funzione di luce rossa, per lo meno per i bambini delle classi popolari, come testimoniano tante autobiografie.

Non ci proponiamo di fare qui la storia dei metodi scolastici. A noi interessa vedere un'esigenza familiare influire su un sistema di educazione, per lo meno tenere a freno il bonapartismo educativo. In questo caso il privato domina il pubblico e i costumi impongono la loro legge allo Stato: primo intervento dei genitori degli allievi nel sacro recinto della scuola.

In campagna, nelle classi popolari cittadine o in quelle piccolo borghesi i colpi piovono. Tannées [scariche di legnate] (l'espressione dello Gévaudan si ritrova sotto la penna di Albert Simonin che ricorda la sua infanzia al principio del secolo, a La Chapelle) o sculacciate sono pienamente ammesse, a condizione di non oltrepassare certi limiti; per lo più a mani nude, restando riservato l'uso del bastone o del frustino ai maestri d'apprendistato o di istituti, come un segno dell'esteriorità fisica. Nell'Ottocento essere picchiati fa parte dei ricordi dell'infanzia operaia, come testimoniano Perdiguier e Gillaud, Truquin soprattutto, Dumay e Toinou. Nei laboratori più ancora che nelle fabbriche l'apprendista indocile o maldestro riceve facilmente delle botte dagli operai adulti incaricati di insegnargli il mestiere.

Alla radice di tutto questo sta una serie di rappresentazioni: quella di una forza ribelle da domare; quella della vita dura che va conosciuta. «Sarai un uomo, figlio mio». L'idea di virilità è impastata di violenza fisica. Certuni, pronti a riprodurre il modello, se ne vantano come di una iniziazione necessaria, esagerando forse la realtà. Ma i bambini e soprattutto gli adolescenti che si ribellano sono sempre più numerosi. Operai militanti, soprattutto anarchici, dicono di avere attinto a quest'esperienza bruciante il loro odio dell'autorità. La presa di coscienza di sé comincia dal proprio corpo.

Il bambino come investimento

Nell'Ottocento i rapporti tra genitori e figli sono percorsi da una duplice tendenza. Da un lato un investimento crescente nel bambino, avvenire della famiglia, con aspetti spesso molto costrittivi. La famiglia di Henri Beyle persegue attraverso di lui i suoi sogni aristocratici e lo isola. I Vingtras-Vallès fanno del piccolo Jacques la vittima del loro desiderio di ascensione sociale. Il padre è istitutore in una scuola; la madre vorrebbe che Jacques fosse professore. E a questo fine, mescolando ruvidezza contadina e sete di rispettabilità, instaura una disciplina di ferro, passando attraverso un rigoroso controllo delle apparenze. Esser pulito, stare ben diritto, portare abiti decorosi — «spesso vesto di nero» — e, attraverso queste buone abitudini, fare dei valori d'ordine un patrimonio interiore: ecco il suo obiettivo. Mai una carezza, mai una parola tenera. «Mia madre dice che non bisogna viziare i bambini e mi picchia tutte le mattine; quando non ha tempo la mattina, è per mezzogiorno, di rado più tardi che alle quattro». «Mia madre mi fa dare un'educazione, non vuole che io sia un campagnolo come lei! Mia madre vuole che il suo Jacques sia un signore».

E che dramma quando il bambino non arriva ad esserlo o rifiuta di esserlo! Le ambizioni della famiglia vanno in frantumi. Il bambino si sente colpevole. L'adulto non finisce mai di pagare il suo debito e di rimuginare il suo tradimento. Ricordiamoci di Baudelaire, che non ha mai superato i suoi rimorsi nei confronti della madre, madame Aupick. O di Van Gogh, che, nella sua corrispondenza col fratello Theo, esprime la disperata rivolta del «figlio cattivo».

Sorgente di angoscia esistenziale, il totalitarismo familiare dell’Ottocento è sotto molti rispetti profondamente nevrotico. Decisamente, non è poi tanto semplice essere degli eredi. Nel medesimo tempo il bambino è oggetto d'amore. Dopo il 1850, se muore, si porta il lutto per lui come si farebbe per un adulto. Soprattutto viene pianto nell'intimità, contemplando il medaglione che si è conservato coi suoi capelli. Sentimentalismo borghese? In Lorena, paese metallurgico, le mogli degli operai, «le madri», «vivevano tutte nel rimpianto dei bambini morti. Lasciavano sempre scorrere delle lagrime che asciugavano con grandi fazzoletti a quadri quando si incontravano», come ricorda George Navel (Travaux, 1945). Nell'educazione Legouvé proclama «la superiorità del principio affettivo» e preconizza il rispetto dell'autonomia: bisogna allevare i bambini per se stessi, non per noi, ammettere che i loro «interessi» possano non coincidere con quelli del gruppo, che dovranno sobbarcarsi da soli al loro destino, e perciò sviluppare la loro iniziativa, coltivare anche quell'elemento indeterminato che salvaguarda la loro capacità di libertà, via che preconizzano i pedagogisti libertari.

Attraverso le osservazioni diverse di cui è oggetto, comprese quelle, improntate a pignoleria, dei dossiers scolastici, il bambino acquista un volto e una voce. Il suo linguaggio, i suoi affetti, la sua sessualità, i suoi giuochi sono materia di osservazioni che eliminano gli stereotipi a favore dei casi concreti e sconcertanti. L'infanzia è ormai vista come un momento privilegiato dell'esistenza. Ogni biografia prende le mosse di lì e ci si attarda. Mentre il romanzo detto d'apprentissage (del periodo di formazione) dipinge l'infanzia e la giovinezza dell'eroe.

Verso tutto e contro tutto l'infanzia diventa l'età che fonda la vita e il bambino diventa una persona.

L'adolescenza, «età critica»

Un'altra figura si precisa: quella dell'adolescente, quest'essere ignorato dalle società tradizionali. Tra la prima comunione e il baccalaureato o il servizio militare per i maschi, il matrimonio per le ragazze si delinea un periodo di cui Buffon, e soprattutto Rousseau, avevano sottolineato le poste in giuoco ed i pericoli. Rousseau dedica tutto il libro IV dell’Emile al «momento critico» che è quello dell'identità sessuale. «Si nasce, per così dire due volte; una per esistere, una per vivere; una per la specie, l'altra per il sesso [...]. Come il rombo del mare precede di molto la tempesta, questa tempestosa evoluzione si annunzia col mormorio delle passioni nascenti: un sordo fermento avverte dell'approssimarsi del pericolo».

Questa nozione di «momento critico» è ripresa per tutto il secolo XIX, specialmente dai medici che, fra il 1780 e il 1840, hanno assegnato decine di tesi sulla pubertà nei ragazzi e nelle ragazze, e sulle cure del caso. Pericolo per l'individuo, l'adolescenza è anche un pericolo per la società. Alla ricerca di se stesso, l'adolescente è narcisista; va in cerca della sua immagine morale e fisica. Subisce il fascino dello specchio. E l’unico di cui parla Max Stirner, e quindi tende a disintegrare la società, come sottolinea anche Durkheim. Se i giovani si suicidano con più facilità, dipende dal fatto che sono male integrati nelle solidarietà sociali. D'altro lato, l'appetito sessuale dell'adolescente lo porta alla violenza, alla brutalità, anche al sadismo (per esempio con gli animali). Ha il gusto dello stupro e del sangue.

Si scivola insensibilmente nel tema dell'adolescente criminale, analizzato da Duprat in un'opera tipica delle preoccupazioni dell'epoca (la Criminalité dans l'adolescence. Causes et Remèdes d'un mal social actuel, Alcan, 1909). L'adolescente, dice, è un vagabondo nato. Appassionato di viaggi, di spostamenti, profondamente instabile, realizza delle «fughe analoghe a quelle degli isterici e degli epilettici, incapaci di resistere alla spinta che li porta a viaggiare». L'adolescente ha una sua patologia propria: per esempio l'ebefrenia, definita come «bisogno d'agire che comporta il rifiuto di qualunque ostacolo, di qualunque valore», e spinge fino al delitto.

L'elemento più inquietante nell'adolescente è la sua trasformazione sessuale e la coscienza che ne prende. Michel Foucault ha ben dimostrato come il «sesso dello studente di scuola secondaria» sia diventato, nell'Ottocento, un oggetto privilegiato di quella Volontà di sapere (1976) il sesso che gli sembra caratterizzi la società moderna. Masturbazione, omosessualità latente degl'internati, possibile perversione delle amicizie particolari sono delle ossessioni attizzate dai medici, principali osservatori dei corpi. L'omosessualità maschile, e anche femminile, senza dubbio non è più un delitto se non offende il pudore pubblico, ma diventa un'anomalia studiata come una malattia. Al centro di quest'angoscia l'adolescente con le sue «cattive abitudini». La conoscenza e la gestione del sesso degli adolescenti sono al centro dei compiti educativi e dell'ansietà sociale. Richiedono delle pedagogie particolari: può bastare la famiglia a farvi fronte?

Il sogno di educazione in casa, sotto gli occhi del padre e della madre, con precettori e istitutrici, di preferenza inglesi — le Miss —, resta quello di molte famiglie dominate da pregiudizi .aristocratici o pazzamente innamorate dei princìpi di Rousseau, che temono il contatto volgare e perverso. «Il figlio unico» che è Henry Brulard-Beyle serba un ricordo soffocante dell'isolamento che gl'imponevano i genitori per evitare qualunque rapporto «coi bambini del popolo». «Non mi si è mai permesso di parlare a un bambino della mia età [...]. Dovevo sorbirmi le continue omelìe sull'amore paterno e sui doveri dei figli». Se la cava mentendo e pensa solo a fuggire. L'École centrale del Direttorio rappresenterà la sua liberazione.

Arriva un'età in cui pensionati ed internati si impongono Fra i quindici e i diciotto anni le ragazze vanno a perfezionarvi la loro educazione morale e mondana, ad acquistarvi quelle «arti dilettevoli» destinate a renderle attraenti nei salotti dove si combinano i matrimoni. I maschi, accasermati in collegi o licei, preparano il baccalaureato, «barriera e livello» della borghesia. Ora, gl'internati di collegi e licei non godono di una buona reputazione. Baudelaire ci si annoia a morte: «Mi annoio a tal punto che piango senza sapere perché», scrive alla madre (3 agosto 1838). George Sand è desolata di doverci mettere Maurice. Paragonando «quello stato angelico dell'anima che caratterizza il vero adolescente», il delicato androgino a cui somigliava suo padre, educato da una madre attenta, al «collegiale spettinato, abbastanza ignorante, infatuato di qualche vizio grossolano che già ha distrutto nel suo essere la sensibilità al primo ideale», ella rimpiange l'educazione in casa. «Nelle famiglie che godono della pace domestica sarebbe doveroso tenere a casa i figli e fare in modo che non imparino a conoscere la vita in un collegio in cui l'uguaglianza regna solo a suon di pugni» (Histoire de ma vie, t. I, p. 76).

Si attribuisce agl'internati la colpa della masturbazione e delle pratiche omosessuali. Roger Martin du Gard in Le colonel de Maumort, romanzo postumo in gran parte autobiografico, evoca la vita di collegio intorno al 1880: «L'onanismo solitario era la regola. Il piacere condiviso l'eccezione». Nonostante tutto, l'opinione pubblica, soprattutto conservatrice, attribuisce agli internati il fatto che la gioventù assuma caratteri effeminati, la disfatta del 1870, e, più in generale, lo spopolamento della Francia. Mentre le famiglie del popolo o quelle contadine, se vogliono far continuare a studiare i loro figli, sono obbligate a metterli a pensione, le famiglie borghesi, ricorrono, sempre che è possibile, all'esternato, che Ernest Legouvé, come George Sand, ritiene la soluzione migliore. Questa famiglia vuol essere più che mai l'orizzonte, il bozzolo e il tutore del suo rampollo e, di fronte allo Stato laico, fa dell'educazione un affare privato. L'insegnamento «libero» attingerà qui una parte del suo successo.

Tuttavia la tenerezza che avvolge il bambino si tinge di diffidenza e di distacco con l'adolescente sempre sospettato di ribellione. Ma è proprio questa sorveglianza che spinge al segreto. Gli adolescenti immaginano cento difese per conquistare la loro vita privata. La lettura dei romanzi, fatta sottraendo tempo allo studio o non tenendo conto del coprifuoco, la poesia, la stesura del diario personale, il sogno, infine, sono forme di appropriazione dello spazio interiore. Le amicizie tengono un posto importante: amicizie di pensionato delle ragazze, che spesso vengono meno dopo il matrimonio; forme di cameratismo tra ragazzi, consolidate da ogni sorta di riti di iniziazione, proiettate in figure simboliche come quelle del «Garqon» che Flaubert e i suoi compagni di collegio a Rouen avevano assunto a eroe delle loro avventure immaginarie; amicizie durate poi per tutta la vita in cricche solidali negli affari e nel potere.

Rivolte individuali o collettive punteggiano, nell'Ottocento, la vita dei grandi internati, almeno fino agli anni 1880, come se, una volta installata la Repubblica, non ci fosse più posto se non per la cagnara. È vero che, né più né meno delle monarchie dell’Ottocento, essa non concede alla gioventù quello statuto festivo e di regolamentazione sessuale che le concedevano le società tradizionali. I giovani non sono più riconosciuti come gruppo, ma solo come individui che devono solo obbedire e stare zitti. Perciò la loro ribellione, eccezionalmente a carattere politico, è per lo più individuale, e li mette di fronte alle famiglie.

Lo stesso accade negli ambienti popolari. Dalla prima comunione — o dal certificato di studio — alla leva il giovane operaio vive in famiglia e le dà la sua paga; per il resto, il libretto di lavoro, abolito per l'operaio adulto, per lui continua ad esserci. Negli ambienti a forte struttura familiare, come quelli minerari, sposarsi prima del servizio di leva sembra quasi un tradimento. Tuttavia, stando a diverse inchieste come quella del 1872 sulle «condizioni di lavoro in Francia», i giovani danno segno d'impazienza: nelle fabbriche di Lavoulte (Gard), «molti, appena guadagnano, abbandonano la casa e si mettono in pensione come farebbero dei celibi forestieri»; nell'industria tessile della Piccardia, si vedono spesso dei ragazzi, e anche delle ragazze, dai sedici ai diciassette anni, mettersi a camera ammobiliata e non versare più nulla. Di qui la transazione ammessa in certe famiglie: dai diciotto anni in poi, i figli consegnano solo parte dei loro guadagni o pagano un prezzo di pensione convenuto per il loro mantenimento.

Zona di turbolenza e di contestazione l'adolescenza è, in seno alle famiglie, una linea di frattura e di eruzioni vulcaniche.

Fratelli e sorelle

Alle relazioni verticali che caratterizzano i rapporti genitori-figli, il legame fraterno dovrebbe contrapporre delle relazioni orizzontali: (così nel caso dei Reclus, attorno ad Elisée, di cui ha raccontato Hélène Sarrazin). Ma di fatto il sesso, il posto che si tiene nella successione, l'età, talvolta anche i doni o le preferenze dei genitori introducono delle disuguaglianze e anche una vera e propria competizione. Questa è spinta al massimo nelle regioni in cui il figlio maggiore è oggetto di una designazione: così nello Gévaudan, dove l'accrescersi nel corso del secolo delle tensioni familiari fra primogeniti e non primogeniti può spingersi al delitto e trova sfogo solo nei processi o nelle partenze per altri luoghi. Non essere primogenito significa trovarsi in una situazione subalterna, quasi da domestico, spesso costretto al celibato.

Beninteso, bisognerebbe distinguere anche gli stadi dell'infanzia e della giovinezza, vedere come le eventuali allegre baruffe dell'infanzia si trasformano in rivalità al momento delle scelte dell'adolescenza, e addirittura in odii al momento di ereditare. I principali conflitti interfamiliari contrappongono fratelli e sorelle che contestano i termini di una divisione o si contendono un bene desiderato, sempre sopravvalutato nel momento che sfugge, per ragioni tanto simboliche quanto materiali: è dura non essere il preferito, essere l'altro, semplicemente.

Prima di queste scadenze decisive le relazioni fraterne hanno molte altre qualità: piacere dei segreti in comune, delle connivenze contro il potere dei genitori, una specie di apprendistato dei più giovani sotto la guida dei fratelli maggiori. La funzione di un fratello maggiore può essere decisiva nella scelta di un mestiere o per l'orientamento ideologico. Le sorelle maggiori sono spesso le maestre dei fratelli minori — Victor Hugo si commuove ricordando Léopoldine che fa compitare Adele tenendo una gran Bibbia sulle ginocchia —, iniziano le più piccine alle faccende domestiche, ai segreti del corpo e a quelli della seduzione. La figlia maggiore ha una missione particolarmente pesante; sostituendo la madre morta deve assumere i compiti domestici e materni tanto presso il padre che presso i fratelli più piccoli.

La sorella maggiore rischia di restare sacrificata in caso di decesso prematuro della madre; nelle famiglie del popolo, soprattutto in campagna, spesso è utilizzata per aiutare i genitori a tirar su il resto della prole; altrimenti è piuttosto la sorella minore, l'ultima nata, che assicura assistenza ai vecchi genitori. Le famiglie formate da due donne, la vecchia madre e una delle due figlie, sono abbastanza frequenti nei censimenti quinquennali della popolazione che analizzano la composizione dei focolari. Quindi il numero d'ordine che si tiene nel nascere interferisce coi casi della vita di famiglia per imprimere una determinata forma alle dipendenze e ai doveri.

Il sentimento fraterno non ha certo i colori rosei della letteratura morale; ma sicuramente può esistere e Alain Corbin ci vede una forma fondamentale dello scambio affettivo. Tra fratelli _e sorelle la differenza di sesso crea un rapporto complesso, un po' iniziatico, la prima forma di rapporto con l'altro sesso. Profondamente repressi dai divieti religiosi e sociali, raramente questi rapporti sono sessuali, ma possono avere carattere amoroso. Bakunin confessa di aver provato per la sorella un amore incestuoso, e questo è fonte di una campagna contro di lui. In verità, la censura in proposito è tanto forte che solo eccezionali fatti di cronaca sollevano un angolo della cortina: Pierre Moignon, ex ergastolano, operaio, innamorato della sorella, le scrive del suo amore e tiene della sua disperata passione un diario intimo che conosciamo attraverso gli atti del processo.

Sorelline

La combinazione del sesso e dell'età tratteggia delle figure incrociate — fratello maggiore/sorellina, sorella maggiore/fratellino — in cui il fattore età raddoppia per lo più le caratteristiche del rapporto di sesso: paterno o materno. La Sorellina di Zola (Travati, 1901) prodiga al fratello un'adulazione incondizionata; sacrificata senza esser consultata alle imprese di Martial Jourdan, ne piange di gioia, godendo in apparenza di sostenere le seconde parti ed è il volto stesso del consenso. Questa figura della sorellina è un motivo ricorrente della letteratura antifemminista dell'inizio del secolo. Sostituto del padre e del marito, il fratello maggiore è la guida e l'iniziatore, un modello rassicurante per l'identità maschile in crisi.

Protettrice, la sorella maggiore si vota anima e corpo all'educazione e promozione sociale del fratello. Ernest Renan deve molto a Henriette, di cui ha lasciato il tipico ritratto ideale (Ma soeur Henriette). Nata nel 1811 a Tréguier, Henriette era maggiore di lui di dodici anni, e tiranneggiata fin dall'infanzia. Diventò istitutrice in Bretagna, poi a Parigi e persino in Polonia, rifiutando parecchie domande di matrimonio per dedicarsi ai suoi. Ernest può proseguire i suoi studi e le sue ricerche grazie alle sue economie. Nel 1850 fratello e sorella vanno a vivere insieme a Parigi: «Il suo rispetto per il mio lavoro era estremo. L'ho vista la sera, accanto a me, per ore, respirare appena per non interrompermi; voleva tuttavia vedermi e sempre la porta che separava le nostre due camere restava aperta».

Henriette esercita la sua influenza sul fratello, soprattutto nel campo religioso, in cui lo precede nel rifiuto della fede. Soprattutto «ella era per me una segretaria incomparabile; copiava tutti i miei lavori con una penetrazione tanto profonda che potevo contare su di lei come su un indice vivente del mio proprio pensiero». Quando Ernest si innamora, benché fosse stata proprio lei a suggerirgli di sposarsi, ne nasce un dramma. «Attraversammo tutte le tempeste che possono esserci in amore [...]; quando mi annunziò che nel momento in cui mi sarei unito a un'altra persona, se ne sarebbe andata, la morte entò nel mio cuore».

Dopo il matrimonio di Ernest con mademoiselle Scheffer, Henriette trasferisce sul nipote, il piccolo Ary, il suo bisogno di affetto. «L'istinto materno che traboccava in lei trovò qui il suo sfogo naturale», scrive Renan che descrive, con l'incoscienza dei grandi uomini, il capolavoro che sono i rapporti fra le due cognate: «Ciascuna di loro ebbe presso di me il suo posto distinto, e questo tuttavia senza divisioni o esclusioni». Ma Henriette non ritrova la perfetta felicità della comunione solitaria col fratello se non all'epoca della missione in Siria, dove lo accompagna con entusiasmo; là doveva trovare la morte. «Fu, a dire il vero, il suo solo anno senza lagrime e quasi la sola ricompensa della sua vita», scrive Ernest. I casi estremi dicono talvolta la verità delle cose.

Parentele

Attorno al nocciolo centrale genitori-figli si delineano i circoli di una parentela più o meno estesa, secondo i tipi di famiglia, le forme di habitat, le migrazioni, gli ambienti sociali, ma che nel secolo XIX rimane molto viva, anche negli strati popolari. Secondo certi studi recenti di sociologia cittadina (Henri Coing) è soprattutto nel mondo operaio che i pasti domenicali sono dedicati specialmente alla sola famiglia slargata.

Nonni

La presenza dei nonni in casa, classica nel mondo rurale, dove crea d’altra parte dei problemi quando il vecchio non può più lavorare, è molto più rara in città, se non a titolo temporaneo; qui i figli si distribuiscono l’ospitalità ai vecchi genitori in rapporto al poco spazio offerto dalla casa.. Gli operai delle monografie di Frédéric Le Play (Ouvriers des deux mondes) hanno molto spesso rapporti coi loro ascendenti, specialmente dal lato materno. Affidano loro i bambini piccoli; li assistono nella vecchiaia. Tuttavia questa solidarietà tra generazioni tende a venir meno, e il ricovero in un ospizio è uno_spauracchio per i vecchi abbandonati. Perciò la questione della tarda età si propone con una crescente acutezza, e questo in tutti gli ambienti. Nello Gévaudan i nonni, scontenti degli assegni alimentari versati senza regolarità, adottano piuttosto un sistema di usufrutto. Presso i salariati, la rivendicazione del diritto alla pensione assume sempre maggior consistenza, specie nel settore pubblico dove ci si rivolge più volentieri allo Stato.

I custodi dei manicomi indirizzano nel 1907 una lettera al ministro degli Interni: «Non abbiamo diritto a vivere, come tutti i cittadini, e ai privilegi di ogni altra categoria d'impiegati che lo Stato protegge e a cui assicura l'avvenire con la cassa delle pensioni?». Il rifiuto della Cgt di ratificare la legge sulle pensioni del 1910 viene dalle insufficienze della legge, non da un'opposizione a un principio che al contrario l'opinione operaia desiderava prendesse corpo, come testimonia la corrispondenza accolta nelI'«Humanité» da Ferdinand Dreyfus che si occupava della questione. Il fatto che la vecchiaia diventi un rischio oggetto di assicurazione, al medesimo titolo della malattia o dell’incidente, mostra a un tempo un rivolgimento nelle solidarietà familiari e un mutamento di percezione del tempo della vita. Quella coscienza della vecchiaia che la nonna di George Sand diceva esser cominciata con la Rivoluzione («E la Rivoluzione che ha inventato la vecchiaia nel mondo», diceva lei), è un mutamento fondamentale da studiare.

I nonni intervengono in modo più o meno puntuale a seconda della lontananza. Abitualmente liberi da compiti educativi, possono offrirsi il lusso della dolcezza di fronte ai bambini, di essere «bon papa» (nonnino) e «bonne maman» (nonnina). Possono sostituirsi ai genitori, morti, lontani, o nell'impossibilità di attendere ai loro compiti. Orfano di madre, Henri Beyle è così allevato dal nonno Gagnon; di Xavier-Édouard Lejeune, figlio naturale, si prendono cura i nonni materni; Aurore Dupin viene educata dalla nonna paterna, che accoglie anche il figlio naturale di Maurice, Hyppolite Chatiron. Élisée Reclus è fino a otto anni nelle mani dei nonni materni che hanno su di lei un'influenza decisiva. Ricordi del genere abbondano nelle autobiografie che si aprono quasi sempre col ritratto dei nonni, limite a monte della memoria di famiglia. Figure quasi mitiche, equivalenti a un quarto di nobiltà, schizzo di una genealogia ed anche, per i bambini piccoli, prima esperienza della scomparsa e della morte. Ricordiamo la morte della nonna del narratore della Recherete (Proust). D'altra parte l'importanza dei nonni nella trasmissione delle nozioni e delle tradizioni non deve essere sottovalutata.

In questo secolo turbolento, il racconto degli avvenimenti storici, del modo come sono stati vissuti dai nonni, costituisce una sorta di privatizzazione della memoria, spesso femminile, in rapporto alla maggior longevità delle nonne che si sono anche sposate più giovani.

Cugine e zie

Zii e zie, cugini e cugine moltiplicano fino a gradi più o meno lontani che tendono a restringersi al cugino in secondo grado, la nebulosa familiare, orizzonte dei corrispondenti, delle relazioni e delle solidarietà. In ambiente popolare servono da canovaccio alle migrazioni per ragioni di lavoro. In ambiente borghese costituiscono le presenze abituali dei ricevimenti e la compagnia preferita delle vacanze, tempo della vita fuori di casa e delle iniziazioni, anche sessuali. Turbamenti di adolescente per la graziosa cugina che, da un'estate all'altra, è diventata donna, batticuore per il seducente cugino che assume delle arie da studente disinvolto: carta del tenero, educazione sentimentale, la famiglia basta a tutto, provvede a tutto (si pensi al romanzo di Michel Braudeau, Naissance d'une passion, Ed. du Seuil, 1985), salvo a porre una fine, alle volte dolorosa, quando le cose si spingono troppo lontano o vengono meno alle regole imposte dal sangue o dall'eredità.

Zii e zie servono eventualmente da tutori. Data l'incapacità che pesa sulla madre vedova, il loro posto in un consiglio di famiglia può essere importante, soprattutto in caso di seconde nozze, subordinate al loro parere, per quanto concerne l'amministrazione dei beni degli orfani o le domande d'internamento formulate in base alla legge del 1838.

Legate alla casa, spesso nubili in soprannumero, le zie costellano l'universo infantile e i nipoti si ricordano soprattutto di loro. Henry Beyle deve subire la ferula della severa zia Séraphie — «quel diavolo femmina [...], il mio cattivo genio durante tutta la mia infanzia» —, raddolcita dalla tenerezza di zia Elisabeth. Jacques Vingtras evoca le sue quattro zie, due materne, Rosalie e Mariou, due paterne, Mélie e Agnès, due vecchie zitelle, queste, che vivono con parsimonia e che si aggregano a una piccola comunità di devote, vicino al Puy-en-Velay. Il ruolo materno delle zie, per forza di cose, è più accentuato nei confronti delle orfanelle. Caroline Brame è sotto la sorveglianza della zia Celine Ternaux, senza dubbio responsabile del suo matrimonio, come di molti altri nella famiglia. Marie Capelle — la futura M.me Lafarge — è iniziata ai segreti del matrimonio dalle zie: «Dopo una prima colazione abbastanza lunga e animata, le mie zie si chiusero con me nel salottino e cominciarono ad iniziarmi agli spaventosi misteri dei miei nuovi doveri» (Mémoires. 1842, t. II, p. 103).

Quanto allo zio, porta l'aria del mondo esterno. Ha il prestigio del padre senza averne i difetti. Offre ai nipoti un modello d'identificazione complice. Xavier-Édouard Lejeune si entusiasma delle scappate che fa da suo zio, un sarto che mette la redingote per portarlo alla barrière du Tróne. Albert Simonin ammirava i suoi due zii: Pierre, l'inventore, e possessore molto prima del 1914 di un'automobile, Frédéric, l'orologiaio e lampionaio, che aveva costruito da sé il suo villino in periferia. Paul Reclus ha er suo zio Elisée il geografo un vero e proprio culto: dopo la uà morte cura l'edizione delle sue opere. Lo zio, sostituto del adre, può anche avere dei poteri temibili. Ma soprattutto ci si ompiace di favoleggiare della sua riuscita. Lo zio d'America è uno dei miti dell'universo familiare.

Vicini e domestici

Al di là della parentela, ecco la terza cerchia: la servitù per i più agiati, il vicinato soprattutto per gli strati popolari; l'una e l'altra mettono bene in luce la differenziazione spaziale della scena privata. C'è tuttavia un aspetto comune: in entrambi i casi c'è coscienza di un limite, anche di un pericolo. Domestici e vicini servono, sono un aiuto per le famiglie: ma la loro presenza e i loro sguardi turbano e minacciano l'intimità. Bisogna a un tempo servirsene e diffidarne.

Il vicinato è al tempo stesso complice ed ostile. Nei villaggi non è facile sfuggire alla forza della sua sorveglianza. Nello Gévaudan «tutto il villaggio è perfettamente al corrente e il giuoco che consiste nel penetrare la vita segreta delle case vicine, pur proteggendo la propria, è osservato dappertutto». Si delinea tutta una semiotica dei comportamenti e delle apparenze. Certi luoghi sono più propizi di altri allo spionaggio: tale la chiesa, «luogo panoptico del villaggio». Si osserva la frequenza delle presenze a messa, quella della comunione (se uno non si comunica ci si pongono dei problemi sull'assoluzione), la lunghezza delle confessioni delle ragazze. Le donne soprattutto, loro che sono la fonte del disonore, sono spiate e specialmente nel punto sensibile: il ventre. Guai ai visi che ingrassano, alle figure che si appesantiscono e d'improvviso si sgonfiano...

Le vedove sono oggetto di particolare attenzione. «La provincia sorveglia le vedove», scrive Mauriac. Misura il tempo durante cui esse portano il velo sul viso. Misura il dolore provato dalla lunghezza del crespo. Guai a colei che, in un giornata torrida, solleva il velo per respirare! E stata vista; si dirà: «Eccone una che ha fatto presto a consolarsi» (la Province, 1926). Giuoco di sguardi attraverso le persiane chiuse a metà. Giuoco di parole, di mezze parole mormorate alla fontana, al lavatoio — per eccellenza luoghi di scambi e di censura — che si trasformano in dicerie insistenti. Nella misura in cui il villaggio è una comunità che intende autogestirsi e rifiuta l'intervento e-sterno, le costrizioni della censura interna vi sono particolarmente pesanti. Il vicinato è il tribunale della reputazione.

Vicinato

Gli ambienti popolari della città offrono una maggiore libertà? Si, nella misura in cui le comunità vi sono provvisorie, meno stretti i legami d'interesse, più rapido il movimento; nella misura in cui esiste una relativa solidarietà contro «quelli» che stanno al di fuori, soprattutto la polizia. No, in ragione della tenuità dei muri - i letti che scricchiolano rivelano le intimità -, delle finestre aperte nelle sere estive che trasformano le corti in casse di risonanza dei litigi della coppia o degli alterchi tra vicini, degl'incontri forzati sui pianerottoli, nei punti di rifornimento collettivo dell'acqua, davanti ai gabinetti puzzolenti, oggetto di t conflitto tra le famiglie che li utilizzano.

Personaggio essenziale: la portinaia (nelle case popolari è quasi sempre una donna, in virtù di una lenta svolta che ha fatto venir meno guardaportone e anche portieri) temuta per la sua posizione, mediatrice tra pubblico e privato, tra inquilini e proprietari, talvolta in combutta con la polizia, che si rivolge sempre a lei in caso d'incidente e che tenta di farne il suo occhio sul posto. Il suo potere occulto è notevole: è lei che filtra gli affittuari come i visitatori o quelli che cantano per le strade che, solo con la sua autorizzazione, penetrano nel cortile. Avere un alloggio sulla strada è un progresso nella difesa della propria intimità.

«La maggior parte degli abitanti si compiace di starsene su un territorio modesto, anche minuscolo», osserva Pierre Sansot (La France sensible, 1985). La strada, più del quartiere, costituisce lo spazio di conoscenza reciproca per cui passa la frontiera del segreto. Le botteghe ne sono l'epicentro, coi loro codici di cortesia, i loro doni e i loro ricambi. Ci sono alcuni personaggi essenziali: vedette, confidenti e testimoni: la fornaia, ma soprattutto il droghiere che spesso «diventa l'orecchio o il confessionale del quartiere o della strada» (Michel de Certeau, L'Invention du quotìdien).

Il quartiere, più complesso, sbocca nella città, dove si dispiegano altre pratiche di privatizzazione.

Qui ci interessa meno lo spazio della «gente», di questi vicini, di rado scelti, che rappresentano gli occhi degli Altri, da cui bisogna a un tempo difendersi e farsi amare. I vicini stabiliscono un codice di buona educazione della casa e della strada, una norma a cui bisogna piegarsi per essere ammessi, perché la tendenza è volta a riprodurre lo stesso esemplare e ad escludere il diverso: lo straniero, per nazionalità, per razza, per provincia, anche per villaggio. Nella prima metà dell'Ottocento — Louis Che-valier l'ha mostrato —, Parigi è una giustapposizione di villaggi; certe corti della rue de Lappe, quartiere popolato da Alverniati, raggruppano tutti gli originari dello stesso villaggio. Allo stesso modo, alla fine del secolo, il Pletzl (il Marais) raggruppa gli ebrei immigrati dall'Europa orientale, e distinzioni si operano fra la rue des Francs-Bourgeois, le faubourg Saint-Germain del quartiere ebraico e la rue des Rosiers sporca e sovrappopolata.

Lo sguardo del vicinato pesa sulla vita privata di ciascuno e su ciò che ognuno lascia fìltrare: «Che cosa diranno?». La disapprovazione, la tolleranza, l’indulgenza valgono le tavole della Legge. Ci sono anche dei limiti a questo intervento del vicinato: i muri dell'alloggio, ciò che sta oltre la porta, salvo rumori intempestivi, sospetti scoli d'acqua, odori nauseabondi, non comportano intervento. I genitori possono picchiare i figli; il marito la moglie: sono fatti loro; non si va a chiamare la polizia per questo. Bisogna che sopraggiunga un dramma perché le lingue abbandonino ogni freno e si solleciti un intervento. Del resto, l'uso che i privati fanno della polizia e della giustizia, in altre parole la presentazione di denunce da parte di privati è un indice interessante delle soglie di tolleranza e delle forme d'intervento che meriterebbe di essere studiato. In ogni caso le contestazioni di vicinato restano, in sede giuridica, materia di diritto civile, ed esiste un certo consenso sull'inviolabilità di una privacy che si associa all'ambito della famiglia e del suo habitat.

Meno grande la tolleranza per i comportamenti politici, come dimostrano le ondate di denunce in tempo di disordini, per esempio al momento della Comune. Sono stati numerosi quelli che hanno dovuto il loro arresto alle spiate di una portinaia o di un vicino. Jean Allemane ne fece la penosa esperienza.

Equilibrio sottile di tensioni contenute, eventualmente solidale. ma più spesso critico, il vicinato avvolge la vita privata come il guscio pungente di una castagna!

Attorno al nucleo familiare borghese, il complesso domestico disegna delle aureole proporzionali al rango o alle tradizioni. Due sono — in misura diversa — importanti: quella dei servitori e quella degli animali domestici.

Animali domestici

Di questi parleremo poco. Appartengono, in effetti, a quella intimità personale che sarà analizzata in seguito da Alain Corbin. Il sentimento che lega agli animali familiari — cani, uccelli, più tardi gatti — cresce nel corso del secolo, come la sensibilità ecologica, che tiene il suo posto nella sfera pubblica. Gli animali appartengono alla famiglia, se ne parla come di vecchi compagni, si danno loro notizie (così nel caso di George Sand, la cui corrispondenza fornisce in proposito dei pezzi da antologia); sono la testimonianza dell'assente. Caroline Brame, come Geneviève Bréton, ricevono in dono una cagna dall'innamorato; la prima la chiama «Guerrière» e gli dà il nome del suo padrone; la seconda la vezzeggia come l'immagine di un bambino che nascerà. Si assegna loro un'identità: la cagna di madame Dupin porta un collare: «Mi chiamo Nérima, appartengo a madame Dupin, Nohant, presso la Chàtre»; essa chiude la sua vita sulle ginocchia della padrona ed «è stata sepolta nel nostro giardino, sotto un rosaio; messa sotto terra, come diceva il vecchio giardiniere, che, da purista del Berry, non avrebbe mai applicato il verbo seppellire a una creatura che non fosse un cristiano battezzato».

Non senza difficoltà l'animale domestico comincia la sua ascensione come persona, ascensione che raggiunge il culmine ora, fino al punto da mettere in imbarazzo il diritto: può un padrone legare la sua fortuna al proprio cane? Tale fu l'enigma giuridico, risolto negativamente, che ebbero da affrontare di recente gli uomini di legge (1983). Nell'ultimo terzo dell'Ottocento la nozione di «diritti degli animali» si profila quasi con la stessa forza di quella dei «diritti del bambino». Notiamo che le femministe vi erano molto sensibili e che, per la maggior parte, militarono nella Società protettrice degli animali.

Persone di servizio

Il numero e la natura del personale di servizio dipende dallo stato sociale e dal livello di vita, di cui, al tempo stesso, costituisce il simbolo più visibile: « avere una donna di servizio» segna l'ascensione a una_casta superiore: quella delle persone servite, che possono permettere alle loro mogli di dedicare il tempo libero alle funzioni di rappresentanza, al lusso ostentato. C'è in questo persistenza di un modello aristocratico, negatore dell'indipendenza salariale e ghiotto di legami personali. In effetti il servitore impegna nei confronti dei suoi padroni il suo corpo, il suo tempo, il suo essere stesso. Di qui il disagio crescente che questo arcaico stato di cose comporta nella società democratica e gl'inizi di deterioramento che si delineano verso la fine del secolo, palpabili nelle difficoltà di «farsi servire» di cui si lamentano le donne della borghesia, femministe comprese.

Non è qui nostro proposito trattare la storia sociale del personale domestico, che d'altronde è stata largamente tratteggiata; piuttosto ci proponiamo di tracciare la sua storia «privata», a un tempo esteriore — posto dei domestici nella casa — e interiore: hanno i domestici una vita privata?

Quello dei domestici è del resto, un mondo gerarchizzato Al culmine della scala, precettori e istitutori — che solo le famiglie facoltose possono permettersi quando desiderino tenere in casa i loro bambini — si presentano come mezzi intellettuali, e spesso lo sono. Lo sviluppo della scolarità obbligatoria rende rari i precettori più delle istitutrici, di cui Flaubert scrive: «Sono sempre di un'ottima famiglia che ha passato dei guai. Nelle case sono un pericolo: seducono il marito» (Dictionnaire des idees reçues). Nel 1847 il duca di Choiseul-Praslin assassina la moglie, prima di suicidarsi, per una giovane governante. Questo gran fatto di cronaca aveva scosso la monarchia abbassando l'aristocrazia al livello del volgare delitto passionale. Francesi nella prima metà del secolo, più spesso inglesi, tedesche o svizzere nella seconda, le Miss o Fraulein, le nurses sono caccia aperta in permanenza per i desideri del padrone. Aleggia intorno a «Mademoiselle» un’atmosfera di seduzione da cui ella deve difendersi con comportamento austero, occhiali e crocchia dall'aria saggia.

La situazione dei domestici subalterni è anche più difficile, nella misura in cui sono socialmente indifesi ed esposti. L'estrema ambiguità della_ loro posizione viene dal fatto che sono al tempo stesso dentro e fuori, integrati alla .famiglia ed esclusi, nel cuore dell’intimità della casa, della coppia, del corpo segreto dei padroni, e tenuti a non vededere nulla e soprattutto a non dire nulla: Bécassine — creata nel 1906 nella Semaine de Smette non ha bocca. Ci si aggiunge il fatto che per lo più si tratta di un rapporto da donna a donna. L'assottigliamento delle grandi case aristocratiche alla Guermantes lascia il posto allo sviluppo della «donna tuttofare», attraverso la quale la piccola borghese di città afferma le sue pretese. La professione si proletarizza e diventa femminile,unione classica che indica la sua relativa degradazione nella stima sociale.

Camerieri e cameriere - specie in via d’estinzione — sono nella posizione più falsa. Finché sono negati come persona nessun problema: che importa il contatto, poiché non hanno sesso? Quindi la marchesa dello Chatelet poteva, nel Settecento, farsi fare il bagno, con perfetta indifferenza, dal suo cameriere, Longchamp, la cui virilità era tuttavia abbastanza desta perché ne provasse un turbamento confessato nei suoi Mémoires. Un secolo e mezzo più tardi, la stanza da bagno diventata santuario si chiude sulla nudità dei padroni che non tolleravano più di essere visti dai loro domestici. «La signora si veste da sola e si pettina da sé. Si chiude a doppia mandata nel suo gabinetto da toilette e a mala pena ho diritto di entrarci», si rammarica la Célestine de Mirbeau (Journal d'une femme de chambre), come se perdesse una parte del suo potere. Georges Vigarello mostra come un «rapporto da persona a persona» più esigente sia alla radice di questo bando (le Propre et le Sale, Ed. du Seuil, Parigi 1985; trad. it., Lo sporco e il pulito, Venezia 1987).

Questa esigenza di intimità rafforzata non si manifesta solo per la stanza da bagno, ma anche per la camera — una donna che ama il decoro fa il letto da sé — e per il complesso della casa. I domestici devono essere a portata di mano, ma non presenti. Samuel Bentham, il fratello di Jeremy, il celebre autore del Panopticon, in margine alla sua ricerca di un piano di prigione conforme a questo principio, aveva messo a punto un sistema di chiamata a distanza nella casa di un privato inglese. Sotto il Direttorio, in Francia, i campanelli si moltiplicano, e la «cittadina Ziguette», portavoce del conte Roederer, se ne lamenta come di una perdita di familiarità. Viollet-le-Duc, nella sua Histoire d'une maison (1873), che propone come modello, si cura in modo particolare dei vestiboli, dei corridoi, delle scale, che devono servire a circolare e comunicare, ma anche a evitarsi. Michelet esprime quest'intolleranza: «i ricchi [...] vivono davanti ai loro domestici [leggete: davanti ai loro nemici]. Mangiano, dormono, amano sotto occhi ostili e canzonatori. Non hanno intimità, nulla di segreto, niente focolare». «Vivere in due e non in tre, è l'assioma essenziale per conservare la pace della famiglia».

Questo rifiuto del domestico, diventato l'intruso, è senza dubbio il segno di una sensibilità nuova, ma anche della personalizzazione del servitore il che, alla fine porta all'estinzione della servitù L'altro modo cavarsela, quello che è praticato dai più nell'Ottocento, è la negazione del domestico o della domestica, cancellando il suo corpo, questo corpo negato, che ha descritto Anne Martin-Fugier, il suo nome e anche_il suo nome proprio: «Figliola, vi chiamerete Maria». È l’impossibilità per la domestica di avere una vita privata, familiare o_sessuale" poiché non ha nessuno spazio proprio né il diritto di averlo. Dormire al sesto piano, nonostante la modestia e promiscuità della soluzione, stabilisce una distanza, uno scarto in cui può esistere «un piacere rubato». Di qui la paura nutrita dalle padrone nei confronti del sesto piano, luogo di fantasmi sociali e sessuali.

Di solito nubile, la donna di servizio non ha in lineadi principio, né amante, né marito, né figlio. Se interviene una disgrazia si leva d'impaccio. Molte domestiche sono processate per infanticidio; esse popolano le maternità degli ospedali, rifugio delle ragazze madri, e si vedono spesso costrette ad abbandonare il bambino. Quando il secolo, avaro di nascite, diventa più indulgente verso le madri nubili, molte domestiche conservano il loro bambino; ma la necessità di allevarlo da sole le inchioda ulteriormente al proprio posto.

Se il padre è il padrone, devono sparire, o far dimenticare la loro colpa in un totale silenzio. Helen Demuth tenne nascosta per tutta la vita l'esistenza del figlio che aveva avuto da Marx. Quando molto più tardi, dopo la loro morte, Eleanor scoprì la verità, per contraccolpo si ammalò: non per la relazione, ma per la bugia con cui era stata mascherata. La situazione di Helen Demuth, integrata alla famiglia Marx al punto da condividerne tutti gl'interessi annullando se stessa, è l'esempio paradossale dell'abnegazione a cui erano ridotte le donne di servizio di gran cuore, quelle che si scorgono timide nell'angolo di una fotografia di famiglia, e di cui non si sa più il nome. Questa devozione ancillare è tale che alcune, in effetti, non hanno altro tetto, altra famiglia se non quella dei padroni, su cui vegliano come eterne nutrici. Berthe Sarrazin cura Toulouse-Lautrec e dà ai suoi notizie della sua salute. Lo spirito della «casa» è un modo incosciente di non soffrire e di giustificarsi, di trovare, nella familiarità degli dèi, una maniera di nobilitarsi. Così Celeste Albaret — la Francoise di Proust — o Berthe, la cameriera di Natalie Clifford Barney, sono state a testimoniare, vigili e tenere, la grandezza dei loro padroni.

Questa sopravvivenza dei tempi feudali è incompatibile con lo sviluppo della coscienza di sé. Se i padroni non tollerano più di essere visti, i domestici non sopportano più questa negazione .del loro corpo e del loro stesso essere. Poche le rivolte aperte, ma ci sono scarti individuali. Diventano mutevoli, indocili, accettano malvolentieri i consigli e vanno dietro ai loro fini. Le giovani domestiche risparmiano per maritarsi e hanno fama di essere buoni partiti. D'altra parte i paesi di provenienza riducono le loro migrazioni: alla fine del secolo si ha paura della sifilide, del «male parigino». La «crisi del personale domestico», che si traduce nell'inflazione delle offerte d'impiego nei giornali, in un leggero aumento dei salari, in un principio di sindacalismo e di legislazione protettiva, mette radici di fatto in seno alla vita privata e alle relazioni interpersonali. È il segno della democratizzazione.


Drammi e conflitti familiari (pp. 210-239)
di Michelle Perrot

La famiglia, nell'Ottocento, si trova in una situazione contraddittoria. Rafforzata in potere e dignità dalla società intera, che vede in essa un mezzo essenziale d'imporre delle regole, tenta di imporre ai suoi membri i propri fini, poiché l'interesse del gruppo è dichiarato superiore a quello dei suoi membri. Ma, d'altro lato, la proclamazione dell'egualitarismo, i progressi sordi ma continui dell'individualismo esercitano altrettante spinte centrifughe generatrici di conflitti, talvolta fino all'esplosione. La famiglia è una microsocietà minacciata nella sua integrità e perfino nei suoi segreti. La regola elementare dello spirito di famiglia, la difesa del suo onore, passano tuttavia attraverso la salvaguardia di questi segreti condivisi che la cimentano e la contrappongono a ciò che sta al di fuori come una fortezza, ma spesso anche introducono nel suo seno delle sfaldature e delle crepe. Grida e bisbigli, porte che stridono, cassetti chiusi a chiave, lettere rubate, gesti sorpresi, confidenze e misteri, sguardi di traverso o intercettati, cose dette e non dette tessono un universo di comunicazioni interne tanto più sottili quanto più gl'interessi, l'amore, l'odio, la vergogna sono contrastanti. Miniera inesauribile d'intrighi, questo romanzo familiare di cui si nutre la letteratura e di cui la cronaca, quest'epopea della vita privata, offre talvolta degli squarci. «Se non ogni famiglia implica una tragedia, ogni tragedia è un affare di famiglia» (Tri-caud, l'Accusation, 1977).

Nel corso del secolo la rivolta contro la famiglia — contro il padre, ma anche contro la madre, o contro i fratelli oggetto di gelosia — è sempre più accentuata e obbliga la famiglia ad evolversi per sopravvivere. Gli individui sopportano peggio le sue costrizioni. La famiglia borghese, soprattutto, è il bersaglio delle critiche di artisti e intellettuali — dandies, celibi che insorgono contro le leggi del matrimonio, bohémiens che si fanno beffe delle convenzioni ipocrite —, degli scatti di adolescenti in vena d'infrangere le regole, dell'insofferenza di donne avide di esistere per se stesse. Alla vigilia della guerra la nave beccheggia ma regge. Per molti la partenza, prima di essere l'orrore, ha potuto presentarsi come una consolazione, una liberazione, la speranza di un'avventura personale.

Nodi dei conflitti

Il danaro

In primo luogo il danaro in senso lato, nella misura stessa in cui la famiglia è portatrice di un patrimonio che Hegel ritiene indispensabile alla sua esistenza, mentre Marx ne denuncia il germe di putrefazione. Il danaro è al centro di molti matrimoni combinati che sono, negli ambienti facoltosi, la strategia più diffusa. Di qui le recriminazioni quando le promesse non sono mantenute. Per il versamento degli arretrati di una dote si vedono dei generi che si fanno contabili dei loro suoceri. Quando il regime dotale consigliato da molti giuristi in terra occitanica come un mezzo per tutelare gl'interessi della sposa limita la gestione del marito, questi tenta talvolta di trovare una scappatoia. E la storia di Clémence de Cerilley sposata senza molta cautela a un ex ufficiale che le fa redigere a suo vantaggio dei testamenti successivi sempre più vantaggiosi, fino al giorno in cui, appoggiato dalla sua propria famiglia, la fa dichiarare pazza ed internare, trovandosi così ad aver mano libera nella gestione dei beni. Data la legalità del potere maritale, alla famiglia di Clémence è molto difficile farla rimettere in libertà. Soprattutto si rivela impossibile la separazione legale, poiché la sposa non può «lamentare né ferite, né violenze, né minacce, né la presenza di amanti sotto il tetto coniugale», come esige l'articolo 217.

La corrispondenza di questa famiglia offre d'altronde una serie di esempi di conflitti che riguardano il danaro e in particolar modo in questioni di eredità. Qui un cugino pretende di essere stato privato fraudolentemente di un legato di 60.000 franchi lasciato da un nonno materno e ne profitta per mettere in discussione le transazioni di famiglia; là dei fratelli e delle sorelle, benché affezionati, attaccano briga per l'esecuzione delle disposizioni testamentarie del padre, cavillando su alcuni tagli di boschi e finendo col rimettersi alla legge per la divisione e agli uomini di legge come mediatori.

Le eredità sono l'oggetto e l'occasione dei conflitti più gravi, per grandi che siano le precauzioni prese dai genitori per fare in vita donazioni e transazioni. E un fatto che nulla è matematico nella valutazione di un bene; c'entrano anche il desiderio, i fattori immaginativi, il senso di un diritto particolare. Per facoltosi che siano, i fratelli Brame si dilaniano per il castello di Fontaine, vicino a Lilla, moltiplicando intrighi e persino vie di fatto; l'affare è causa di così profondo dissenso che Jules, il maggiore, ha sentito il bisogno di lasciarne il racconto per i suoi discendenti, legando così alla memoria dei suoi familiari il ricordo di una lotta fratricida.

Presso le persone più modeste ci si trova di fronte al computo degli armadi di biancheria, alle liti per le lenzuola e per i fazzoletti, che suggeriscono d'altra parte il valore di questi articoli nell'economia familiare e la civiltà dei costumi, al sordido conteggio dei cucchiaini, allo smantellamento delle biblioteche dove, contro ogni ragionevolezza, collezioni o serie di opere sono scioccamente spezzettate per soddisfare delle suscettibilità egualitarie. La morte del padre o dell'avo diventa così l'occasione per un regolamento di conti dove ciascuno computa i vantaggi dell'altro, fa valere i diritti della sua eventuale devozione, ritenendosi inevitabilmente danneggiato. Di rado i più caldi legami tra sorelle, i migliori rapporti tra cugini escono indenni da queste grandi prove familiari. Molti sono gli screzi e addirittura le rotture definitive. Questi fatti a-limentano le conversazioni e la corrispondenza di famiglia, a meno di un'autocensura che pesa sulle questioni di danaro.

Di solito restano cose confidenziali, col notaio come unico testimone, occasionalmente arbitro delle contestazioni più gravi. Talvolta la pressione sale, soprattutto nelle società rurali, dove la proprietà è fonte di sopravvivenza. Nello Gévaudan, i figli che si ritengono danneggiati dalla scelta del primogenito si rivoltano sempre di più contro le decisioni arbitrarie del padre. Alla fine dell'Ottocento il ricorso alla giustizia come sostituto della vendetta privata indica un regresso del senso della famiglia che mette i segreti sulla pubblica piazza.

Nella borghesia degli affari o dell'industria le decisioni economiche, i fallimenti che scuotono il nome e il patrimonio sono stati vissuti come drammi familiari. La legislazione permette tuttavia di evitare la confusione dei rami, e la società in accomandita perde terreno davanti alla società anonima che tutela il patrimonio dei rami distinti. Tuttavia certe famiglie un po' fuori del tempo hanno mantenuto dei sistemi di gestione arcaici; nel periodo fra le due guerre l'imperizia di figli di famiglia inghiottì in pochi anni fortune considerevoli che essi avevano costituito in società in nome collettivo.

Senza dubbio uno studio sistematico delle procedure civili, dei processi nati da contestazioni di eredità, per esempio, permetterebbe di saperne di più sui rapporti conflittuali che, in seno alle famiglie, si intrecciano attorno al danaro; gli storici della borghesia, in fondo, ci dicono ben poco in proposito.

Ma la questione di danaro avvelena spesso anche la vita di tutti i giorni. Mette in urto marito e moglie a proposito del bilancio. Intendente (ambiente borghese) o «ministro delle finanze» (ambiente popolare), la sposa ha sempre una situazione di dipendenza che la stimola all'astuzia (truccare i conti) o alla collera. Henri Leyret parla dei giorni di paga: «In quel giorno il quartiere riveste una fisionomia molto particolare, mista di gaiezza e di ansietà, di un movimento di attesa, come se una vita nuova succedesse alla cupa depressione della settimana. Le donne da casa si mettono alla finestra, discendono sulla soglia delle porte, e talvolta, perdendo la pazienza, col cuore stretto, le si vedono partire per andare incontro ai mariti, sulla via del laboratorio [...]. E nella strada voci che brontolano; nelle case volano ingiurie, si levano voci impastate ed irose, delle mani si alzano, scoppiano dei pianti, dei bambini si lamentano, mentre, all'osteria, tutto è ebrezza, ebrezza del canto più che ebrezza del vino» (En plein faubourg, 1895, p. 51).

Il medesimo autore ha descritto le vessazioni di cui sono talvolta oggetto certi figli sospettati di non consegnare alla madre tutto il loro guadagno: soprattutto i più grandi e le ragazze, sempre sospettate, se sono civette, di bauere il marciapiede. Fra gli adolescenti in cerca di emancipazione e i genitori di condizione operaia, il danaro, come si è visto, è un punto di frizione.

L'onore

La famiglia non è solo un patrimonio. È anche un capitale simbolico d'onore. Tutto ciò che intacca la sua reputazione, che macchia il suo nome la minaccia. Contro l'estraneo che la minaccia essa fa blocco. La colpa compromettente di uno dei suoi membri la mette in uno stato di imbarazzo crudele. Solidarietà nella riparazione, punizione decisa dal tribunale familiare, esclusione, complicità nel silenzio: tutti gli atteggiamenti sono possibili. Guai, tuttavia, a colui che è causa dello scandalo!

Lo scandalo: nozione essenziale e tuttavia affatto relativa. «E una figura banale nella storia e nella letteratura quella del nobile sensibile al minimo rischio di umiliazione, ma coperto di debiti che poco lo preoccupano», nota Tricaud (op. cit., p. 136). Molteplici sono i codici d'onore che vigono in Francia nell'Ottocento, e sarebbe molto interessante fare l'inventario di ciò che costituisce scandalo. In linea di massima, l'onore è morale e biologico più che economico. La colpa sessuale, la nascita illegittima sono molto più fortemente condannati del fallimento che, tuttavia, lo è più d'oggi: si veda Cesar Birotteau. Insomma, il disonore arriva attraverso le donne che sempre si mettono dal lato della vergogna.

Mettere al mondo dei bastardi è oggetto di una condanna particolarmente grave che spiega il ricorso delle ragazze madri (e delle madri adultere) all'infanticidio e all'aborto, o al parto clandestino negli ospedali di maternità delle città anonime e l'abbandono. Per limitare l'ecatombe dei neonati illegittimi l'Impero, dal 1811, ha istituito delle ruote molto discusse in seguito. Nel 1838, alla Camera, Lamartine le difende come il miglior mezzo per tutelare l'onore delle famiglie e, contro i parlamentari malthusiani che temono la prolificità dei poveri, sostiene la «paternità sociale»: «Il bambino illegittimo è un ospite da ricevere, la famiglia umana deve circondarlo del suo amore». La «famiglia umana»: non la famiglia legittima che non sa che farsene di questo vergognoso rampollo. Considerate responsabili dell'aumento di casi di abbandono (67.000 nel 1809, 121.000 nel 1835), le ruote saranno via via chiuse; nel 1860 solo 25 ospizi ne sono ancora provvisti e, in questo medesimo anno, una circolare ministeriale le sopprime del tutto.

Ormai l'abbandono del bambino si effettua in un ufficio, con una dichiarazione. La ragazza madre che desidera allevare il suo bambino riceve un sussidio equivalente al costo di una nutrice all'ospizio. Quanto ai bambini abbandonati, l'Assistenza pubblica — per lo meno a Parigi che è il grosso centro di raccolta — li prende a suo carico sistemandoli, di solito, in campagna. Solo nella seconda metà dell'Ottocento si istituiranno degli orfanotrofi (come quello del Prince-Impérial) e delle scuole d'apprendistato (sul genere degli Apprentis d'Auteuil).

Il bastardo è uno scandalo; lede l'onore delle ragazze dalla verginità distrutta, delle donne dalla palese infedeltà, delle famiglie minacciate nel loro assetto. Nascondere la colpa, far scomparire il suo putrido frutto: ecco l'assillo delle donne e di coloro che le circondano. Gl'infanticidi molto spesso rendono palese la solidarietà delle madri e delle figlie. Ma spesso si trova nel vicinato, o anche nel casamento, qualcuno che denuncia la cosa. Talvolta per convocare il sindaco o le guardie basta una chiacchiera un po' insistente.

Certe donne, per principio o per tenerezza, decidono di tenere il bambino. Spesso lo affidano ai nonni, per un tempo sufficiente a far dimenticare l'avventura, e forse a trovare un marito disposto ad assumere la paternità. La cosa, relativamente abituale negli strati popolari, meno suscettibili in fatto di figli naturali, dà luogo negli ambienti facoltosi a ogni sorta di negoziazioni. La ragazza madre non è un partito facile da accasare, e bisogna offrire dei compensi, specialmente sul piano finanziario. È la storia di Marta, giovane aristocratica messa incinta dal suo palafreniere; tutta la famiglia si affanna per trovarle un marito possibile perché, dice lei, ha sessualmente bisogno di un uomo. Questo marito è un bruto: la truffa, la picchia, profittando senza dubbio della sua «colpevolezza». Ella finisce col chiedere il divorzio, non senza incorrere di nuovo nella disapprovazione dei suoi che sono cattolici osservanti. Il bambino, dato a balia, muore verso i quattro o cinque anni, senza che nessuno lo rimpianga sul serio. In verità la morte è il destino consueto del bastardo, questo bambino non desiderato, mal curato, poco amato. Si calcola che, più o meno a seconda degli anni, il 50 per cento dei figli naturali muoia. E ci vorrà la crisi di natalità, sensibile a partire dal Secondo Impero, perché lo Stato si renda conto di questo potenziale dilapidato e cominci a mutare la sua politica. Così l'aiuto alle ragazze madri indica un principio di politica familiare, senza che le ragazze siano peraltro riabilitate. Le istituzioni assistenziali le disprezzano, e le famiglie, molto spesso, le mettono al bando.

Nascere male è una vergogna inespiabile e costituisce una tara indelebile per il bastardo. Privo di legittimità si trova ad essere esposto a tutti gli sfruttamenti, a ogni sorta di umiliazioni. Nei villaggi dello Gévaudan gli si affibbiano dei soprannomi. La società vede nei trovatelli dei delinquenti in potenza e li tratta come tali. Quindi i figli illegittimi vanno dall'orfanotrofio alla casa di correzione come seguendo un percorso prestabilito. Più tardi l'esercito aspetta questi militari di truppa che la Comune e la Grande Guerra tratteranno ugualmente da matrigne.

Il segreto della nascita illegittima pesa tanto che certe autobiografie sembrano scritte per mascherarla. Così Xavier-Édouard Lejeune — Calicot — ha costruito un romanzo rocambolesco per dissimulare ciò che i suoi discendenti hanno scoperto grazie allo stato civile, documento implacabile. Quanti bambini legittimati in ritardo hanno appreso solo molto tardi il segreto della loro nascita, nel turbamento e nel disagio che il silenzio porta con sé!

All'inizio dell'Ottocento, Aurore de Saxe - madame Dupin — aveva allevato senza problemi il figlio naturale di suo figlio Maurice; Hippolite Chatiron fu per tutta la vita considerato come il fratellastro di George Sand (eccetto che per quanto concerneva l'eredità). Su questo punto la morale del secolo si è fatta più severa. Senza dubbio la sua vigilanza spiega in parte la diminuzione delle nascite illegittime a vantaggio dei concepimenti pre-matrimoniali e l'aumento progressivo delle legittimazioni.

Le tare e il sangue

Il rafforzarsi delle rappresentazioni della famiglia come capitale genetico accresce anche l'ansietà che circonda le unioni e le nascite. Avere un bambino anormale diventa una preoccupazione su cui grava l'ombra di una colpa. Il mostro riempie le riviste di volgarizzazione scientifica. «La Nature», per esempio, abbonda di descrizioni di nascite di esseri strani le cui malformazioni preoccupano tanto di più perché non se ne conosce l'origine: sono forse l'indizio di qualche tara nascosta? I baracconi da fiera, i musei d'anatomia — come quello del dott. Spitzner — attirano le folle ansiose e curiose. II difetto fisico determina l'allontanamento e, al limite, la riprovazione come se ci si avvertisse un qualche peccato. Di qui il senso di fastidio e l'odio che si attirano talvolta i bambini deformi. Mademoiselle de Chantepie, corrispondente di Flaubert, gli racconta la storia d'Agathe, maltrattata dai genitori perché deforme. «Il viso era normale, ma la testa enorme su un corpo infantile orribilmente contorto». È picchiata, umiliata, lasciata senza scarpe, e finalmente dichiarata pazza (lettera del 17 luglio 1858).

La sifilide — e di conseguenza il sesso — sono, si crede, i principali fattori di disturbo. Di qui le indagini sulla salute dei futuri sposi e la vergogna, o anche la collera, quando si scopre un vizio dissimulato. Di tali disavventure nelle famiglie si parla a bassa voce: esse aleggiano sullo sfondo, come un mistero sempre più remoto che incuriosisce i discendenti. Così nella corrispondenza che Caroline Chotard-Lioret ha fatto conoscere, la madre del personaggio principale, Eugène, una certa Aimée Braud, con poca dote, mal maritata, si ribella al marito; rimproverandogli una qualche «malattia vergognosa», si rifiuta di dividere il suo letto e, fra due viaggi dello sposo, stende in pieno giorno le lenzuola davanti alla casa: gesto altamente simbolico dell'intimità svelata. Fino al giorno in cui, disperata, Aimée abbandona il tetto coniugale, intentando un processo dopo l'altro per ottenere l'affidamento dei tre figli che il marito le sottrae esiliandoli nel Belgio. Ella si chiude allora nella sua casa di Rochefort dove sarebbe morta mezza pazza. In famiglia si parla per coperte parole di questa nonna il cui dramma spiega la sete di una famiglia stabile, in una casa dove regni il buon accordo, propria del figlio Eugène.

La sventura biologica, di cui Zola ha scritto l'epopea nei Rougon-Macquart, è una nuova forma di disonore e fonte di conflitti.

>Follia/

Altro spavento: la malattia mentale che prende consistenza in questo secolo in cui nasce la clinica. Una ragazza «squilibrata» rischia di allontanare i pretendenti dalle sorelle. Fa vergogna ai suoi suscitando dei dubbi sulla loro sanità mentale. La cosa più strana nel caso di Adele Hugo è proprio la forza del consenso familiare (eccettuata la madre) nel neutralizzare questa stravagante capace di gettare un'ombra sulla gloria del grand'uomo e nell'op-porre ai curiosi l'unanimità di una versione onorevole. La famiglia fa blocco per rifiutare l'anomalia.

Non sempre la delinquenza — per lo meno non sotto tutte le sue forme — è oggetto di scandalo. Le frontiere della responsabilità si spostano attraverso il tempo e variano a seconda degli strati sociali. I contadini del Portogallo di oggi sono indulgenti nei confronti del delitto passionale, mentre condannano decisamente il furto e più ancora la mendicità (cfr. Fatela). I codici d'onore delle comunità non coincidono necessariamente con la legge. La delinquenza forestale, per esempio, è una pratica così universalmente diffusa che la legalità dell'Ottocento, nei suoi confronti, batte senza posa in ritirata. Il bambino dedito al piccolo furto campestre, la donna che raccatta fascine, il bracconiere stesso, godono della connivenza generale. Allo stesso modo, in città, nella prima metà del secolo XIX, le madri di famiglia povere incitano spesso i loro bambini alla mendicità, e anche al borseggio. La morale popolare, orientata verso la sopravvivenza del gruppo, è abbastanza lassista. Fino al giorno in cui l'accesso alla piccola borghesia esige il rispetto delle leggi e delle buone maniere. Il vizioso, l'alcolizzato, lo squattrinato, l'indebitato, il giuocatore, il furfante diventano degli indesiderabili, severamente biasimati. È vergogna chiedere in prestito: un padre di famiglia deve far onore ai suoi impegni. L'erede indisciplinato si attira severe sanzioni familiari. Considerato incapace, Baudelaire è messo sotto tutela da un consiglio di famiglia; la sua corrispondenza con la madre, madame Aupick, è una perpetua querimonia sulle sue difficoltà finanziarie e sui suoi litigiosi rapporti con l'avvocato incaricato di versargli una rendita regolare. Del resto, le convenienze borghesi impongono di non far parlare di sé, ideale di una discreta mediocrità. L'eccentricità è una forma di scandalo.

Ciò che offende, più del delitto per sé, è la pena: l'intervento delle guardie, l'arresto, l'imprigionamento, il processo. Progressivamente la prigione si sostituisce nell'immaginazione sociale ai marchi d'infamia aboliti.

La truffa, la frode, soprattutto se esercitata nei confronti di uno Stato visto come qualcosa di molto esteriore, beneficiano di grande indulgenza. Il fallimento, al contrario, è considerato, non solo uno scacco individuale, ma una colpa, una caduta in senso morale. Cesar Birotteau si offre come vittima espiatoria; il rimborso di ciò che deve ha carattere di «riparazione»; la sua riabilitazione ha valore religioso. Nell'Ottocento i suicidii dei falliti non sono rari. E Philippe Lejeune ha dimostrato che il fallimento è una fonte di autobiografie, nella misura in cui esse rispondono a un bisogno di autogiustificazione presso i discendenti. Molto anticapitaliste, le borghesi del Nord chiuderebbero volentieri la loro porta al fallito sospettato di traffici o di vita sregolata. Ci vorrà la costituzione delle società anonime per separare famiglia e impresa e per liberare il capitalismo dalla nozione di onore.

Le vergogne del sesso

Di quella sessualità che il secolo XIX vuol conoscere e che erige a scienza, la famiglia è il centro, nella cornice delle regole e delle norme di cui è il gerente spesso spodestato: dal prete, ma più ancora dal medico, esperto dell'identità sessuale, testimone delle difficoltà, dispensatore dei nuovi comandamenti dell'igiene. La sua funzione, nell'Ottocento, è tuttavia limitata dal fatto che si ricorre a lui ancora in misura limitata.

Questa gestione familiare del sesso, di solito priva di risonanza, è circondata dal silenzio. E ne sappiamo ben poco. La tolleranza sessuale varia a seconda degli ambienti, degli atti, delle età e del genere. È senza dubbio su questo punto che la diseguaglianza tra uomini e donne è più accentuata. La virilità è impastata di prodezze falliche, esercitate abbastanza liberamente sulla moglie e soprattutto sulle figlie — che nello Gévaudan si possono violentare quasi impunemente —, sui bambini, al cui pudore si può attentare purché la cosa non sia pubblica. Nella seconda metà dell'Ottocento un'accresciuta repressione giudiziaria sembra indicare una maggiore sensibilità al riguardo. Allo stesso modo, alla fine del secolo, alcuni procuratori generali cominciano a porre il problema del lassismo penale davanti allo stupro.

Due sessualità sono oggetto di maggiore attenzione: quella dell'adolescente, la cui pubertà è considerata una crisi d'identità potenzialmente rischiosa tanto per lui che per la società, fino al punto che si vede in lui un criminale in potenza; quella delle donne che sono sempre la causa della disgrazia. Causa permanente d'angoscia, la sessualità femminile è controllata dalla Chiesa, che ha qui un ruolo fondamentale. Tutta una socievolezza mariana — decine del rosario in cui le maggiori d'età inseriscono le più giovani, congregazioni di figlie di Maria — chiude le ragazze in una rete di pratiche e di divieti destinati a proteggere la loro verginità. La pietà avversa la mondanità ed il ballo. «Soprattutto niente valzer», dice a Caroline Brame il suo confessore. Gli stessi strati popolari fanno della verginità delle ragazze un capitale: i padri (o i fratelli) accompagnano le ragazze al ballo, luogo spesso brutale in cui i sessi si trovano a fronte.

Ma la cosa più grave è l'infedeltà coniugale della donna. Per l'adulterio dell'uomo la tolleranza è a un dipresso totale, eccettuato il caso di notorio concubinaggio, fortemente disapprovato e legalmente punito se si verifica sotto il tetto coniugale. Tuttavia, se le borghesi, ignorando le relazioni del marito, non ricorrono spesso all'autorità, le donne del popolo, in città, più informate per via delle chiacchiere o degli incontri fatti per la strada, quando si dà il caso, parlano senza reticenze e sono capaci di ribellione, soprattutto quando si ritengono danneggiate finanziariamente come padrone di casa, amministratrici del benessere dei figli. «La Gazette des tribunaux» risuona dei loro scoppi ingiuriosi all'indirizzo dei mariti infedeli e delle donnacce che essi corteggiano. Alla fine del secolo il vetriolo sarà la loro arma temibile.

L'adulterio femminile è il male assoluto contro cui il marito ha tutti i diritti, per lo meno in linea di massima e all'inizio del secolo XIX. Perché — Alain Corbin lo mette in luce — una tendenza più egualitaria si sviluppa in seguito, e il verdetto dei tribunali ne è l'espressione.

Le forme di conflitto

La maggior parte dei conflitti familiari si regola in foro interno. Le convenienze, il senso delle distanze da tenere, la paura dei commenti sfavorevoli, l'assillo della rispettabilità fanno sì che si tengano nascosti e che, sotto certi rispetti, costituiscano il substrato delle famiglie. Non lasciar trasparire nulla, evitare l'intervento di terzi, «lavare i panni sporchi in famiglia»: precetti di morale contadina, ma anche borghese, che rafforzano la frontiera tra «noi» e «loro»: quel mondo esterno sempre in agguato. In ambiente operaio la discrezione è più difficile. Mancano, ad isolarlo, le foreste ed i muri: «Dal mio letto sentivo tutto ciò che accadeva in casa di X», dice il testimone di un processo penale. Fra tutti, gli operai sono i più esposti, e di qui forse la discrezione sulle proprie cose quando si tratta di parlare di sé.

In caso di conflitto, certe famiglie si erigono in una specie di tribunale, esigono riparazione, o espellono la causa del turbamento. Si formano così dei partiti avversi, dei clan che si contrappongono, non ci si parla più, non ci si frequenta più. Tutta una diplomazia familiare gestisce il contenzioso, fino a prevedere i posti a tavola, i «chassés croisés» nelle cerimonie, le negoziazioni, i trattati, le riconciliazioni, per esempio, in occasione di funerali: la morte riunisce quanto divide. Certi personaggi — zii celibi o zie nubili — passano il loro tempo a riannodare i fili di questi imbrogli, complicati da tenaci leggende. Talvolta sussistono delle discordie di cui non si sa più l'origine. Delle anime pie si votano a ricostituire l'armonia che è venuta meno. Perché il buon accordo è l'immagine che si sogna di dare dei propri parenti, riuniti al completo per una di quelle fotografie di famiglia che attestano di fronte agli estranei e alle generazioni future la forza e la serenità di una tribù.

Lo scontro fisico è molto raro in seno alle famiglie borghesi che non approvano le zuffe rustiche preferendo dei canali più sottili, ma non meno devastatori: perverse strategie della talpa o del ragno, che minano dall'interno, nell'ombra e nel silenzio, gli edifici e le reputazioni in apparenza più solidi. Il veleno è la forma ultima di questa violenza segreta a cui lo sviluppo dei prodotti tossici — arsenico e poi fosforo — offre una qualche facilitazione. «C'è un delitto che si nasconde nell'ombra, che striscia sul focolare delle famiglie, che spaventa la società, che sembra sfidare con gli artifici del suo impiego e la sottigliezza dei suoi effetti gli apparecchi e le analisi della scienza, che intimidisce col dubbio della coscienza dei giurati e che si moltiplica d'anno in anno con una crescita spaventosa: questo delitto è l'avvelenamento», scrive nel 1840 il dott. Cornevin. Una vecchia tradizione attribuisce questo delitto alle donne, portate a starsene nascoste per forza e per natura, immerse nelle faccende domestiche. Marie Lafarge, condannata nel 1838 per avere avvelenato un marito troppo disforme dai suoi sogni — delitto che ella ha sempre negato —, è il prototipo di queste belle avvelenatrici che le suocere sospettose vedono muoversi sullo fondo del decesso del figlio diletto. Fra il 1825 e il 1885, le statistiche giudiziarie censiscono, per 2.169 processi per avvelenamento relativi a 831 vittime, 1.969 accusati, di cui 916 uomini e 1.053 donne, ossia il 52 per cento (il che in effetti indica molto di più della parte media della criminalità nell'ambito femminile; circa un 20 per cento in più). Questi delitti raggiungono il massimo tra il 1840 e il 1860; in seguito vanno nettamente diminuendo. Anche nel periodo di punta, nulla a che vedere con le deliranti fantasie dell'epoca.

Violenze

In ambiente campagnolo ed operaio, l'uso dei colpi, la rissa tra fratelli o cugini restano delle maniere comode e spicce di regolare i conti. Battere la moglie fa parte delle prerogative maschili. I colpi ed i maltrattamenti sono nell'80 per cento dei casi il motivo addotto dalle donne che chiedono la separazione legale. La donna che il marito, spesso ubriaco, picchia di santa ragione tornando dal lavoro non è tanto la moglie infedele quanto la moglie spendacciona o cattiva donna da casa. «La cena non era pronta, il fornello era spento», dice, come scusa, un accusato che ha picchiato la moglie a morte.

Perché la scena di famiglia, classica del popolo, può arrivare fin lì. Il «delitto passionale», di cui Joélle Guillais-Maury ha studiato un centinaio di dossiers nella Parigi della fine dell'Ottocento, è quasi sempre l'atto di un uomo, di solito giovane, compiuto ai danni di una donna «per vendicare il suo onore» schernito o spodestato. «Uccido mia moglie» significa: «Sei mia moglie e mi appartieni». A volte si dà il caso di donne, sposate o no, che effettivamente resistono, rifiutano il rapporto sessuale a un uomo che a loro non piace, si prendono un amante, se ne vanno. Queste donne rivendicano con vitalità e schiettezza d'espressione sorprendenti il loro diritto alla libertà di movimento e di scelta; dichiarano anche il loro desiderio; si lamentano di uomini infedeli, brutali, poco dotati dal punto di vista sessuale o, al contrario, tirannici: «Era un inferno», dice una di loro. Esse affermano l'autonomia del loro corpo, ma pagano la cosa a molto caro prezzo, spesso con la vita.

La donna infatti è la principale vittima di queste violenze familiari di tutte le specie. Ecco qui l'amante di Flaubert, Louise Pradier, cacciata dal marito. «È stata privata dei figli, è stata privata di tutto. Vive con 6.000 franchi di rendita, a camera ammobiliata, senza cameriera, nella miseria» (lettera di Flaubert, 2 maggio 1845). Il medesimo Gustave parla di un'operaia che, avendo una relazione con un notabile di Rouen, è stata uccisa dal marito, cucita in un sacco e gettata nell'acqua: delitto per cui il colpevole si busca solo quattro anni di prigione. La donna tagliata a pezzi, che dà luogo a una vasta categoria di fatti di cronaca, illustra in modo parossistico una realtà dell'Ottocento: la rabbia contro una donna di cui non si ammette l'emancipazione.

Vendetta privata

La violenza come forma di vendetta privata, familiare ed extrafamiliare, resta una pratica popolare largamente diffusa. Anne-Marie Sohn, nella grande inchiesta che conduce sui ruoli femminili attraverso mezzo secolo di archivi giudiziari, s'imbatte quasi esclusivamente in casi che riguardano le classi popolari. E Louis Chevalier ha descritto la portata delle risse operaie a Parigi nella prima metà dell'Ottocento. I dintorni dell'osteria, l'uscita dal ballo, quando ci si azzuffa per una ragazza (gli Italiani, ritenuti dei seduttori, ne sono vittime abituali), i terreni abbandonati, gli avanzi delle fortificazioni della capitale in cui si sbudellano i giovani apaches sono zone in cui si regolano i conti privatamente, facendo fronte comune in caso di necessità contro la polizia quando questa interviene. Segno di un rapporto col corpo che non ha bisogno per esprimersi di alcuna mediazione.

Nel mondo rurale la vendetta allo stato puro è press'a poco limitata alla Corsica. Tuttavia le statistiche di omicidi e i rapporti amministrativi permettono di delineare una regione in cui vige la vendetta che ricopre quasi tutto il Sud del Massiccio centrale: Velay, Vivarais, Gévaudan, che certi demografi identificano con le regioni a struttura patriarcale. E. Claverie e P. Lemaison hanno fatto lo spoglio di lunghe serie di processi criminali e messo in luce la diversità dei meccanismi della vendetta, l'accrescersi delle tensioni legate alle difficoltà dei figli minori ridotti in condizione proletaria dal marasma economico. Un vivo senso di frustrazione fa precipitare delle inopinate cadute di sassi, appicca incendi e-pidemici, porta con sé risse omicide o strani incantesimi.

Ma gli autori constatano anche che la popolazione ricorre sempre più spesso alle guardie che integrano la giustizia legale, anzi la sostituiscono alla giustizia privata. La denuncia prende un po' alla volta il posto dell'incendio o della rissa. Tuttavia davanti al processo si esita, oscuramente coscienti che esso introduce un'altra logica in cui tutti, querelanti e accusati, corrono il rischio di essere messi in piazza, presentati senza veli. Sopraggiungono allora i tentativi di accomodamento, col loro corteo di amichevoli riparazioni. Se questi falliscono, la procedura fa il suo corso fino in fondo. Il passaggio per un procedimento penale, la comparsa in tribunale, correzionale o penale, l'incarcerazione, vissuti un tempo con indifferenza e anche con insolenza e spirito di bravata, divengono disonori che possono bastare alla vendetta. Testimoni di una individualizzazione dei modi di pensare, simili ricorsi contribuiscono a svilupparla e a immergere l'apparato giudiziario, un tempo più esteriore, nell'intimo delle pratiche popolari. Il diritto alla vendetta privata, relativamente ammesso dai giurati dell'epoca per lo meno in ciò che concerne il delitto passionale, soprattutto se ha come motivo l'adulterio femminile, è sempre meno tollerato dai criminologi dell'inizio del Novecento, che ci vedono un segno di primitivismo, addirittura di follia, «negazione della legge, ritorno alla barbarie, regresso verso l'animalità», secondo Brunetière («Revu de des deux mondes», 1910) interprete dell'opinione illuminata.

Vendetta legale

Fare una denuncia non è certo un fatto nuovo. Yves e Nicole Castan hanno studiato i comportamenti giudiziari delle popolazioni della Linguadoca nei tempi moderni. Michel Foucault e Arlette Fage hanno mostrato l'uso che le famiglie facevano dei commissari di polizia e dell'ordine d'arresto per ristabilire il loro ordine minacciato. Nell'Ottocento questo tipo di ricorso si effettua in due modi: la correzione paterna e l'internamento in manicomio per motivi psichiatrici, in virtù della legge del 1838.

Quantitativamente marginale — 1.527 ordinanze nel 1869, quando la cosa tocca il culmine —, la correzione paterna riguarda tuttavia 74.090 figli fra il 1846 e il 1913. Funziona soprattutto nel dipartimento della Senna (75 per cento delle ordinanze emesse fra il 1840 e il 1868, 62 per cento fra il 1896 e il 1913), e specialmente a Parigi. Inizialmente strumento nelle mani delle classi agiate, la correzione paterna si diffonde sempre più fra il popolo, poiché il decreto del 1885 esonera le famiglie povere dalle spese di pensione o di mantenimento; nel 1894-1895, le professioni manuali incidono sulle domande per il 78 per cento. C'è un tratto che colpisce: la relativa frequenza delle domande di correzione per ragazze: 40,8 per cento dei casi fra il 1846 e il 1913, il che rappresenta una percentuale molto superiore al loro tasso di delinquenza (dal 16 al 20 per cento fra il 1840 e il 1862, dal 10 ai 14 per cento fra il 1863 e il 1910). I padri temono le gravidanze e vegliano sulla loro cattiva condotta, principale motivo invocato per rinchiuderle: la verginità resta il capitale più prezioso.

La correzione paterna è stata oggetto di aspre discussioni che mettevano a fronte i sostenitori senza condizioni dell'autorità paterna e i partigiani degli «interessi del ragazzo» che danno la colpa piuttosto all'ambiente familiare: così il giurista cattolico Bonjean, animatore della Société generale des prisons e della «Revue pénitenciaire», parlando di Enfants révoltés et parents coupables (1895). Alla fine del secolo si denunciano molto più dei cattivi soggetti, i maltrattamenti inflitti da padri snaturati di cui si preconizza la perdita della patria potestà. A dispetto delle leggi del 1889 (sulla perdita della patria potestà) e del 1898 (sui cattivi trattamenti), la correzione paterna continua tuttavia a funzionare, di male in peggio, fino al 1935. Un decreto legge sopprime allora l'imprigionamento, ma mantiene l'internamento che gli somiglia per via della disastrosa situazione delle istituzioni correzionali. Bernard Schnapper sottolinea l'estrema lentezza di un'evoluzione che si spiega con la forza del consenso sul principio di autorità, in cui s'incontrano opinione pubblica e giuristi. Tuttavia questi mutamenti indicano un regresso della privacy popolare davanti allo Stato e, in nome dell'interesse del ragazzo come essere sociale, una sorveglianza esercitata sulla famiglia: per il meglio e per il peggio.

Internamento in manicomi

La legge del 1838 permette alle famiglie di far rinchiudere non i soggetti pericolosi, indesiderabili o indisciplinati, ma i pazzi. In questo senso non c'è continuità tra il manicomio e la Bastiglia, ma al contrario una differenza radicale: l'internamento è di pertinenza medica; l'autorità amministrativa viene al secondo posto. Nessun prefetto può firmare un ordine d'internamento senza un certificato medico. Robert Castel insiste su quest'innovazione. Che poi ci sia sviamento del certificato medico e che delle condotte devianti vengano indebitamente interpretate come «follia» è un'altra questione.

Esempi di sviamento: il caso già citato di Clémence de Cerilley, che il marito, sotto vari pretesti, soprattutto quello di un misticismo esacerbato, con l'aiuto dei suoi e l'appoggio di un medico, fa rinchiudere per motivi d'interesse finanziario; quello d'Hersilie Rouy, il cui fratellastro, per impadronirsi di un'eredità, ottiene nel 1854 l'«internamento volontario», col pretesto che il genere eccentrico di vita di quest'artista nubile — indipendente, ella cerca la solitudine — denuncia la «monomania acuta», secondo il certificato del dott. Pelletan che le frutterà quattordici anni di manicomio; o ancora quello di una certa madame Dubourg, che il marito fa internare perché gli si rifiuta (finirà con l'ucciderla). Si riscoprono oggi le figure d'Adele Hugo e di Camille Claudel, il cui internamento sembra proprio il frutto di una decisione familiare alquanto arbitraria volta a salvaguardare la reputazione di un grand'uomo.

Più sottilmente interessante la nozione di normalità all'opera in queste tassonomie delle malattie mentali femminili studiate da Yanick Ripa {la Ronde des folles, Aubier 1986). La mancanza di misura in tutto, l'eccesso, specialmente la passione amorosa, soprattutto quando prende delle strade vietate — l'amore per il padre, l'amore lesbico, anche quello per un uomo più giovane, molto semplicemente l'iniziativa presa dalla donna, o anche il clitoridismo —, costituiscono altrettante deviazioni. «Ogni donna è fatta per avere una sensibilità, e avere una sensibilità è quasi isteria», scrive Trélat. Per l'autore della Folte lucide (1861), gli squilibri sessuali e familiari sono la principale fonte di pazzia. Inversamente, l'armonia familiare è una garanzia della ragione.

La follia è anche una scappatoia per una reale disgrazia familiare. Fra le pazze molte innamorate abbandonate, molte mal maritate, mogli ingannate, madri che portano il lutto dei figli. Il turbamento della mente maschile sembra più legato ai rischi della vita pubblica o professionale. Il fallimento, la dilapidazione, il giuoco..., ecco qui, denunciate dalle donne, le forme della follia maschile, e va ricordato che gli uomini nei manicomi sono in maggioranza.

In ogni caso, anche se la polizia continua, mediante l'internamento d'ufficio, a utilizzare il manicomio come un deposito di disturbatori dell'ordine pubblico, il manicomio vive sempre più del dramma privato e del conflitto familiare di cui il medico è giudice ed arbitro.

Separazioni legali e divorzio

Ci sono mezzi meno drammatici per sciogliere un'unione in cui manca l'accordo. In mancanza del divorzio, soppresso nel 1816 e ripristinato solo nel 1884, c'è la separazione legale, di cui B. Schnapper ha studiato l'evoluzione e i caratteri dal 1837 (data a partir dalla quale il Compie general de l'administration de la justice criminelle fornisce dati statistici) al 1914. Parecchi verbali: in un primo tempo si tratta di una pratica marginale: 4.000 casi per anno nel periodo culminante, verso il 1880, ossia il 13 per cento dei matrimoni, ma con una crescita costante dopo il 1851, in forza di una legge (1851) che accorda ai richiedenti privi di mezzi il beneficio dell'assistenza giudiziaria. La procedura che, fino a quel tempo, era d'uso borghese, si diffonde decisamente tra il popolo: il 24 per cento di coloro che vi ricorrono sono «operai, domestici, casalinghe» nel 1837-1847, e il 48,8 per cento nel 1869-1883. Poi diventa un'istituzione femminile: in tutti i periodi le donne rappresentano più dell'86 per cento, fino al 93 per cento dei richiedenti. Donne di una certa età, madri di famiglia, che hanno dietro di sé lunghi anni di matrimonio; donne esasperate meno dall'infedeltà del marito che dai maltrattamenti da cui sono subissate. «È la donna picchiata, non la donna tradita, a chiedere la separazione». Altro rilievo: la separazione legale è una pratica del Nord della Francia e delle regioni urbanizzate ed istruite. È, insomma, un segno di modernità, come lo è ugualmente il divorzio, la cui diffusione, nel 1896, per esempio, è press'a poco la stessa. Notiamo infine l'ampliarsi dei motivi di separazione registrati dal Dalloz: la giurisprudenza è un buon filo conduttore per stabilire l'evoluzione del costume.

Il divorzio ha caratteri molto prossimi: la stessa ripartizione, la stessa preponderanza femminile (80 per cento dei richiedenti), gli stessi motivi addotti (sevizie, ingiurie gravi: 77 per cento nel 1900), con un colorito più borghese (professioni liberali, impiegati). Conquista rivoluzionaria del 1792, il divorzio ebbe un vivo successo presso le donne di città. Bonald e gli estremisti di destra avevano imposto la sua soppressione nel 1816. I radicali (come Alfred Naquet) ne avevano fatto un punto essenziale del loro programma, e, alleati agli opportunisti, ne fecero votare il ripristino nel 1884. Sicuramente la diseguaglianza dei coniugi resta molto marcata: i mariti possono utilizzare le lettere compromettenti ricevute dalla moglie, ma non viceversa: il che propone tutta la questione del segreto epistolare. «Canaglia e carogna», indirizzate allo sposo sono ingiurie sufficienti, ma non «vacca e troia» buttate in faccia a una moglie! Tuttavia le leggi del 1904 (un divorziato può sposare la compagna adultera, una divorziata il compagno adultero) e del 1908 (dopo tre anni di separazione legale, il divorzio può essere accordato su domanda formulata da uno dei due coniugi) rendono il divorzio più liberale, con grande scandalo di un'opinione conservatrice che si scatena, con Paul Bourget in testa. A dispetto delle reticenze cattoliche (veggasi Marthe) e della disapprovazione dei benpensanti, e benché ancora fatto marginale (15.000 per anno nel 1913), anche il divorzio rientra nel costume.

Affermando contro l'indissolubilità del matrimonio i diritti dei coniugi all'amore, o semplicemente alla felicità e al buon accordo, orienta il matrimonio verso il libero contratto che, un po' alla volta, è diventato.

Per giungere a tanto era stata necessaria una singolare evoluzione delle mentalità e l'avvento di una Repubblica in marcia verso il laicismo. Ma soprattutto una lunga lotta delle femministe e dei loro alleati. Da Claire Démar e George Sand, i cui primi romanzi, Indiana, Lelia, perorano la causa del divorzio, a Maria Deraisme e Hubertine Auclert, la rivendicazione è costante, con spinte più forti quando le istituzioni vacillano; così all'inizio della Terza Repubblica. Già nel 1873 Leon Richer pubblica le Divorce e intraprende, in pieno ordine morale, una vigorosa campagna per la revisione del Codice civile. Nel 1880 Olympe Audouard e Maria Martin fondano la Société des amis du divorce il cui organo è «le Liberateur». Fra il 1880 e il 1884 la campagna è intensa.

Alla fine del secolo, tuttavia, le femministe sembrano temere che la disparità nella situazione dei sessi possa fare del divorzio un'arma nelle mani dei mariti incostanti. «L'uomo si stanca prima della donna delle relazioni amorose», scrive Marguerite Durand (la Fronde), che mette in guardia contro il divorzio voluto da uno solo dei due, e contro il rischio che diventi una procedura legale di abbandono della donna matura e trascurata. La fragilità sociale delle donne esige delle garanzie contro la solitudine, ed è il Codice civile nel suo complesso che va rivisto. Fin dal 1880 Hubertine Auclert interveniva nelle cerimonie di matrimonio apostrofando i giovani sposi: «Cittadino e cittadina, voi avete appena giurato davanti a un uomo che rappresenta la Legge, ma ciò che avete giurato manca di senso comune. Poiché la donna è uguale al marito, non gli deve obbedienza» (6 aprile 1880, municipio del XV distretto).

Ci vorrà ancora un secolo perché sia capita.

In margine: non sposati e solitari
di Michette Perrot

Nell'Ottocento il modello familiare sprigiona una tal forza normativa da imporsi tanto alle istituzioni come agl'individui e da creare delle vaste zone di esclusione, più o meno sospette, in cui le regole della vita privata, e anche il diritto a questa vita, sembrano più in forse. Tuttavia queste zone esistono. La percentuale dei non sposati e dei solitari, temporaneamente o in permanenza, per necessità o per scelta, è, in effetti, considerevole. A volte essi si ispirano a una famiglia che non c'è: le ballerine hanno una «mère d'Opera» che cerca loro un padre protettore nel «foyer» della danza; nella colonia penitenziaria di Mettray (presso Tours), ogni gruppo è una «famiglia» composta di «fratelli» e di due «fratelli maggiori». A volte elaborano sistemi di vita originali, alternative contestatarie a questa bagna dolciastra. «Maledetta sia la famiglia che toglie vigore all'animo dei coraggiosi, che spinge a tutte le viltà, a tutte le concessioni e che vi stempera in un lattiginoso oceano di lagrime», scrive Flaubert, questo cugino dei dandies (a Louis Builhet, 5 ottobre 1855), preludendo alle parole di Gide: «Famiglie, io vi odio...».

Quando nel suo teatro domiciliare manca il piolo familiare, i due poli della vita privata sono l'individuo e la «società»: un individuo rafforzato dalle curiosità dell'egotismo (Stendhal); socievolezze multiple che si avvolgono su se stesse nello spazio pubblico; con nostalgie medievali o aristocratiche di un mondo prefamiliare appartenente al passato; o, al contrario, comportamenti d'avanguardia.

Istituzioni relative a scapoli e nubili

Le istituzioni destinate a inquadrare persone non sposate e solitarie — educative, repressive, assistenziali, ecc. — rafforzano nell'Ottocento il loro principio di segregazione sessuale. Che abbiano fatto ricorso al volontariato (conventi, seminari, in una certa misura caserme) o no, queste istituzioni riposano su discipline di cui l'esercito e la Chiesa hanno da un pezzo messo a punto le procedure. Chiusura e separazione dal mondo esterno, sorveglianza «panoptica» destinata a impedire qualunque comunicazione orizzontale, generatrice di perversione e di turbe antigerarchiche, riposano su una profonda diffidenza nei confronti della parola, del corpo e del sesso di coloro che vi sono assoggettati, soprattutto durante la notte, vero tempo dell'intimo. L'ideale sarebbe la cella — il «box», si dice all'inglese negli internati — per tutti. Ma le condizioni materiali non lo permettono. Il caso parossistico delle prigioni lo dimostra: il partito del carcere cellulare ha il sopravvento a partire dal 1840; una legge del 1875 lo rende obbligatorio; ma di fatto essa resta lettera morta. Dappertutto lo sguardo inquisitoriale del sorvegliante (tradimento della spia) tenta di tenere a freno le promiscuità. Notiamo che l'isolamento è nel secolo XIX una terapia generalizzata dal manicomio (cfr. Gauchet e Swain) al sanatorio (cfr. P. Guillaume). «Il genio del sospetto è venuto al mondo», dice Stendhal.

Beninteso, evitiamo le confusioni dubbie. Fra tutti questi istituti c'è solo una somiglianza formale. C'è gran differenza a seconda che si tratti .o no di una scelta, o anche di una vocazione. In questo caso la disciplina diventa principio attraverso il consenso, l'accettazione, anche l'interiorizzazione della regola. I conventi dell'Ottocento descritti da Odile Arnold sono impregnati di una spiritualità molto dualistica che separa rigorosamente anima e corpo; il corpo è il principio del male che bisogna far tacere, dimenticare e punire con un'ascesi fisica e morale particolarmente spinta negli ordini contemplativi, fino a condannare a morte quest'«Altro» che si oppone all'unione con Dio. Morir giovane è il sogno di molte pie adolescenti, talvolta incoraggiate dalle madri soggiogate: una grazia che Thérèse de Lisieux ha elevato a un grado sublime. La devozione, tuttavia, non esclude la tentazione, le passioni del cuore e della carne protette da pesanti segreti, oscuri sotterranei dei castelli dell'anima. Dietro la barriera s'instaurano altre frontiere del pubblico e del privato. Ogni dettaglio, parola o rumore vi assumono un rilievo allucinante. «In seminario c'è un modo di mangiare un uovo à la coque che indica i progressi fatti sulla via della devozione», dice Stendhal, critico. Julien Sorel, quando decise di darsi un carattere affatto nuovo «trovò grandi ostacoli nei movimenti degli occhi».

Quando lo stare rinchiusi è dovuto a costrizione, la difesa della privacy individuale è una lotta di tutti i momenti. A volte si manifesta come esigenza di un tempo, di uno spazio proprio, che sfuggano al controllo del maestro o alla tirannia del gruppo: Vallès vanta «la stanzetta in capo al dormitorio, dove gl'insegnanti, nei momenti liberi, possono andare a lavorare o a sognare» (l'Insurgé) ; a volte con lo stabilirsi di relazioni orizzontali che rompono la solitudine e creano una corazza protettiva contro le intrusioni autoritarie. Si elabora tutto un complesso di tattiche destinate ad aggirare i regolamenti, con una molto sottile gestione del tempo libero, dei «movimenti» il cui flusso introduce confusioni favorevoli allo scambio, dei terreni detti «neutri» in cui andare a «nascondersi»: angolini oscuri e soprattutto W.C., che, in tutte le istituzioni chiuse, rappresentano uno spazio di libertà, d'altro canto particolarmente sospetto. Si delinea tutto un universo di gesti — bigliettini passati dietro le spalle del maestro, iscrizioni, quel linguaggio degli internati e delle prigioni —, parole, segni che, a forza di essere trasmessi costituiscono una sottocultura interna o carceraria (P. O'Brien). Connivenze, complicità, amicizie «particolari» o no, rapporti tra compagni rivestono una viva intensità in questi luoghi chiusi d'omosessualità latente o reale, in cui l'altro sesso — il sesso vietato che sta fuori — diventa oggetto di un erotismo avido o di una sublimazione forzata. Questo mondo dell'estrema costrizione è, senza dubbio, anche il mondo dell'estremo desiderio. I piaceri — letture, ghiottonerie, carezze... — per il fatto di esser vietati assumono un sapore più spiccato. Tanto che i sensi possono risultarne esaltati fino all'esasperazione. A meno che, al contrario, l'esigenza di continua costrizione non determini un rifiuto che porta a una vera e propria anestesia. Simone Buffard, fra tanti altri, ha detto del «freddo penitenziario» che s'impadronisce del detenuto fino a distruggere in lui il desiderio di libertà e la stessa possibilità di appagarlo. Erving Goffman ha analizzato la «perdita di autonomia» che caratterizza gl'internati e soprattutto gl'istituti carcerari, e il ripiegarsi su se stesso del recluso che rende talvolta così problematico il suo riadattamento al mondo esterno.

Non è qui il caso di sviluppare questi aspetti della vita privata di coloro che vivono rinchiusi, aspetti che a tutt'oggi sono stati scarsamente descritti proprio perché non sono attingibili, volutamente nascosti all'osservatore e, quindi, allo storico, e rivelati per una sorta di effrazione. D'altra parte non si saprebbero introdurre sufficienti sfumature. Anche se i collegiali paragonano il loro internato a una prigione — sentite Baudelaire, Vallès... —, esso è una prigione in senso molto relativo. L'analogia tra le forme di controllo e di vita privata delle varie istituzioni «totalitarie» è solo apparente. Bisognerebbe coglierle nella loro diversità e nella loro storicità: quali sono le più permeabili ai tipi esterni di vita privata che, poco o molto, servono loro da termini di confronto? Nel caso degli istituti scolastici e dei castighi corporali, per esempio, i desideri e le ripugnanze delle famiglie hanno pesato . in modo decisivo. Che diremo del segreto epistolare, dei permessi di libera uscita, dei dormitori o dell'igiene intima dei militari o dei carcerati? La forza con cui degl'individui o dei gruppi resistono alla disciplina o esprimono volontà nuove hanno un potere di trasformazione sulle istituzioni più cristallizzate, più immobili che vi siano.

Verso il 1860 c'erano 50.000 carcerati, 100.000 monache, 163.000 collegiali di ogni specie, circa 500.000 militari: altrettante etnie dalla vita privata singolare. Non si poteva dimenticarle.

Persone non sposate: i celibi

Nell'Ottocento ci sono poche persone che non si sposano affatto, ma parecchie che vivono sole, specialmente donne, vedove per tempo e a lungo. L'età matrimoniale si abbassa per i due sessi, ma in misura diversa. Al censimento del 1851, per esempio, più del 51 per cento degli uomini sono celibi e solo il 35 per cento delle donne nubili; ma, a trentacinque anni gli uomini non sposati non sono più del 18 per cento, mentre le donne superano il 20. Il numero dei primi non cessa di diminuire per raggiungere verso i sessantacinque anni la sua minore portata: 7 per cento; mentre quello delle donne non diminuisce mai al di sotto del 10. In fin dei conti gli uomini sì sposano più delle donne, anche se lo fanno più tardi, tanto la vita di coppia presenta comodità e conferisce rispettabilità: «A qualunque costo devo farmi una famiglia», scrive Baudelaire, quel dandy; «è il solo modo di lavorare e di spendere meno» (alla madre, 4 dicembre 1854). Colpito come Tocqueville dallo spettacolo della coppia in America, Gustave de Beaumont vi scorge quella che sarà la normalità: «Temo che si arrivi a uno stato di cose in cui le persone non sposate si troveranno in una situazione falsa e dove ci sarà una certa sicurezza solo per i padri di famiglia» (al fratello Achille, 25 settembre 1831). Quei padri di famiglia di cui Peguy, sessant'anni più tardi, farà «gli eroi del mondo moderno».

I lavori di Jean Borie hanno messo in luce il sospetto a cui e fatto segno il celibe. Eccettuata la Chiesa o Le Play, che lo giudicano positivamente per via della sua possibile abnegazione, la società vede in lui un «frutto secco». Nel Dictionnaire des idées recues, Flaubert spigola gli aforismi del tempo: «Celibi: tutti egoisti e viziosi. Bisognerebbe tassarli. Si preparano una triste vecchiaia». Si sarà notato che il sostantivo è sempre impiegato al maschile. E il Larousse du XIX" siècle cita «la confusione di un inglese, che poco esperto dei sinonimi della nostra lingua, chiamava celibi i camerieri (garcons) di restaurant [célibataire, scapolo = garcon, giovanotto]. Il celibe è sempre maschio. Se non è sposata, la donna è ragazza o "resta ragazza": cioè nulla; o, peggio, diventa "vecchia ragazza", un'"anormale", una "declassata"» (contessa Dash).

Provvisorio o permanente il fatto di non essere sposati è vissuto in maniera totalmente diversa dai giovanotti e dalle ragazze. Per queste ultime è la bianca attesa del matrimonio: Alain Corbin tratteggia, più oltre, il personaggio della giovinetta e la sua reclusione. Per il giovanotto il celibato è un tempo pieno, valorizzato, di libertà e di apprendistato, mentre il matrimonio non è che una sistemazione, una «conclusione». Epoca gioiosa, per lo meno nei ricordi, degli amori passeggeri, dei viaggi, del rapporto tra compagni e di una forte socievolezza tra uomini dai toni molto liberi (vedere la corrispondenza di Flaubert); tempo dell'educazione sentimentale e carnale in cui tutto è permesso. Bisogna fare le prime scappatelle e la gioventù deve fare il suo corso. Solo la paura della sifilide, verso la fine del secolo, porterà a una maggiore castità. Anche nelle classi popolari sussiste un'abitudine di andar vagando istituzionalizzata (dal giro di Francia dei compagni) o totalmente libera, come maniera di apprendere il mestiere e di conoscere una vita prima di fermarsi stabilmente in un luogo. E A Parigi gli studenti, spesso attardati negli arcani del diritto o della medicina, formano una tribù di cui è difficile penetrare la realtà tanto è tenace la sua leggenda: quella del Quartiere latino, perpetuamente agitato da passioni politiche e, almeno fino al 1851, sotto sorveglianza costante (cfr. J. Caron); la leggenda della bohème, immortalata da Murger, di cui J. Steigel ha molto di recente tentato di delineare le frontiere, l'identità, le trasformazioni politiche e letterarie, e le migrazioni nella capitale, dal boul «mich» a Montmartre, da Montmartre a Montparnasse.

La vita di bohème

Infatti la bohème ha parecchie componenti, del resto ben individuate da Murger: gli «amatori», giovani che «disertano il focolare domestico» per vivere «le avventure di un'esistenza alla giornata», ma a titolo provvisorio, prima di sistemarsi, e gli artisti. La maggior parte di questi — la bohème ignorata — vivono poveri e sconosciuti, stoici, passivi, senza mai attingere la notorietà. «Muoiono per la maggior parte decimati da quella malattia a cui la scienza non osa dare il suo nome vero, la miseria», preda della tisi e destinati a finire in ospedale. «Sputano, tossiscono, il che infastidisce i vicini: vanno alla Charité» (Vallès). Altri, una minoranza, arrivano a riuscire e a farsi conoscere: «I loro nomi sono sul manifesto». Fra questi molti pittori, scultori, letterati, ma anche giornalisti legati alla stampa minore che fa largo uso di caricature, di poemi, di scherzi.

La bohème tratteggia sotto tutti i punti di vista il contrapposto della vita privata borghese. In primo luogo per il suo rapporto inverso col tempo e con lo spazio: vita notturna, senza orario — il bohémien non ha orologio —, d'intensa socievolezza che ha come palcoscenico la città, le sale, i caffè, i viali. I bohémiens «non saprebbero fare dieci passi sul viale senza incontrare un amico». La conversazione costituisce il loro piacere, la loro principale occupazione. Vivono, scrivono nelle osterie, nelle biblioteche e nei gabinetti di lettura, vicini alle classi popolari per il loro uso dello spazio pubblico. Perpetuamente inseguiti dai creditori e dagli u-scieri, non hanno domicilio fisso, non mobili, appena qualche oggetto. Un eroe di Murger, Schaunard, trasporta i suoi beni con sé nelle sue tasche «profonde come cantine». Dividono in parecchi degli alloggi effimeri che eccellono nel trasformare per una sera di festa con l'aiuto di pochi ninnoli o di qualche stoffa raffinata, come si pianta una tenda o si mette su uno scenario. Disprezzando il risparmio, la virtù dei panciuti, loro che sono magri danno fuoco in una notte di baldoria o di gioco al danaro guadagnato, o preso a prestito, attinto al mucchio collettivo. Perché disprezzano la proprietà, mettono tutto in comune, comprese le donne, che circolano dall'uno all'altro, a seconda delle preferenze. Gli amori multipli sono la regola, e l'infedeltà un principio. Schaunard ha sessanta ciocche di capelli, una collezione. Sartine e donnine di facili costumi fanno spesso le spese di uno scambio che il rapporto tra i sessi, meno gerarchico che altrove, rende lo stesso diseguale. Anche nella vita di bohème l'uomo regna, anche se alcune, più esperte, arrivano a far carriera o trovano il modo piacevole di vivere senza fastidi. Ci sono delle sartine conquistatrici, «che vivono in una specie di libertà maschile» (Sébastien Mercier), dei Rastignac donna la cui gioventù e bellezza portano alla conquista della città; per loro la bohème è solo un'anticamera. «Io sono sola, questi sono fatti miei», dice la Rigolette di Eugène Sue, figura di un'improbabile sovversione.

In questa vita comunitaria e pubblica l'amore è il solo atto cne richieda una certa segretezza. Un'inclinazione nascente isola la coppia dal cenacolo; l'atto sessuale esige una camera per sé, porta chiusa e tende tirate. L'intimità amorosa non si divide con altri; insomma, essa ha qualcosa di coniugale.

Vita sognata quanto reale, e forse più che reale, il quadro di Murger non deve suscitare effetti illusori. Ma ha esercitato una grande attrattiva sulla gioventù di provincia, soprattutto. Andare a Parigi, diventare scrittori, poeti o giornalisti, sfuggire al grigiore della vita borghese è stata un'ambizione largamente condivisa da quelle «vittime del libro» di cui Jules Vallès ha offerto, un po' più tardi, una descrizione più pessimista. Fatto sintomatico, quel sottoproletariato di «refrattari» che gravita attorno alle scuole e ai giornaletti non soffre mai tanto della propria solitudine quanto la domenica, quel «settimo giorno del condannato», giornata delle famiglie che tengono tutto lo spazio pubblico, escludendolo da ogni lato.

Dandies

Il dandismo rappresenta una forma anche più cosciente ed elaborata di rifiuto della vita borghese. I libri di Roger Kempf e di Marylène Delbourg-Delphis ne hanno messo in luce l'originalità. D'origine britannica, d'essenza aristocratica, il dandismo fa della distinzione il principio stesso della sua funzione. Codificato da Brummel, Barbey d'Aurevilly, Baudelaire o Fromentin (Dominique), esaspera i tratti differenziali in una società che tende alla massificazione. La bohème pende a sinistra, il dandismo a destra. Antiegualitario, vorrebbe ricreare un aristocrazia: non certo quella del denaro o del lignaggio, ma di un temperamento — dandy si nasce — e di uno stile.

Uomo pubblico, il dandy, attore del teatro cittadino, protegge la propria individualità dietro la maschera di un'apparenza che si sforza di rendere indecifrabile. Ha il gusto dell'illusione e del travestimento, un senso acuto del dettaglio e dell'accessorio (guanti, cravatte, bastoni da passeggio, sciarpe, cappelli...). I Goncourt sghignazzano sul comportamento di Barbey e sul «carnevale che per tutto l'anno portava in giro sulla sua persona». Un dandy è «un uomo che porta degli abiti [...]. Vive per vestirsi» (Carlyle). La toilette è una delle sue occupazioni principali: Baudelaire dichiarava di non avervi mai dedicato meno di due ore al giorno. Ma, a differenza dei cortigiani d'un tempo, accorda un'estrema importanza alla pulizia, della biancheria e della pelle, segno di un altro rapporto col corpo. Barbey si fa portare un bagno ogni giorno, e quando Maurice de Guérin, malato deve tornare al Cayla la più grande preoccupazione della sorella Eugénie è la mancanza d'acqua e di gabinetto da toilette.

Tutto ciò presuppone una vita libera da occupazioni, e rendite sufficienti per essere dispensati dal lavoro. Certamente più danarosi dei bohémìens, i dandies non possedevano tuttavia grandi fortune. Il disprezzo del danaro considerato come obiettivo, il gusto del lusso ostentato e del gioco, ma l'accettazione del rischio e di un'eventuale ascesi, fanno parte della loro morale anticapitalistica ed antiborghese. Odiano i parvenus — gli ebrei nella misura in cui incarnano i maneggi relativi al danaro —, gli affari e la vita di famiglia. Il matrimonio è ai loro occhi la peggior prigionia, e le donne sono le reti della schiavitù. Con loro il piacere carnale dovrebbe essere solo un commercio. Meglio l'amore dei giovani. La loro omosessualità si accentua col tempo (la parola compare solo nel 1891), via via che aumenta l'influenza della famiglia e della donna sulla società.

L'avvento della «donna nuova» ha determinato in tutta l'Europa, una vera e propria crisi d'identità maschile di cui Otto Weininger è uno degli interpreti (Sesso e carattere, 1903), e la recrudescenza della pederastia ne è senza dubbio una forma. Il «Journal» di Edmond de Goncourt, dopo il 1880, ne testimonia a suo modo. Il «disprezzo della donna», o per lo meno di tutto ciò che è femmineo, che nel 1909 esprime con vigore il Manifesto futurista di Marinetti, è d'altra parte una delle costanti del dandismo, non misogino, ma «spernogino» (dal latino spernere, disprezzare), secondo l'espressione di R. Kempf. «La donna è il contrario del dandy: ella è naturale, cioè abominevole» (Flaubert). Al di là c'è il rifiuto dei figli e della generazione, insopportabile per il dandy, pessimista e nemico di ogni riproduzione.

Il dandismo è un’etica, una concezione della vita che eleva il .celibato" e il vagabondaggio al livello di resistenza cosciente. «Odio il gregge, la regola e il livello. Beduino quanto volete; cittadino mai» (Flaubert a Louise Colet, 23 gennaio 1854). Il perdigiorno, il dandy, più tardi ì'apache sono gli antidoti di M. Preudhomme. La società tollera i primi due, ma reprime ì'apache, figlio dei quartieri periferici, che minaccia la sicurezza delle persone agiate.

La solitudine delle donne

Scelta, subita o semplicemente accettata, la solitudine delle donne genera sempre una situazione difficile perché radicalmente impensata. «La donna muore se non ha né un focolare né una protezione», dice pietoso Michelet; e il coro degli epigoni: «Se c'è cosa che la natura c'insegna con evidenza è che la donna è fatta per essere protetta, per vivere da ragazza presso la madre, da sposa sotto la custodia e l'autorità del marito [...]. Le donne sono fatte per vivere nascoste» (Jules Simon, l'Ouvrière, 1861). Fuori del focolare e del matrimonio non c'è salvezza.

Svergognata che vive delle sue grazie o rifiutata perché non ne ha, la donna sola suscita diffidenza, disapprovazione o canzonatura. Il vecchio celibe ha delle manie; è più buffo che veramente degno di pietà. Imbozacchita, la vecchia zitella puzza di rancido. È una vergogna quest'«essere improduttivo» (Balzac). Bisbetica, maldicente, intrigante, anche isterica, maligna, dà fastidio, come la Cousine Bette (1847), affaccendata come un ragno a tesser la tela in città, specchio di tutti gli stereotipi. Bisognerà aspettare il secolo XX perché, sotto l'influenza delle femministe o degli scrittori (come Leon Frappié), venga fuori un altro personaggio di donna sola e perché la donna abbia infine diritto al nubilato.

Tuttavia di donne sole ce ne sono parecchie. Al censimento del 1851 esse sono il 46 per cento al di sopra dei cinquantanni: 12 nubili, 34 vedove. Le proporzioni si mantengono identiche nel 1896. Sono particolarmente alte nell'Ovest, nei Pirenei, nel Sud-Est del Massiccio centrale a metà del secolo; più tardi le differenze regionali spariscono, mentre aumentano le percentuali nelle grandi città, serbatoi di donne sole (personale di servizio).

Di fatto questo sovrappiù di solitudine femminile, nell'Europa occidentale, è una costante demografica dal medioevo in poi. I «meccanismi» da cui deriva sono molteplici. In primo luogo le strategie matrimoniali, che creano una categoria di sposate e quindi delle escluse; l'assistenza ai vecchi genitori, spesso affidata alle figlie più giovani; la vedovanza, soprattutto, legata alla longevità femminile e alla rarità dei secondi matrimoni. Nell'ambiente borghese le vedove sono senza dubbio più protette di quanto non lo fossero prima in forza del Codice civile e dell'usufrutto; negli ambienti popolari la loro sorte è molto precaria. L'assenza di contabilità relativa al loro lavoro sommerso — lavoro domestice, a domicilio, ausiliario rispetto all'attività del marito —, il carattere intermittente di un'occupazione salariale troppo spesso interrotta per diventare mai una «carriera» (le operaie dei Tabacchi costituiscono una spiccata eccezione) fanno sì che la maggior parte non godano di alcuna pensione. La promulgazione delle prime leggi sulle pensioni operaie e rurali (1910) ne mette in risalto la marginalità. Stamberghe e mansarde, ospedali ed ospizi sono popolati da queste povere vecchie, dimenticate da tutti, occasione di carità per i pensionati di signorine. Lo studio della vecchiaia,

questo grande soggetto di una storia da scrivere, dovrà essere decisamente legato al sesso.

La solitudine può essere anche il risultato di una scelta, deliberata nei casi di «vocazione» religiosa o altruistica (infermiere, assistenti sociali, insegnanti), o derivanti dalla preferenza accordata a una carriera. Le caporeparto del quartiere du Soleil a Saint-Etienne (J.-P. Burdy) sono nubili, a un tempo ammirate e criticate. Le Poste offrono numerosi esempi di questo tipo. Nel 1880 vi si conta il 73 per cento di donne sole al di sopra dei cinquant'anni, di cui il 55 per cento nubili (nel 1975-1980 solo il 10 per cento). La ricostruzione delle vicende personali (C. Dauphin, P. Pézerat) mostra come un desiderio di autonomia finanziaria e professionale abbia portato come conseguenza la condizione di nubile; i colleghi di sesso maschile vogliono una donna a casa, non un'impiegata postale. Nell'Ottocento la donna non può conoscere una promozione sociale ottenuta attraverso il lavoro se non sacrificando la sua vita privata. Il nubilato, insomma, è il «prezzo da pagare».

La vita quotidiana di queste solitarie è difficile. Il salario delle donne, sempre considerato come un'integrazione di un supposto bilancio familiare, è quasi per statuto inferiore. E i «mestieri» delle donne sono per natura non qualificati: di qui quei mestieri della sartoria dai quali per la maggior parte dipendono tanto. Le inchieste dell'Office du travail sul lavoro a domicilio, ampiamente sviluppato alla fine del secolo nella cornice di un'industria della confezione molto razionalizzata, rivela un mondo di donne sole, talvolta madri e figlie, che nascondono la loro precarietà in fondo a una corte o a un sesto piano e che fanno andare su e giù le loro Singer dieci o quindici ore il giorno. La «cotoletta della sarta» indica il pezzo di formaggio di Brie che con una tazza di caffè — la droga delle operaie parigine —, costituisce il loro pasto abituale. Dato che, tutto sommato, molte preferiscono la civetteria di uno scialle o di una camicetta.

Ed è così che per le più giovani la seduzione resta un'arma. Una relazione può offrire un'integrazione alle risorse, e anche regolare la questione sessuale o affettiva al di fuori del matrimonio. A una ragazza che sollecita un impiego nei grandi magazzini il direttore chiede se ha un «protettore», tanto gli sembra impossibile che sbarchi il lunario. Continuando la funzione della sartina di una volta — a cui gli studenti diventati senatori riconoscenti hanno eretto verso il 1880 un monumento (square Montholon) -, parecchie «piccole operaie» o degne impiegate hanno così un «amico», uomo «rispettabile», di solito di una categoria sociale un po' superiore. Ma per una Madeleine Campana che vive allegramente una relazione per quindici anni, con un medico che, dopo tutto, avrebbe sposato se fosse stato libero (la Demoiselle du téléphone, Parigi, Delarge, 1976), quante vivono di sogni inappagati che si trasformano in rancore per essere state messe di mezzo? Tuttavia, raramente sovversivi, i romanzi d'appendice di cui sono tanto ghiotte dicono loro che i principi non sposano mai le pastorelle!

Per uscirne, molte (quante?) isolate mettono in comune le loro risorse? I censimenti quinquennali della popolazione registrano dei ménages di donne sole — madri e figlie, amiche — che i ricercatori (Villermé, Le Play) descrivono di sfuggita. «Quelle che non hanno famiglia e che non vivono in concubinaggio si riuniscono di solito in due o tre in un piccolo ambiente o in una cameretta che ammobiliano partecipando in comune alla spesa» (Villermé, 1840). Le donne danno una sistemazione alla loro solitudine, temporanea o permanente, che non sempre hanno scelto, ma che hanno potuto preferire a un matrimonio poco invitante.

C'è mai stato l'equivalente femminile di un dandismo, di un celibato per scelta liberamente vissuto? Il mondo delle attrici, così poco note nella loro intimità, ne offrirebbe senza dubbio degli esempi. Tuttavia, se per una donna è possibile liberarsi del matrimonio, lo è molto meno liberarsi degli uomini. Certe cortigiane d'alto bordo tentano di arrovesciare a loro vantaggio la galanteria. La letteratura ci offre profili e conclusioni contrastate del loro destino. Dopo «aver messo in ginocchio gli uomini», Nana sprofonda nel vaiolo, «Venere disfatta»; Odette, diventata con l'aiuto della guerra amante del duca de Guermantes, regna alla fine sul quartiere Saint-Germain, ma non è più altro che «una rimbambita titolare di rendita vedovile». Come raccapezzarsi?

Un dandismo femminile? Forse lo si trova all'inizio del Novecento, presso le amazzoni: Natalie Clifford Barney, Renée Vivien, Gertrud Stein e le loro amiche. Creatrici, col culto estetico dell’Art Nouveau o dell'avanguardia, lesbiche, conosciute da tutta Parigi in parte per la loro origine straniera, queste donne libere rivendicano il diritto di vivere come uomini. Attorno a loro, o più in là di loro, che vivevano in cenacolo, una pleiade di «donne nuove», giornaliste, scrittrici o artiste, avvocati o medici, anche insegnanti, che non si contentano più delle seconde parti, vogliono andarsene per il mondo e amare a modo loro. Ammirate da certuni, vilipese da altri, niente fu facile per loro. I romanzi di Marcelle Tinayre (la Rebelle) o di Colette Yver ci offrono un'eco delle difficoltà che esse incontrano. Immense, in verità. Per affrontarle c'era bisogno,di tutta l'amicizia, o di tutto l'amore delle donne — e di alcuni uomini. È la rivoluzione sessuale più difficile della rivoluzione sociale? Forse.

La morte dei vagabondi

Fra tutti i solitari, i vagabondi sono quelli guardati con più sospetto da una società _che fa del domicilio la condizione stessa della cittadinanza e che fiuta nel vagabondaggio una resistenza alla sua morale. Il mondo rurale, che tiene ben strette le cose sue, vede negli zingari e nei girovaghi — eccettuati i venditori ambulanti che sono accetti — dei ladri potenziali; li respinge e li punisce. Nello Gévaudan dei paesani gettano in un burrone un venditore di articoli casalinghi che non ha pagato un bicchiere di vino. La repubblica dei padri di famiglia prende delle misure energiche: legge del 1885 sul confino dei plurirecidivi, di solito ladruncoli e vagabondi che, dichiarati «inadatti a qualunque specie di lavoro», vengono inviati alla Guiana; legge che assegna una residenza ai nomadi e che istituisce un passaporto con controllo sanitario e carta d'identità. Il vagabondo è una minaccia per la famiglia e per la salute; diffonde malattie, microbi, tubercolosi (cfr. J.-C. Beaune).

Celibi, solitari, vagabondi sono elementi al margine che vivono alla periferia di una società il cui centro è la famiglia. La loro esistenza materiale e morale è complicata. Sempre in posizione di sospetti o di accusati vivono sulla difensiva nelle maglie di una rete ancora allentata, ma che si va restringendo.

Indizio del loro arcaismo in un'epoca in cui la longevità è criterio di modernità, muoiono prima degli altri, malandati o suicidii. Durkheim vede in questo sovrappiù dei suicidii nell'ambito dei celibi la prova stessa della loro mancata integrazione. Gl'inurbati, trapiantati dalla campagna nella città assassina — operaie della seta degli stabilimenti di Lione, domestiche dei sesti piani parigini, muratori della Creuse delle camere ammobiliate dell'XI distretto... -, offrono un terreno ideale alla tubercolosi spesso denunciata come il flagello dei celibi — di cui prolunga d'altronde il celibato, tanto è grande la paura del contagio matrimoniale.

La solitudine è una relazione: con se stessi e con gli altri. Non è ancora un diritto dell'individuo. Essa rimanda come in uno specchio l'immagine di una società che valorizza l'ordine della casa e il calore del focolare.


Il segreto dell’individuo (pp. 229-490)

Alain Corbin

Introduzione

La Dichiarazione dei diritti dell'uomo segna, secondo Louis Dumont, il trionfo dell'individuo. Ma nel XIX secolo si tratta ancora di una categoria astratta, non chiaramente definita. Il cittadino conquista lentamente la pienezza dei suoi poteri. Il suffragio universale, sancito definitivamente nel 1848, è un diritto esclusivamente maschile. La segretezza del voto viene garantita soltanto nel 1913, quando si prescrive l'uso della cabina elettorale e della scheda chiusa.

La persona fisica manca di una legislazione specifica. I costituenti avrebbero voluto spingersi più a fondo nella determinazione delle sue prerogative. Ma furono travolti dalle «circostanze»; o, più profondamente, da un giacobinismo di fondo, reticente all'avvento di un reale Habeas corpus che, attualmente è ancora da sancire nel diritto francese. Il problema tuttavia esiste. Il domicilio viene dichiarato inviolabile (1792) e le perquisizioni notturne proibite (1795). La casa e la notte delineano uno spazio-tempo della privacy intorno al corpo di cui si ammetterà la dignità (soppressione della maggior parte delle pene infamanti) e la libertà. L'omosessualità, ad esempio, non è più un reato, a meno che non si accompagni al pubblico oltraggio del pudore.

I progressi giuridici del XIX secolo esitano dfjronte al potere pubblico o familiare. Il diritto al segreto epistolare viene riconosciuto tardivamente. Solo durante la Terza Repubblica le autorità rinunceranno a controllare la corrispondenza negli uffici postali. Ma, in linea di principio, i mariti hanno facoltà di controllare quella della propria moglie; mentre, nei collegi o nelle prigioni, si aprono senza alcuna remora le lettere dei collegiali o dei detenuti.

Lo sviluppo dei moderni mezzi di comunicazione pone nuovi problemi. Armand Carrél si batte in duello con Emile de Girardin che «minàccia» di scriverne la biografia sul suo giornale, «la Presse»; muore e paga con la vita il diritto alla riservatezza. La stampa è ghiotta di «fatti diversi», che rivelino gli scandali della vita privata. | Per difendersi da questi attacchi, bisogna costantemente nascondersi, usare pseudonimi e sotterfugi: il XIX secolo è un ballo in maschera. «L'inconveniente del dominio~della pubblica opinione, che d'altro canto rende liberi, è che essa s'insinua in un campo che non la riguarda: la vita privata», scrive Stendhal.

Il «desiderio di sapere», sempre all'erta in questo secolo curioso di vedere e conoscere, con l'occhio sempre «al buco della serratura», fa proliferare inchieste d'ogni genere su gruppi e individui. Rende più urgente la protezione della persona. All'inizio del secolo, a Cha-rendon, si apre una significativa controversia fra il direttore della fabbrica e il medico locale, Royer-Collard: quest'ultimo vorrebbe aprire un dossier su ogni paziente, in cui venga ricostruita la sua storia medica e sociale; il primo si oppone a un procedimento che gli sembra sulla linea di una inquisizione di tipo ecclesiastico (cfr. Jan Goldstein). Ambiguità di una concezione moderna in cui potere della scienza e difesa della propria individualità camminano di pari passo.

È che un po' in ogni campo., a livelli diversi secondo gli ambienti e i luoghi, si verifica, nelle idee e nei costumi, una forte spinta individualista. La legislazione è in ritardo sugli eventi. Nella vita di tutti i giorni, sempre di più vi sono persone che insorgono contro le regole del vivere collettivo e gli obblighi familiari, e proclamano la propria esigenza di un tempo e di uno spazio personale. Dormire da soli, leggere tranquillamente un libro o un giornale, vestirsi a modo proprio, andare e venire a proprio piacimento, mangiare secondo i propri gusti, frequentare e amare chi si vuole... esprìmono l'aspirazione a un diritto alla felicità che presuppone la scelta del proprio destino. Aspirazione legittimata alla democrazia, alimentata dal mercato, favorita dalle migrazioni. La città, nuova frontiera, libera dalle costrizioni familiari o locali, stimola le ambizioni, attenua i convincimenti. Creatrice di libertà, dispensatrice di nuovi piaceri, la città, così spesso matrigna crudele, affascina, a dispetto delle diatribe dei moralisti. Paradossalmente, essa produce insieme le masse e gli individui isolati. Genera fratture ed eventi.

Il dandy, l'artista, l'intellettuale, il vagabondo, l'originale sono le figure rappresentative della rivolta contro i conformismi di massa. Ma, al di là di questi personaggi di punta, necessariamente minoritari. categorie più numerose rivendicano con forza il diritto ad una propria esistenza: adolescenti, donne, proletari. I primi pongono sotto accusa innanzi tutto il sistema patriarcale; le loro grida e le loro proteste sommesse sono presenti, lo speriamo, in ogni pagina di questo libro. Gli ultimi criticano soprattutto il sistema borghese. Ma la forza di una coscienza di classe, la cui manifestazione fu allora di particolare intensità, non esclude l'esplosione dei desideri e la varietà dei progetti. «Siamo di carne e ossa come voi», dicono nel 1890 le operaie di Vienna ai loro padroni. Un sindacalismo d'ispirazione libertaria fa proprie le proposte neo-malthusiane sul controllo delle nascite, «he famiglie numerose generano miseria e schiavitù. Abbi pochi figli». «Donna, impara ad essere madre solo quando lo vuoi», esortano i volantini della Confédération general du travail. Le correnti anarchiche individualiste non sono mai state così attive come fra la fine del XIX e l'inìzio del XX secolo (M.-J. Dhavernas). Libertà del corpo, gusto della natura e dello sport, amore libero sono alla base dei tentativi di «ambienti lìberi», le cui audacie si arenano sui comportamenti più convenzionali. Liberare il desiderio non è poi così semplice.

Giuridicamente debole, l'individuo si complica e si struttura. All'uomo generico — una categoria sintattica — e sereno dei Lumi, il romanticismo oppone la singolarità dei volti, lo spessore della notte e dei sogni, la fluidità delle comunicazioni intime, e riabilita l'intuizione come mezzo di conoscenza (cfr. G. Gusdorf l'Homme romantique). Lo spazio interiore non diviene soltanto oggetto dì autocontemplazione («Io sono per me stesso lo spazio immobile in cui ruotano il mio sole e le mie stelle», scrive Amiel), ma anche centro e interprete del mondo («E dentro di sé che bisogna guardare ciò che è al di fuori», Victor Hugo). In rapporto all'inconscio che governa gli uomini ed è la chiave del loro comportamento, la coscienza assume un ruolo marginale. Le società stesse soccombono al potere delle immagini.

Di «individuo puro» (Marcel Gauchet) si può parlare su basi scientifiche alla fine del XIX secolo con la scoperta della neurobiologia. Neopositivista e materialista, la medicina francese esita di fronte all'organicismo tedesco e conserva fra «corpo» e «anima» delle divisioni che tuttavia vanno sfumando. Bisogna forse vedere in ciò le radici della resistenza latina nei confronti della psicanalisi? Oppure bisogna ricercarle nel rifiuto di fare della sessualità familiare il fondamento dell'isteria, delle nevrosi e di ogni storia personale (Elisabeth Roudinesco)? O bisogna invece addurre come causa la maggiore diversificazione delle strutture familiari in Francia e l'indebolimento della figura paterna (H. Le Bras)? È questa, in ogni caso, nell'Occidente dell'individuo, una specificità francese che esige uno studio comparativo.

Nel periodo in cui progrediscono i movimenti di massa, l'indi-viduo si afferma come valore politico, scientifico e soprattutto esistenziale. A questa prodigiosa scoperta di sé attraverso se stessi, generatrice di nuovi rapporti con gli altri, siamo invitati da Alain Corbin. E arrivato il momento di penetrare fra le quinte del teatro in cui si recita l'intrigo fondamentale.

M.P.

Il segreto dell'individuo

L'individuo e la sua traccia

L'originalità del nome o «un nome proprio»

Durante tutto il XIX secolo, si accentua e si diffonde lentamente un sentimento dell'identità personale Ce_ne offre un primo indizio lastoria del sistema onomastico. Continua il processo di dispersione dei nomi propri iniziato nel XVIII secolo, in opposizione al movimento di concentrazione deliberatamente incoraggiato dalla Chiesa della Controriforma, interessata a valorizzare l'esemplarità di alcune figure di santi maggiori. La Rivoluzione non ha causato in questo campo una rottura vera e propria; ha costituito al massimo un fattore catalizzatore.

Nel corso del tempo, cicli sempre più brevi, determinati dalle mode, scandiscono il movimento di dispersione; tale accelerazione mostra al tempo stesso l'accentuarsi della volontà di definizione dell'individuo, l'intenzione di sottolineare lo scarto generazionale e il desiderio di conformarsi alla nuova norma, suggerita dalle classi dominanti. In effetti la moda di alcuni nomi propri si propaga in senso verticale, dall'aristocrazia verso il popolo, dalla città alla campagna. La crescente definizione e complessità della gerarchia sociale favoriscono la diffusione capillare di tali mode.

Contemporaneamente, viene meno l'autorità delle tradizjoni che regolano la trasmissione del nome all'interno della famiglia. La scelta del nome proprio del padrino o della madrina, cioè, per tradizione, quello di uno dei nonni, del prozio o della prozia, l'attribuzione del nome del padre al figlio maggiore o di quello del nonno deceduto al neonato costituiscono, specialmente nelle campagne, altrettanti imperativi il cui declino non va certamente esagerato; non di meno la loro persistenza viene contrastata dalle nuove pratiche emergenti. Tale indebolimento delle regole della

tradizione familiare mostra come siano venute meno le virtù ereditarie e, al tempo stesso augurali, del nome proprio. La perdita della fede nell'esistenza di un patrimonio di caratteri trasmesso attraverso il nome gioca chiaramente a favore dell'individualismo.

Laddove si verifichi la persistenza di una struttura familiare complessa in cui la scarsità dei nomi propri a disposizione aggravi il rischio di confusione, può succedere che il sistema di denominazione si mantenga molto arcaico. Così accade in alcune zone rurali del Centro e del Sud della Francia, in particolare nel Gévaudan. Qui il nome proprio, presto dimenticato nell'uso corrente, viene sostituito dal soprannome. Il patronimico rimane strettamente legato all'oustal o alla maysou, e chi, contratto il matrimonio, si stabilisca come «genero» nella casa dell'altro, perde il proprio. Tuttavia, anche nelle campagne, l'evoluzione favorisce l'uso, nuovo per l'ambiente, del nome di battesimo e la fedeltà al patronimico registrato all'anagrafe. Un po' alla volta l'uso del soprannome tende a rimanere confinato in gruppi marginali: il mondo degli artisti e della bohème, gli ambienti della prostituzione e del crimine, categorie che, come le vecchie società operaie, si riferiscono deliberatamente a valori e comportamenti arcaici.

È vero anche che l'esigenza di individuazione non costituisce l'unico elemento atto a spiegare il processo di diversificazione in corso. Il rischio di omonimia e quindi di confusione, accresciuto dall'urbanizzazione, spinge all'originalità della denominazione. Il progredire dell'alfabetizzazione e della scolarizzazione creano un nuovo legame tra l'individuo e il proprio nome e cognome. La foderatura dei quaderni, la «targhetta» e la biancheria col monogramma del corredo delle fanciulle, le iniziali cucite sugli abiti dei collegiali e molti altri usi accentuano l'ossessiva presenza di nome e cognome. Una nuova familiarità, testimoniata dall'aumento del numero dei coniugi in grado di firmare il proprio atto di matrimonio.

Durante la seconda metà del secolo, la circolazione postale — otto milioni di cartoline all'anno distribuite intorno al 1900 — contribuisce all'accumulazione dei simboli dell'io e dei segni di possesso personale; proliferazione manifestata ancor'oggi, solo per citare alcuni esempi, nell'uso corrente del biglietto da visita e dell'agenda personale. Anche agli animali domestici vengono un po' alla volta, attribuiti nomi propri; già all'epoca della Monarchia di luglio, Eugénie de Guérin rende più sofisticati quelli dei suoi cari cagnolini.

Lo specchio e l'identità corporea

La contemplazione della propria immagine cessa gradatamente di costituire un privilegio. Dobbiamo lamentare a riguardo, la mancanza di un'ampia ricerca sulla diffusione e l'uso dello specchio. Da molti indizi, in effetti, si comprende quale sostanziale importanza rivesta la storia della visione della propria persona. Nei villaggi del XIX secolo, soltanto il barbiere è in possesso di un vero e proprio specchio, il cui uso è riservato ai soli uomini. I venditori ambulanti diffondono piccoli specchi in cui donne e ragazze possono contemplare il proprio volto; ma in campagna è sconosciuto l'uso del grande specchio che riflette l'intera figura.

Per i contadini, l'identità fisica viene ancora letta negli occhi degli altri e si rivela mediante l'ascolto di una percezione interiore. «Come vivere in un corpo che non si è mai visto» in tutti i suoi particolari? si chiede Véronique Nahoum; è questa una domanda che sarebbe opportuno porre agli storici della società rurale. Si comprendono meglio, quindi, le proibizioni che in questo ambiente gravano sull'uso dello specchio; presentandolo a un bambino, si rischia di frenarne la crescita; lasciare uno specchio scoperto il giorno successivo a un decesso, porta sfortuna.

Nelle classi agiate, il codice delle buone maniere imporrà a lungo alle fanciulle di evitare di guardarsi nude, fosse anche soltanto nel riflesso dell'acqua del catino. Polveri speciali vengono sciolte nell'acqua del bagno per renderla torbida e prevenire la vergogna. La sollecitazione erotica dell'immagine del corpo, esasperata da una simile proibizione, ossessiona la buona società che carica di specchi i bordelli, prima di ornarne, tardivamente, le ante dell'armadio nuziale.

Alla fine del secolo, il diffondersi in città di quest'ambiguo pezzo d'arredamento permette l'organizzazione di_una nuova identità corporea. Nello specchio indiscreto, la bellezza si costruisce una nuova silhouette. Lo specchio a figura intera sta per far emergere l'estetica della linea snella e avviare la dietetica verso nuovi orizzonti.

La democratizzazione del ritratto

Un dato essenziale è pur sempre la diffusione sociale del ritratto, «funzione diretta — osserva Gisèle Freund — dello sforzo della personalità di affermarsi e prendere coscienza di sé». Acquistare e appendere al muro la propria immagine disinnesca l'angoscia; significa dimostrare la propria esistenza, perpetuarne la durata. Messo ben in vista, il ritratto è testimonianza del successo, rende manifesta la buona posizione raggiunta. Per il borghese, ossessionato dal ruolo di eroe fondatore, non si tratta più, come un tempo per l'aristocratico, di inserirsi nella continuità delle generazioni, ma di creare una discendenza, di cui ha l'obbligo di avviare il prestigio attraverso il proprio personale successo. È il secolo della commemorazione, ma anche della fondazione delle dinastie di bottegai orgogliosamente messe in mostra. Certo, anche la moda del ritratto partecipa di quel capillare processo d'imitazione, presto individuato da Gabriel de Tarde; soddisfa l'esigenza di parità. Non dimentichiamo infine il ruolo promozionale dei procedimenti tecnologici che demoltiplica il desiderio della propria immagine, divenuta allo stesso tempo merce e strumento di potere.

Rimasto a lungo appannaggio dell'aristocrazia e dell'alta borghesia, il ritratto si diffonde ed intimizza alla fine dell’Ancien Regime; trionfa allora la miniatura; pendenti, medaglioni, coperchi di scatole da cipria si ornano dei volti amati. Barbey d'Aurevilly nota con quanto fervore le élites della Restaurazione rinnovino la moda del ritratto-gioiello. Per una dama del boulevard Saint-Germain, trasformare la propria persona in una galleria di antenati, significa tentare di negare in maniera simbolica l'episodio della Rivoluzione.

Fra il 1786 e il 1830, l'apparecchio per rilevare i tratti del viso ideato da Gilles-Louis Chrétien, contribuisce, almeno nella capitale, a conservare la moda del ritratto. Con questo apparecchio, l'artista può riprodurre, in un solo minuto, i contorni dell'ombra disegnata dal profilo del proprio modello; basta poi riportare il disegno su una lastra di metallo e inciderlo, per ottenere una serie di immagini rigorosamente esatte ed economiche. I ritratti possono essere eventualmente eseguiti su legno o avorio, oppure si possono realizzare silhouettes all'inglese, ornando il disegno con un'acconciatura o un abito. I profili così ottenuti, spesso molto somiglianti, appaiono purtroppo stereotipati e privi d'espressione. Il dagherrotipo attenuerà questo difetto e soddisferà a una domanda sociale sempre più pressante.

Nel 1839, Daguerre deposita il brevetto del procedimento che gli permette di fissare su una lastra di metallo, dopo un quarto d'ora di posa, un ritratto unico, venduto ad un prezzo che va dai 50 ai 100 franchi. L'artista, maggiormente interessato ad esprimere la psicologia del modello che intenzionato a fissare i dati di una condizione sociale, costruisce il cliché in funzione del volto e della fisionomia. Netto, preciso, il dagherrotipo non consente la riproduzione.

Sarà dunque la fotografia a permettere la democratizzazione del ritratto. L'uomo del popolo potrà per la prima volta fissare. possedere e replicare in serie la propria immagine. Depositato nel 1841, il brevetto del nuovo procedimento viene costantemente perfezionato nei dieci anni successivi. I tempi di posa si riducono progressivamente fino alla scoperta, nel 1851, dell'impressione i-stantanea. Nel 1854, Disdéri lancia la foto formato tessera (cm. 6x9). Da quel momento la fotografia allarga in maniera sorprendente il mercato aperto dal dagherrotipo. Nel 1862, il solo Disdéri vende 2.400 foto formato tessera al giorno. Per impressionare una lastra sono sufficienti ormai pochi secondi; un ritratto in dodici copie costa solo 20 franchi. Si aprono studi fotografici fin nelle più piccole città; artisti ambulanti installano le loro baracche per strada e offrono fotografie a un franco.

La posa e l'album di famiglia

L'accesso alla rappresentazione e al possesso della propria immagine rende più vivo il sentimento della propria importanza. democratizza l'esigenza del riconoscimento sociale. I fotografi ne hanno una chiara percezione. All'interno dello studio-teatro ingombro di accessori, colonne, tende, tavolini è di scena ormai la figura intera. Il soggetto viene enfatizzato al massimo, se ne accentua l'imponenza; alcuni fotografi giungono a lanciare, dopo il 1861, la moda del ritratto equestre. Questa teatralizzazione degli atteggiamenti, dei gesti e dell'espressione del viso, cioè la posa, di cui Jean-Paul Sartre ha ben rilevato la portata storica, si riversa gradualmente nella vita quotidiana. I milioni di ritratti fotografici diffusi e conservati religiosamente negli album impongono norme gestuali, che modificano la scena privata; si impara a rivolgere un diverso tipo d'attenzione al corpo, in particolare alle mani. Il ritratto fotografico contribuisce a questa propedeutica del contegno cui mira l'educazione, mentre diffonde contemporaneamente un nuovo codice percettivo. L'atteggiamento da patriarca, come il gesto di riflessione del pensatore obbediscono ormai ad una banale regia.

A stabilire le regole del ritratto fotografico contribuisce anche il desiderio di idealizzare l'immagine, la ripugnanza per ogni difetto-in accordo con i canoni della ritrattistica ufficiale. L'immenso pubblico dell'Esposizione del 1855 si mostra affascinato dalla dimostrazione del ritocco. Una tecnica che si diffonde dopo il 1860; i tratti del viso vengono addolciti; macchie, rughe, sgradevoli imperfezioni scompaiono dai volti levigati, artisticamente soffusi di vaporose atmosfere. Fin nelle campagne, una nuova immagine della bellezza attenta alle norme imposte dalla cultura tradizionale.

L'album delle fotografie di famiglia precisa la configurazione del parentado rafforza la coesione del gruppo, allora minacciata dall'evoluzione economica. L'improvvisa diffusione del ritratto in ampie fasce sociali modifica la visione delle varie età della vita. e quindi il sentimento del tempo. Le fotografie, osserva Susan Sontag, costituiscono altrettanti memento mori. Per loro tramite diventa più facile immaginare il proprio degrado; la qual cosa induce a guardare l'anziano in maniera diversa e a riconsiderare il destino che gli è riservato.

Supporto della rimembranza, la fotografia rinnova il sentimento della nostalgia. Per la prima volta, la maggior parte della popolazione può ricondurre alla memoria antenati scomparsi e genitori sconosciuti. Ci si rende conto attraverso il contatto quotidiano, della giovinezza di coloro che ci hanno preceduti. Si opera un transfert con i punti di riferimento delle memorie familiari. In generale, il possesso simbolico dell'altro tende a canalizzare il flusso dei sentimenti, valorizza il rapporto visivo a discapito del rapporto organico, modifica le condizioni psicologiche dell'assenza. Le fotografie dei defunti attenuano l'angoscia della perdita e contribuiscono a rimuovere il rimorso provocato dalla loro scomparsa.

Infine, il nuovo procedimento favorisce la volgarizzazione e la contemplazione dell'immagine del nudo. Tende a modificare l'equilibrio e i modi dell'eccitamento erotico, a diffondere un nuovo «tempo» del desiderio; ne è prova il successo del «nudo 1900». La legislazione ha presto colto quest'elemento: dal 1850, una legge proibisce la vendita di fotografie oscene per strada. Dopo il 1880, il fotografo dilettante elimina l'intermediario professionale, alleggerisce il rituale della posa, spalanca la vita privata all'obiettivo, avido ormai di captare le immagini dell'intimità.

La perennità del ricordo

La stessa volontà di perpetuarsi, di lasciare una traccia, si manifesta nei cimiteri. Philippe Ariès ci ha fornito dei dati sul trionfo della tomba individuale e sull'emergere di un nuovo culto dei morti all'inizio del XIX secolo. Ci limitiamo qui a prendere in esame soltanto l'epitaffio personalizzato, uso, anche questo, totalmente nuovo per la maggior parte della popolazione; nuovo richiamo alla perennità della memoria. Comincia a precisarsi la storia della volgarizzazione di quanto concerne il culto funerario. Durante la monarchia censitaria si registra un aumento degli epitaffi che vantano i meriti dello sposo, del padre o del cittadino. Sulla pietra tombale s'incide la nascita della privacy. In seguito, la complessità delle costruzioni funerarie, l'industrializzazione della tomba finiranno coll'eliminare progressivamente l'originalità dell'iscrizione sostituita da espressioni stereotipate cui conferiranno una precisa connotazione i medaglioni con immagini fotografiche inseriti nella pietra tombale.

In diverse opere si mostra come tale evoluzione sia avvenuta secondo ritmi differenti e in maniera non priva di contrasti. Nel cimitero di Asnières, un oscuro villaggio dell'Ain, il primo epitaffio appare nel 1847. Nel 1856, la vedova di un modesto notabile piuttosto mal visto dai concittadini fa recingere con una balaustra il monumento funebre del marito. Il gesto suscita un moto di ostilità; il curato stesso esprime la propria indignazione constatando che mentre la memoria di un non fervente cristiano sarà perpetuata nel marmo, lui stesso ignora dove sia sepolto un pio sostenitore della fabbrica parrocchiale. Nelle piccole parrocchie di campagna, la pietra tombale, l'epitaffio feriranno a lungo la coscienza egualitaria. Nel 1840, Eugénie de Guérin si ritiene in obbligo di tutelare la bianca colonna che, al centro del cimitero di Andillac, perpetua la memoria del fratello Maurice.

Nelle minuscole parrocchie, il culto funerario si accompagna all'ascesa della rispettabilità post mortem; dopo il trapasso, il bottegaio si dà un tono. Per converso, questo nuovo perdurare della memoria favorisce il perdurare, o l'amplificazione, delle voci screditanti.

Uno stesso filo conduttore collega in realtà l'insieme dei processi tendenti a rafforzare il sentimento dell'io: l'aspirazione all'eroizzazione, l'ipertrofia della vanità rassicurante. Di questo enti-mento trapelano all'epoca molti altri segnali. In sintonia con l'affermarsi della meritocrazia: il valore attribuito all’albo d'onnre alla cerimonia della distribuzione di premi, al diploma affisso al muro del salotto o della sala di ricevimento: o ancora di più il prestigio della decorazione, il tono agiografico dei necrologi. Per molti umili, significherà provare l'insolita emozione di leggere il proprio nome stampato sulle colonne di un giornale. Chiunque può ormai cedere alla tentazione di assumere atteggiamenti eroici; se non altro nell'ambito della famiglia, di cui questa nuova ottica modifica l'atmosfera. Persino il gesto criminale rivela quest'aspirazione. Esaltato da condizionanti letture d'ispirazione plutarchiana, il giovane parricida d'Aunay-sur-Odon, scrive, con una sorta di fierezza, all'inizio delle sue sorprendenti memorie: «Io, Pierre Rivière, che ho sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello...».

limiti del sistema panoptico

La necessità di individuare le singole persone si impone alle autorità man mano che, nell'ambito dello spazio pubblico, l'anonimato si sostituisce progressivamente ai rapporti di reciproca conoscenza. La folla, che sempre più fitta e silenziosa occupa le strade, perde la propria teatralità, trasformandosi in un aggregato di persone assorte nel pensiero dei propri personali interessi. Si comprende come da quel momento i sistemi d'identificazione divengano più sofisticati e come vada precisandosi il controllo socale.

Fino al trionfo della Repubblica (1876-1879), le tecniche di identificazione muovono appena i primi passi; la loro condizione precaria segna il limite della visione panoptica attribuita, certo in maniera eccessiva, ai detentori del potere. Lo stato civile, secolarizzato nel 1792, codificato il 28 Piovoso dell'anno III, i censimenti della popolazione e le liste nominative istituite ogni cinque anni, le liste elettorali, censitane fino al 1848, estese all'insieme della popolazione maschile nel marzo del 1848, poi nel dicembre del 1851, costituiscono i punti di riferimento fondamentali del sistema. Alcune categorie sono fatte oggetto di particolari procedure: gli operai, teoricamente tenuti ad avere il libretto di lavoro a partire dal Consolato, libretto del quale saranno detentori in seguito alla legge del 22 giugno 1854, con grande svantaggio dei padroni, i militari, i domestici, ai quali si richiedono referenze rilasciate dai precedenti datori di lavoro, le prostitute inscritte nei registri della polizia o dell'amministrazione municipale, i trovatelli e i bambini abbandonati cui viene attribuito uno stato civile e una piastrina di riconoscimento, i viaggiatori e, in particolare, gli ambulanti e i nomadi, che devono munirsi di passaporto prima di effettuare i loro spostamenti.

Gli studi fatti sugli emigranti del Limousin, come sui viaggiatori che attraversano il dipartimento dell'Indre, mostrano chiaramente come a disposizioni estremamente dettagliate, in questo come in altri campi, si accompagni un grande lassismo, per non dire la più completa anarchia. I rapporti fra popolazione migrante e autorità si baseranno a lungo sulla conoscenza personale e la memoria visiva. Nondimeno, connesso al progredire dell'alfabetizzazione, l'accentuarsi del complesso delle esigenze amministrative contribuisce a diffondere il possesso, l'uso e la decifrazione delle «carte». Una nuova consuetudine che, accentuata dalla nascita dell'uso del contratto nella società rurale, rende sempre più difficile, e ben presto inverosimile, trovare persone che ignorino la propria età; come quel contadino che, avendo commesso un errore di sette anni nel calcolare la propria età, fa esclamare a Eugénie de Guérin: «Uomo felice, che ignora la sua stessa esistenza!». Per ognuno ormai il computo dell'esistenza è un dato acquisito e, immediatamente, il futuro diventa calcolabile se non prevedibile. La costruzione di un tempo personale permette di elaborare una storia individuale, condizione di identificazione e comunicazione autonome.

Quando è necessario delineare con maggiore esattezza la personalità dell'altro, la procedura corrente è sempre l'indagine sulla moralità, o almeno l’esame del certificato di buona condotta. In ogni caso, sia che si tratti di valutare una domanda di matrimonio, una richiesta di impiego oppure la candidatura a un posto di domestico, vengono interpellati sindaci e curati, tenuti a dare informazioni e pareri su cittadini e parrocchiani. Stranamente, una tale pratica, che in sostanza istituzionalizza il ricorso alla voce comune e spinge a svelare la vita privata, appare di solito abbastanza ben tollerata. Sebbene tardiva, la corrispondenza dei genitori di Marthe permette di cogliere dal vivo questi sistemi di individuazione. Quando si tratterà di scegliere o meglio di procurare un marito alla fanciulla caduta in fallo, verrà impegnata una squadra di informatori: confessori e curati si trasformano in sensali di matrimonio, parenti di provincia diventano agenti informatori, avvocati e notai vengono incaricati di indagare presso i loro colleghi, ai quadri della pubblica amministrazione si chiedono informazioni a proposito delle virtù dei loro subalterni, ai domestici viene affidato il compito di raccogliere le voci. Si salvano soltanto i medici, come se il segreto professionale ispirasse ormai una notevole soggezione. Un calibrato dosaggio di informazioni, raccomandazioni, pressioni, e anche di ricatti impregna il tessuto della vita privata di questa famiglia ridotta allo stremo, i cui sordi tentativi di difesa ci vengono rivelati con un'affascinante impudicizia.

L'occhio del poliziotto

Rimangono da considerare le procedure di identificazione, cioè la storia del dato segnaletico oppure, se si preferisce, della ricerca delle particolarità individuali. In questo campo le istituzioni di polizia hanno svolto il ruolo di laboratori in cui sono state elaborate quelle tecniche destinate a gestire in seguito ben altre situazioni. Sia il funzionario di polizia che il semplice cittadino si trovano di fronte a un duplice dilemma: come provare la propria identità? Come scoprire quella altrui, nel caso che si tratti di un cadavere?

Fino al 1880 circa, una persona astuta può mutare identità a suo piacimento; per procurarsi un nuovo stato civile, gli basta conoscere la data e il luogo di nascita di colui di cui intende usurpare l'identità; solo l'incontro, piuttosto improbabile, con un testimone potrà svelare l'inganno; e anche in questo caso il riconoscimento, basato sulla sola memoria visiva, potrà essere facilmente contestato. È facilmente comprensibile, quindi, quale terrore ispirino le figure del mostro o del vendicatore che si celano sotto mentite spoglie. Le metamorfosi di Jacques Colin, il destino di Jean Valjean, la strategia di Edmond Dantès non dovevano affatto sembrare inverosimili ai lettori del tempo. L'identificazione di un trovatello non si compie in maniera automatica; da ciò l'estrema importanza assunta dai segni di riconoscimento: braccialetti, collane, nèi o scarpette come per Esmeralda. Per lo stesso motivo, la recidiva pone all'autorità giudiziaria un problema di difficile soluzione; ed è proprio la difficoltà di identificazione delle prostitute che mette in crisi il sistema di regolamentazione della prostituzione elaborato durante il Consolato.

Fino all'inizio della Terza Repubblica, l'amministrazione continua ad usare il sistema della «segnalazione». Il funzionario di polizia osserva e annota dettagliatamente il colore dei capelli e degli occhi, fa una stima dell'altezza e, in caso, rileva le infermità evidenti. La lettura dei documenti redatti dai consigli di leva e dalla buon costume, come quella dei registri d'entrata dei carcerati, mettono in luce l'inefficacia di un metodo basato su descrizioni generiche e inesatte. Infatti, per sventare l'inganno, la polizia può contare esclusivamente sullo spirito di osservazione degli agenti, specialmente dopo che la legge del 31 agosto 1832 avrà portato all'abolizione del marchio a fuoco. Tuttavia, proprio in funzione di questa goffa procedura si andrà formando presso gli uffici della Prefettura di polizia il registro di entrata previsto dal codice d'istruzione criminale del 1808 e in seguito, a partire dal 1850, il casellario giudiziario, tenuto dalla cancelleria dei tribunali.

Misurazioni ossee e ricerca delle tracce

Il duplice problema viene risolto alla fine del secolo; nuove tecniche permettono di attribuire a ciascun individuo un'identità invariabile e facilmente dimostrabile. Il riconoscimento rende ormai impossibile la sostituzione di persona, anche fra gemelli; svela la falsificazione dello stato civile. Insomma, impedisce la metamorfosi. Persino la bigamia diventa un'impresa, quando la legge ripristina il divorzio. In compenso, hanno termine le angosce della prova impossibile; le difficoltà incontrate dal colonnello Chabert appartengono ormai al passato.

Nel 1876, la polizia comincia ad utilizzare la fotografia; alla fine del decennio la Prefettura è già in possesso di sessantamila clichés. È pur vero che questi, effettuati da qualsiasi angolazione, ammassati in disordine, si rivelano di scarsa utilità; e in definitiva non permettono di scoprire la vera identità del falsificatore. Un cambiamento radicale si ha a partire dal 1882, con l'utilizzazione del rilevamento antropometrico istituito da Alphonse Bertillon. Questi, quando la legge sulla recidiva votata il 27 maggio 1885 rese più pressante la necessità dell'identificazione dei criminali, prova che sei o sette misurazioni ossee effettuate con rigorosa esattezza e secondo una determinata procedura sono sufficienti per individuare un soggetto.

Il metodo Bertillon, risultato di una lunghissima ricerca, scandita dagli studi di Barruel sul sangue e sull'odore individuale, dalle ricerche di Ambroise Tardieu, di Quételet e dei membri della Società di antropologia, dominerà incontrastato fino all'inizio del XX secolo. Nel frattempo, verrà ulteriormente perfezionato dal suo stesso inventore, che decide di aggiungere i segni particolari ai tratti segnaletici determinati dalle misure ossee e poi di unire la fotografia alla scheda antropometrica.

A dire il vero, le misurazioni antropometriche di Bertillon rappresentano soltanto una tappa. Dall'inizio del XX secolo trionfa il sistema d'identificazione mediante la traccia corporea e, più precisamente, le impronte digitali. Questa antica scoperta cinese, utilizzata nel Bengala dall'amministra'zione inglese, viene propagandata da Galton che convincerà Alphonse Bertillon a inserire questo nuovo dato nella sua scheda antropometrica.

Alla vigilia della Prima guerra mondiale, procedimenti perfezionati in funzione dell'identificazione di delinquenti e criminali travalicano il casellario giudiziario. La legge del 16 luglio 1912 impone così ai nomadi e agli itineranti, cioè ormai ai commercianti e agli artigiani nomadi, il possesso di un «libretto antropometrico d'identità». Su di esso figurano cognome, nome, data e luogo di nascita, paternità, connotati, impronte digitali e foto della persona; è l'antenato della nostra carta d'identità.

Tali procedure cominciano a far incombere nuove inquietanti minacce sul segreto della vita privata. Mentre l'affare Dreyfus è al culmine, l'antropometria suscita le ire dei dreyfusardi ed alimenta vivaci polemiche. Nel frattempo, originata da una medesima preoccupazione ansiosa, l'affluire delle proteste costringe il prefetto Lepine a non esigere più dalle tenutarie di case d'appuntamento la fotografia delle donne che le frequentano. Si potrebbero probabilmente scoprire altre tracce di questa nuova suscettibilità; Philippe Boutry nota, a partire dal 1860, in diverse parrocchie dell'Ain, un'intolleranza fin'allora mai riscontrata, nei confronti di fatti personali messi in pubblico dai predicatori. I pastori d'anime, legati all'immagine ormai sorpassata dell'«eloquente fustigatore degli a-busi individuali», si vedono sempre più costretti a prendere in considerazione l'esistenza di un nuovo spazio privato della vita morale basato sull'autonomia della persona.

Si sarà certamente notato come, intorno al 1860, in tutti i settori di cui si è trattato, si delinea una svolta che si definisce verso il 1880. In breve, nel momento in cui trionfa la Repubblica si verifica uno sbilanciamento. Il movimento di individuazione che anima tutto il secolo raggiunge il culmine, mentre la classe dirigente s'ispira al neokantismo e Pasteur rivela l'esistenza del microbo, perturbatore dell'organismo; un modello biologico che, applicato al campo sociale, istituisce il controllo dell'individuo come fatto indispensabile alla sopravvivenza del gruppo.

Nello stesso tempo, il timore della violazione dell'io e del suo segreto genera il fantasmatico desiderio della decifrazione della personalità che si nasconde e dell'intrusione nell'intimità dell'altro; preoccupazione inconfessata che si pone all'origine dello snobismo dell'incognito, accentua la tentazione della lettera anonima, contribuisce ad aumentare la suggestione del voyeurismo «fin-de-siècle», si manifesta con l'emergere del personaggio del detective in cerca di tracce. Più che Conan Doyle, è Gaston Leroux la prova della differente sensibilità, lui che considera come punto nodale dell'azione poliziesca non l'identificazione del colpevole, ma la sua stessa complessa e confusa individualità.

Le minacce del corpo

L'anima e il corpo

È inutile tentare di comprendere il sentimento di intimità che regola la vita privata nel XIX secolo senza una riflessione preliminare sulla costante dicotomia fra anima e corpo che in quel periodo regola il comportamento. E’ chiaro che le modalità di tale sorprendente separazione variano a seconda dello strato sociale cui si appartiene, del livello culturale e del maggiore o minore fervore religioso. Inoltre, convinzioni sedimentate nel profondo di ciascun individuo così come l'incessante circolazione di modi comportamentali all'interno degli strati sociali vengono a confondere le analisi più rigorose. Non bisogna quindi perdere di vista lo stretto ed intricato rapporto esistente fra i sistemi di rappresentazione su cui, per volontà di chiarezza, operiamo un'artificiosa distinzione.

Molti etnologi, fra i quali Françoise Loux, hanno posto in luce la coerenza e l'influenza, dell'antica conoscenza del corpo in seno alle società contadine. È assai strano che queste sembrino ignorare la dicotomia cui ho fatto cenno. I proverbi raccolti dagli studiosi di tradizioni popolari alla fine del XIX secolo riflettono una visione laica della vita, che privilegia l'organico. Vi si definisce una morale della moderazione, che nasce dall'aver constatato come rifuggire dagli eccessi, comportarsi rispettando il giusto mezzo, mantenga in salute e procuri un benessere qui ricercato più del piacere. Un'etica che scaturisce dalla laboriosità contadina, che tiene conto del costo della fatica e guarda con sospetto i poveri, causa di violenze e disordini. Una mentalità intessuta di pessimismo e rassegnazione in attento e obbediente ascolto dei messaggi del corpo, basata sulla vonvinzione che questo sia strettamente connesso all'ordine cosmico, vegetale e animale attraverso una serie di corrispondenze simboliche. L'attenta osservazione delle fasi lunari, celeste bilancia del ciclo femminile, l'ascolto ansioso delle voci del pollaio quando si profila un pericolo di morte, la misurazione della crescita dell'albero piantato il giorno della nascita di un figlio, i divieti relativi alla gestione dei rifiuti dell'organismo: placenta, ritagli di unghie o denti caduti attestano il carattere vincolante di queste arcaiche credenze. Ad esse si accompagnano norme igieniche che consentono il naturale funzionamento dell'organismo, che tollerano il rutto, il peto, lo starnuto, il sudore e i segni del desiderio, accettano senza disgusto le stimmate del degrado. Un sistema di convinzioni e comportamenti che traccia una linea di resistenza alla diffusione di norme igieniche scientifiche e che s'insinua, con subdole sortite, fin nell'intimità delle case borghesi, grazie alla complicità di balie e cameriere Non bisogna meravigliarsi di trovare parzialmente interiorizzate nelle classi elevate alcune di queste norme che emergono dal fondo della società, talvolta in sintonia con l'igienismo corrente di medici bonaccioni, anch'essi fautori' del giusto mezzo.

Agli antipodi delle antiche credenze si colloca la sopravvivenza e, in alcuni ambienti, l'esasperazione del messaggio cristiano basato sull'antagonismo fra anima e corpo. Sdegnando i limiti dogmatici del disprezzo della carne tracciati dal mistero dell'Incarnazione,

dal sacramento dell'eucaristia e dalla fede nella Resurrezione, una visione pessimista, resa più incisiva dai Padri della Chiesa, specialmente da Tertulliano, ripresa poi da Bossuet e dai giansenisti, riduce la spoglia mortale, futuro pasto dei vermi, a una provvisoria prigione. Il corpo, definito dal curato d'Ars esclusivamente come il «cadavere», compromette l'anima mediante gli istinti e le impedisce di ascendere alla sua patria celeste. In tal modo si giustifica l'eterna lotta condotta contro gli slanci, le pulsioni organiche; se l'anima non tiene a freno il corpo, questo, come il dragone, si risolleverà per asservirla. Non esistono compromessi possibili. Tale sdoppiamento, quasi schizofrenico, è alla base dei comportamenti ascetici.

Conservate dall'aumento di coloro che fanno parte di congregazioni religiose, dal moltiplicarsi dei collegi e dalla proliferazione degli ordini terziari, queste pratiche, emerse da un lontano passato, sono in continua ascesa durante il XIX secolo. Un severo ascetismo sopravvive fino all'inizio del Secondo Impero, in accordo con il persistente rigorismo. Una violenza cui corrisponde la raffigurazione romantica del Cristo al Golgota, dalle cui ferite gli incisori devoti si compiacciono di far zampillare terribili fiotti di sangue. A partire dalla metà del secolo le mortificazioni più cruente tendono a scomparire, man mano che la pratica dell'automortificazione si diffonde fra le donne. La Chiesa, che conta sulla donna per portare a buon fine la propria azione di recupero, ha l'obbligo di tener conto del parere medico che dà massimo risalto alla fragilità delle figlie di Maria. Mille piccole mortificazioni, più consone al ritmo della vita femminile, si sostituiscono al sangue e al dolore fisico. In tal modo la rinuncia al proprio io si interiorizza nel quotidiano e s'inaugura quel conto minuzioso dei pic-| coli sacrifici.

Maggiormente innovative appaiono le teorie scientifiche. Decisiva, alla fine del XVIII secolo, la diffusione in Francia degli scritti di Georg Stahl e la loro influenza sul pensiero medico. Sia che si appellino al vitalismo di Montpellier, all'animismo o all'organicismo, la maggior parte dei medici dell'epoca, in particolare coloro che, come Roussel, hanno trattato della specificità del sesso femminile, si allineano con il dogma della supremazia dell'anima sul corpo. L'anima, reggitrice, detentrice del segreto della vocazione del corpo, ne guida la realizzazione. Per ciò, non sono i tratti anatomici né gli aspetti specifici della fisiologia femminile a determinarne il carattere e a giustificarne la missione materna; è l'anima che forgia al tempo stesso il corpo e lo spirito della donna; la maternità è innanzi tutto una vocazione metafisica per colei che è tenuta a collaborare all'opera della Natura.

I messaggi della cenestesia

Pur mantenendo molti tratti fondamentali di un pensiero di cui deliberatamente cancella l'aspetto metafisico, la scienza del XIX secolo si appresta ad infrangere il concetto di supremazia dell'anima. Gli ideologi, in particolare Cabanis, abbandonano la nozione di anima reggitrice e di principio vitale. Come scrive Jean Starobinski, essi tentano di «unificare il campo della medicina e della fisiologia». Sono di conseguenza indotti a portare una maggiore attenzione al rapporto fra fisico e morale, alle connessioni fra vita organica, vita sociale e attività mentale. Così, la femminilità appare loro non più in relazione con l'ontologia, ma con la fisiologia e la sociologia. Si comprende quindi l'emergere di un antico concetto derivante da Aristotele, se non da Aristippo di Cirene, ripreso da Descartes e dallo stesso Stahl, che prende successivamente il nome di «tatto» o «tocco interiore» e in seguito, alla fine del XVIII secolo, di «cenestesia». Il termine sta ad indicare una sorta di percezione interiore del corpo, o piuttosto l'insieme delle sensazioni organiche di cui, secondo Cabanis, gli istinti costituiscono la manifestazione nel comportamento.

Durante tutto il secolo gli specialisti si mostrano convinti dell'estrema influenza di un inconscio, visto come «la voce oscura delle funzioni viscerali, da cui emergono, a sprazzi, gli atti della coscienza» (Jean Starobinski). Da quest'inconscio balza, armata di tutto punto, la personalità. Il genio di Freud non consisterà nell'aver scoperto che larghe zone del soggetto sfuggono alla coscienza e contribuiscono a determinare l'attività mentale, ma nell'aver sottratta alla vita organica il monopolio dell'inconscio per collocarlo all'interno dello stesso apparato psichico.

L'importanza allora attribuita alla cenestesia valorizza una particolare forma di ascolto del corpo, che non ci appartiene più. Ispirandosi alla persistenza di un neoippocratismo volgarizzato che attribuisce importanza agli effetti dell'aria, dell'acqua e della temperatura, l'individuo spia l'influenza del tempo e della stagione sul benessere e sul ritmo della respirazione, sull'acutizzarsi dei dolori reumatici o sulla stabilità dell'umore; si sviluppa così una specie di meteorologia interna all'«anima». Allo stesso modo si rivolge una particolare attenzione allo svolgimento delle funzioni organiche e alla loro ripercussione sullo stato mentale; permanente stato d'allerta che privilegia l'analisi della fisiologia della digestione e del ciclo mestruale, perturbati dalla frequenza di dissenterie e malattie ginecologiche. Una vigile attenzione basata anche sulla teoria dei temperamenti — bilioso, linfatico, sanguigno, nervoso — di cui Théodore Zeldin mostra, a ragione, la persistenza e il continuo adattamento, al di là del discredito della teoria degli umori.

Entra così a far parte della vita quotidiana un sistema di viete immagini di salute fisica e psichica, che permette di gestire i comportamenti individuali, di elaborare strategie nei confronti degli altri. Dalla lettura dei documenti intimi risulta evidente come tali preoccupazioni costituiscano il tessuto stesso della vita privata. Per convincersene è sufficiente leggere, e si tratta solo di esempi scelti per ogni quarto del secolo, il diario di Maine de Biran, di Eugénie de Guérin, le carte di Charles-Ferdinand Gambon, di recente pubblicazione, oppure la corrispondenza di Boileau de Vigne e quella della famiglia di Marthe. È molto probabile che qualsiasi conversazione iniziasse col confrontare le reciproche esperienze cenestesiche, argomento che si affianca a quello delle considerazioni sul tempo. Questo genere di preoccupazioni determina l'atteggiamento nei confronti dell'acqua e del sole, dai quali si cerca di proteggersi, oppure delle correnti d'aria, oggetto di una vera e propria fobia.

Durante il XX secolo, tale forma di vigilanza privilegia gli slanci del corpo; mira ormai a procurargli dei compensi giustificati dalla vita cittadina, dalle condizioni di lavoro, dall'inquinamento; ad offrirgli il piacere fisico, imposto dall'accentuarsi del narcisismo. Nel frattempo è avvenuta una rivoluzione, sulla quale dovremo ritornare: la progressiva identificazióne del soggetto con il corpo; il che implicava l'attenuazione del disprezzo-petr l'organico, per l’animalità. Si è andata progressivamente affermando la solitudine dejgi appetiti^ avvertiti come quelli della persona in sé, e non più come espressione delle esigenze di un Altro; minaccioso e affascinante_insieme L'anacronismo psicologico attende al varco lo storico poco attento a questa mutazione dello statuto del desiderio.

Il letto e la camera individuale

Gli spazi collettivi, affollati dj_corpi ammassati gli uni.sugli altri fin quasi alla fine dell’Ancien Redime, cominciano, con il XIX secolo ad avere un assetto più umano. Il letto individuale, antica norma conventuale, è divenuto una semplice precauzione sanitaria, specialmente negli ospedali. In realtà, come ha giustamente notato Olivier Faure riferendosi all'esempio lionese, passerà molto tempo prima che in tali strutture si affermi la privatizzazione dello spazio riservato al malato, perché contravveniva ai riti della socialità popolare che vi si ricreavano spontaneamente. Non meno essenziale ai nostri intenti è il trasferirsi di tale preoccupazione nello spazio privato; processo accelerato dall'epidemia di colera del 1832, che tardivamente mette in evidenza i danni provocati dal sovraffollamento e dalla promiscuità che regnano nelle abitazioni popolari.

Sotto la spinta delle scoperte di Lavoisier e delle nuove e migliori conoscenze sui meccanismi della respirazione, convinti dei benefìci derivanti da una maggiore disponibilità di ossigeno, i medici si battono per tutto il secolo contro il letto collettivo e la promiscuità. Col passare del tempo verranno ascoltati. Un difficile trionfo le cui conseguenze si sono rivelate d'incalcolabile valore. La nuova solitudine del letto individuale rafforza il sentimento della persona, favorisce la sua autonomia; rende più libero il dispiegarsi del' monologo interiore; le modalità della preghiera, le forme della fantasticheria, le condizioni del sonno e del risveglio, lo svolgimento del sogno, o dell'incubo, ne risultano profondamente trasformate. Mentre si attenua il calore del letto comune, si sviluppa nel bambino l'esigenza della bambola o del rassicurante contatto materno. I medici non sono d'accordo: il piacere solitario viene ad esserne favorito.

Fra la piccola borghesia almeno, la camera individuale ha una sempre maggiore diffusione, oggetto di attenzione degli igienisti che ne dettano i volumi, consigliano l'allontanamento dei domestici e della biancheria sporca. La camera della fanciulla, trasformata in tempio della sua vita privata, si affolla di simboli; si confonde con la personalità dell'occupante di cui prova l'autonomia. L'angolo col piccolo oratorio, la gabbietta per l'uccellino, il vaso di fiori, i parati che imitano la tela di Jouy, il secrétaire che racchiude l'album o la raccolta della corrispondenza privata, talvolta la biblioteca contribuiscono a delineare l'immagine di Cé-sarine Birotteau o di Henriette Gerard, e ancora di più quella di Eugénie de Guérin, che nel suo diario leva un inno interminabile al piacere di abitare la propria «cameretta», celebrata anche da Caroline Brame.

L'idillica mansarda della sartina, di cui l'immacolato assetto testimonia la virtù, rappresenta la versione popolare del modello. La parola d'ordine «a ciascuno la sua stanza» s'impone anche nelle case di tolleranza sorvegliate dalla buon costume. In campagna, l'intimità dello spazio coniugale si definisce gradatamente mediante l'adozione di tende, paraventi o la costruzione di sommari tramezzi. Quando il padrone di casa decide di cedere il comando, prende l'abitudine di riservarsi una stanza nel contratto di donazione; egli si garantisce in tal modo la privatizzazione dello spazio in cui si svolgerà il resto della sua esistenza.

Parallelamente, la crescente intimità dei luoghi della defecazione favorisce il prolungarsi del monologo interiore. Nelle case popolari, il possesso della chiave delle latrine al piano inaugura la «famigliarizzazione» dell'escremento, elemento non trascurabile dell'affermasi della privacy. Quando, intorno al 1900, si diffonde l'uso del gabinetto e poi della stanza da bagno, provvista di un solido chiavistello, il corpo nudo può cominciare a far prova della propria mobilità al riparo da qualsiasi intrusione. Questo spazio, desensibilizzato all'estremo, si trasforma in tempio clean and decent della ricognizione e della contemplazione di sé.

La pulizia personale

I progressi della pulizia personale rivoluzionano la vita privata e le condizioni del rapporto. Dall'inizio del secolo, fattori diversi contribuiscono all'accentuazione delle antiche esigenze di pulizia, germinate all'interno dello spazio conventuale. La scoperta dei meccanismi della respirazione ed il grande successo della teoria delle infezioni inducono ad accentuare i pericoli derivanti dall'otturazione dei pori prodotta dalla sporcizia, causa di miasmi. In seguito, l'affermarsi del concetto di «depurazione» impone un'accurata pulizia degli «emuntori» dell'organismo. L'influenza riconosciuta del fisico sulla morale valorizza ordine e pulizia. Nuove sensibili esigenze rinnovano la società; l'esasperata delicatezza delle classi elevate, la volontà di star lontano dalle scorie organiche, che rammentano l'animalità, il peccato, la morte, insomma, il desiderio di purificazione, accelerano il processo. Un processo inoltre stimolato dalla volontà di distinguersi dalla nauseabonda massa popolare. Il tutto contribuisce a promuovere un nuovo statuto del desiderio sessuale e della repulsione, accentuando a sua volta l'affermarsi delle pratiche igieniche.

Tuttavia la persistenza di molti pregiudizi in merito induce alla prudenza. L'acqua, i cui effetti sul fisico e sulla morale vengono sopravvalutati, esige un atteggiamento prudente. Norme rigorose regolano la pratica del bagno secondo il sesso, l'età, il temperamento e la professione. La preoccupazione di evitare mollezze, compiacimenti, autocontemplazione, anche la masturbazione, frena la diffusione di tale pratica. La radicata convinzione del rapporto esistente fra acqua e sterilità ostacola il progresso dell'igiene intima femminile.

Tuttavia il progresso si propaga lentamente dalle classi superiori verso la piccola borghesia. L'impiego nel servizio domestico contribuisce all'iniziazione di una limitata fascia popolare; ma si tratta sempre di una pulizia parziale. Ci si lavano frequentemente le mani, ogni giorno il viso e i denti, almeno quelli davanti, i piedi una o due volte al mese, la testa mai. La frequenza del bagno continua ad essere regolata in base al ritmo mestruale. La maggior parte delle congregazioni femminili del XIX secolo continua ad osservare in proposito la regola fissata da sant'Agostino. Alla fine del secolo, la comparsa della tinozza all'inglese, poi la diffusione, certo assai limitata, della doccia tendono a modificare i tempi della pulizia personale. L'uso della doccia è favorito da un pregiudizio corrente, la sua azione dinamizzante esorcizzerebbe i languori. Tale virtù non dispensa sempre dall'alibi terapeutico. Il regolamento della Scuola normale di Sèvres, redatto nel 1881, riserva la doccia alle ammalate accompagnate da un'infermiera. Da ciò si può facilmente comprendere il ritardo dell'igiene sessuale. Guy Thuillier osserva che l'uso del bidet e dei pannolini igienici compare fra la buona borghesia di Niverne, solo all'inizio del XX secolo.

La gente di campagna, abituata è vero, da ragazzi, al bagno nei fiumi durante la stagione calda, non è toccata da tale progresso fino alla Prima guerra mondiale. Le amministrazioni comunali si adoperano per canalizzare l'acqua; una rete di fontane, «cannelle» e lavatoi si forma all'epoca della Restaurazione in bassa Normandia, durante la Monarchia di luglio nel Nivernois, a Minot e nello Chatillon all'inizio della Terza Repubblica. L'ospedale, la prigione, poi la scuola e la caserma contribuiscono alla diffusione della propedeutica igienica intrapresa da quegli infaticabili medici di campagna, di cui è simbolo il dott. Benassis. Ma, come già abbiamo osservato, il codice dell'igiene scientifica contraddice sovente alle norme della tradizione popolare: lavare troppo la biancheria ne provoca l'usura, una meticolosa pulizia degli ambienti è solo una perdita di tempo, sotto la sporcizia si forma il bel colorito. Le prescrizioni mediche risultano fastidiose; sono spesso sentite come intollerabili ingerenze dei signori di città.

Nell'ambiente operaio si riscontra una certa ambivalenza: alla fine del secolo, la pulizia diviene un bisogno; la volontà di cambiarsi dopo il lavoro rivela un'esigenza di dignità; alla vigilia della Prima guerra mondiale, è persino causa di diversi scioperi nella regione di Parigi. Tuttavia l'applicazione della legge sull'igiene, votata nel 1902, si rivela difficile. L'ispezione è sentita come un insopportabile controllo. Nel Nivernois, padroni e operai si trovano d'accordo nel non rispettare le nuove prescrizioni.

A dire il vero, il concetto di igiene delle classi dominanti, quando si tratta del popolo, bada a salvare innanzi tutto le apparenze. Essere puliti significherà prima di tutto togliere le macchie (a Lione, il tintore viene chiamato «smacchiatore»), smacchiare gli abiti, evitare la volgarità dei modi, tenere i capelli in ordine, lavarsi qualche volta le mani, all'occorrenza sbarbarsi e, solo in seguito, aspergersi di acqua di Colonia. Per la Ragotte di Jules Renard, l'igiene consiste nell'essere capaci di mangiare la minestra senza sbrodolarsi; mentre dalla sua vicina, Fifille Migneboeuf, si ordina al bambino di asciugare il sangue delle regole sparso sul pavimento della sala. Nemmeno la scuola repubblicana, di cui tanto sono stati esaltati l'azione in favore dell'igiene e il rituale delle ispezioni per la pulizia, ha maggiori ambizioni; per convincersene basti rileggere con attenzione il Tour de la France par deux enfants. L'attacco decisivo è sferrato sull'uso del pettine e l'apprendimento delle regole della defecazione. Il ragazzo deve smettere di pettinarsi con le mani e la bambina deve imparare a mantenere pulite le mutande.

Tuttavia, circa all'inizio del XX secolo, si profila una svolta: il relativo ampliamento dell'attrezzatura e del mobilio sanitario, l'influenza della doccia in uso presso le società sportive, l'impegno della nuova amministrazione sull'igiene pubblica, la maggiore frequentazione degli alberghi turistici e dei bordelli di lusso facilitano la diffusione della brocca e della bacinella; ma bisognerà attendere il periodo fra le due guerre e la diffusione del ferro smaltato, e poi gli anni Cinquanta perché doccia e stanza da bagno diventino un fatto usuale e si operi una profonda rivoluzione igienica.

La minaccia del desiderio

Nello spazio privato l'individuo si prepara ad affrontare il giudizio degli estranei; qui si costruisce il proprio modo di apparire, in funzione dell'immagine sociale del corpo. Anche in questo settore, è avvenuta una rivoluzione. Nel XIX secolo, viene elaborata e si afferma una strategia dell'apparenza, un sistema di regole formali e rituali precisi che riguardano esclusivamente la sfera privata. In seguito si verifica un lento decadere di tale specificità, un tempo basata sull'ipertrofica distinzione fra dentro e fuori. Così, col passare degli anni, la camicia da notte non è più tollerata al di fuori della camera da letto. E divenuta il simbolo di un'intimità erotica cui sarebbe ormai assai sconveniente alludere, anche solo velatamente; tanto più che la camicia della donna sposata tende a differenziarsi dalla semplice tenuta della fanciulla. L'abbigliamento mattutino si compone di una vasta gamma di capi con i quali una signora per bene non potrebbe mai mostrarsi ad un estraneo, a meno che non si tratti del suo amante; un'esigenza di pudore ravvivata dal progressivo raffinarsi di questo tipo d'abbigliamento e dalla maggiore visibilità della biancheria intima. Il Mais n'te prométte donc pas tout e nue di Feydeau, non deve essere preso alla lettera. Allo stesso modo, a casa propria la donna porta i capelli sciolti, in pubblico una tale acconciatura la farebbe apparire come una serva... o una prostituta. Queste norme rientrano globalmente in quel sistema di ostacoli che limitano l'accesso della donna alla scena pubblica, solennizzandone al tempo stesso l'apparizione. La distinzione fra dentro e fuori non risparmia la popolazione maschile; l'abbigliamento adottato dal parigino a casa propria non gli permetterebbe mai di affrontare la pubblica via.

Un altro fatto storico apporta delle novità nel comportamento privato: lo sviluppo inaudito della biancheria intima. L'estrema raffinatezza dell'abbigliamento nascosto valorizza la nudità, di cui accresce il mistero. In nessun altro periodo, nota Philippe Perrot, il corpo femminile fu tanto nascosto come fra il 1830 e il 1914. Dopo la camicia, si diffondono irresistibilmente i mutandoni. I-nizialmente indossati dalle bambine, conquistano le donne quando trionfa la moda della crinolina, all'inizio del Secondo Impero. Nel 1880, diventano di rigore, almeno nella borghesia. Nel frattempo, il busto resiste alla violenta offensiva condotta dai medici. L'allacciatura sul davanti, «à la paresseuse», ne rende più autonomo l'uso, permettendo alla donna di sbrigarsela da sola, la qual cosa accresce il suo margine di manovra in amore.

Alla fine del secolo, all'ipertrofia della biancheria intima si accompagna la ricchezza fino allora ignota di merletti e ricami. Mai saranno altrettanto evidenti gli effetti perversi del pudore; mentre si moltiplicano le stazioni della svestizione, le impazienti dita maschili devono superare gli ostacoli di una gamma sempre più vasta di nodi, ganci e bottoni. Questa accumulazione erotica che contribuisce alla formazione di una nuova mitologia della dissolutezza e la cui rappresentazione grafica, tranne che nelle caricature, costituisce un tabù, si diffonde con estrema rapidità — più rapidamente delle norme igieniche — in tutti gli strati sociali. Ben presto, anche il giovane seduttore di campagna dovrà essere capace di destreggiarsi fra ostacoli imprevisti.

Sarebbe opportuno riflettere sul significato dell'accettazione di una simile sofisticata complicazione, in accordo con la sconvolgente ipertrofia dell'immaginario erotico simboleggiato, in ambiente borghese, dall'ansia di ricoprire, dall'ossessione della fodera, della custodia e dell'imbottitura. Il desiderio di conservare, la preoccupazione di nascondere le tracce, la paura della castrazione, il pensiero costante della minaccia del desiderio vi si fondono in maniera nevrotica.

Come meravigliarsi quindi dell'insorgere del feticismo, descritto e codificato da Binet e Krafft-Ebing alla fine del secolo, ma i cui sintomi erano già stati minuziosamente analizzati da Zola, Huysmans e Maupassant? La mistica della vita sottile e delle reni inarcate, l'appuntarsi del desiderio sulle morbide rotondità del seno, la valenza erotica del piede e della pelle degli stivaletti, il desiderio di possedere una ciocca di capelli femminili per respirarne il profumo, sono divenuti fatti storici, come anche il feticismo del grembiule della cameriera, simbolo di un'intimità che sembra autorizzare ogni libertà di comportamento. La biancheria intima, che reca le tracce della sessualità, della malattia, o del crimine, trasmette compromettenti messaggi; su questa si appuntano i pettegolezzi inventati dalle cameriere e subito amplificati, al lavatoio, dalle lavandaie. La lavandaia del castello sa molte cose; al villaggio, gode del prestigio di donna che conosce i segreti della biancheria di lusso.

Le strategie dell'apparenza

Nello spazio privato si svolge anche la toletta che prelude all'apparizione sulla scena pubblica. Il rituale di quest'inutile fatica, per lungo tempo prerogativa delle classi elevate, si diffonde improvvisamente fra il 1880 e il 1910. Vi si possono individuare alcune caratteristiche salienti; e prima di tutto un nettissimo dimorfismo sessuale che ha l'effetto di accentuare la specificazione dei ruoli. La donna., ha il monopolio dei profumi, dei cosmetici, del colore, delle morbide stoffe, dei merletti e soprattutto di una torturante body sculpture che come prima cosa la pone al di sopra di ogni sospetto di lavoro. La sua funzione è quella di essere l'insegna dell'uomo condannato all'attività, cioè all'abito nero o grigio, a tubo, che fa esclamare a Baudelaire che il sesso maschile è in lutto. Anche l'abbigliamento intimo maschile manca di raffinatezza. L'uomo del XIX secolo non è affatto fiero del proprio corpo, tranne che dei suoi peli. Mentre le ciocche ondeggianti della capigliatura femminile invadono il «modem style» e furoreggia l’«ondulation Marcel», diffusa dai parrucchieri per signora che cominciano ad aprire i loro esercizi, i professionisti non dispongono mai di meno di quindici o venti modelli di barbe, baffi e favoriti da proporre.

La posta in gioco di tutte queste mode non è certo da poco; la loro storia inaugura quella della diffusione di un nuovo stile di vita privata. S'impone nuovamente, in proposito, l'importanza della mutazione che avviene fra il 1860 e il 1880. Fino a quel momento, la campagna si mostra diffidente nei confronti di ciò che viene dalla città; nei giorni di fiera o di mercato, anche nelle vie cittadine, gli abiti campagnoli vengono portati con fierezza. Bisogna dire che tra il 1840 e il 1860, favorito dalla prosperità rurale, il costume regionale raggiunge un periodo di massimo splendore. In seguito inizierà quel fenomeno mimetico che porterà all’espropriazione simbolica, alla progressiva eliminazione dei costumi regionali religiosamente raccolti dagli studiosi di tradizioni popolari. Mentre cuffie e camiciotti scompaiono lentamente, i "figurini di moda si diffondono fin nelle più sperdute campagne. Il sistema di acquisto per corrispondenza, il moltiplicarsi delle succursali dei magazzini Printemps, l'insediamento di modiste e soprattutto la proliferazione inaudita delle sarte «fin-de-siècle» accelerano l'evoluzione. L'esistenza delle fanciulle, costrette ad un nuovo apprendistato, viene ad esserne trasformata, come ha mostrato Yvonne Verdier a proposito di Minot, pur senza porre troppo in evidenza che si tratta di un fenomeno storico, molto limitato nel tempo.

Anche l'ambiente operaio della città subisce questa influenza. Per molto tempo la specificazione della professione si era imposta attraverso la fisionomia del costume; fino alla metà del Secondo Impero era facile distinguere per le strade il camiciotto dell'operaio, l'abito nero del magistrato, il colletto rigido dell'impiegato. Ora, ecco insorgere, dopo il 1860, la tentazione dell'abito della domenica. L'operaio vuole mettersi in borghese per fare festa e confodersi con la folla cittadina. Il riposo domenicale assume allora un significato di diversa portata. Mettersi l'abito della domenica, vuol dire mostrarsi accessibile alla morale della nettezza. Per la giovane operaia, vuol dire assumere i nuovi raffinati strumenti della seduzione femminile, accettare il gioco dello stivaletto, del fazzoletto profumato e del seno ben modellato, adottare un diverso portamento; significa anche imporsi l'ossessivo tirocinio di una cultura d'accatto; vuol dire infine accettare il nuovo tempo dell’usura. Molti racconti di Maupassant, molte canzoni del Novecento registrano questo mutamento simboleggiato dall'apparizione della «commessa», lontana discendente della sartina.

Il pudore e la vergogna

Nel XIX secolo, pudore e «vergogna» si arrogano il diritto di_condizionare i comportamenti. Dietro questi termini si nasconde un duplice sentimento: da una parte, il timore di vedere manifestarsi l'Altro — il corpo —, l'ossessioni che l'animale faccia capolino da dietro le spalle; dall'altra, il timore che la propria segreta intimità venga violata dall'indiscreto, il cui desiderio è stato eccitato da tutte le precauzioni destinate a. mascherare quel tesoro. Dal primo sentimento deriva l'autocostrizione,. cioè la preoccupazione di evitare ogni manifestazione organica suscettibile di ricordare l'esistenza del corpo. Richard Sennett cita in proposito la «malattia verde», una costipazione provocata nelle donne dal timore di emettere peti in pubblico. I medici elaborano il quadro clinico dell'ereutofobia», pudore di secondo grado, timore morboso di non poter impedire al volto di arrossire. Dal secondo deriva, ad esempio, il rifiuto dello speculum, il cui uso viene a lungo assimilato a uno «stupro medico»; alla fine del secolo, gli abolizionisti continuano ad usare quest'argomento nella loro lotta contro la prostituzione autorizzata. Da un'ansietà dello stesso genere deriva alla donna il mal bianco, il rifiuto cioè di uscire per paura di essere spiate da sconosciuti.

Un duplice timore accresce l'esigenza della «modestia» del contegno; cui si ispira in modo particolare la pedagogia, delle Istituzioni femminili. Il primo obiettivo è contenere la vivacità dei bambini. Il blocco del ritmo degli slanci è rafforzato in questo caso dalla volontà di inaridire le sorgenti dell'emozione e di limitare gli apporti della sensualità. Poiché attraverso i sensi si aprono dei varchi al demonio, bisogna insegnare la prudenza, il giovane deve imparare ad aver sempre un lavoro da compiere, a temere il proprio sguardo, a parlare a bassa voce e, meglio, a compenetrarsi delle virtù del silenzio. In proposito Odile Arnold individua nei conventi, verso la metà del secolo, un netto accentuarsi del rigorismo pedagogico, che fa seguito ad una certa libertà, o anche a una reale spontaneità di atteggiamenti. Il tentativo di abolire il corpo viene esasperato dall'esaltazione del modello dell’angelo; in molte fanciulle si attu a allora un vero e proprio processo di identificazione. Questo miraggio, la cui genesi è in parte attribuita da Jean Delumeau all'antica influenza del neoplatonismo, acquista rapidamente un ascendente sempre maggiore; più che evidente negli atteggiamenti della preghiera, va di pari passo con la crescente esaltazione della verginità e l'ascesa del lirismo della castità. Rivelatrice, in proposito, la rapida diffusione del culto di Filomena, dal 1834. Il modello di questa santa mai esistita, alla quale son tuttavia dedicate moltissime biografie, permette la diffusione di preghiere, emblemi e persino cilici destinati alle fanciulle desiderose di mantenersi intatte. Non dimentichiamo che nel secolo in cui si afferma il primato del linguaggio maschile, la predicazione femminile si esprime attraverso la retorica del corpo, l'elevazione dello sguardo ed il fervore del gesto.

Rimane da impostare il problema della diffusione dei comportamenti. Suzanne Voilquin, figlia del popolo, riferisce il vero e proprio noviziato cui la sottopongono, fra il 1805 e il 1809, le direttrici della scuola del chiostro di Saint-Merry e poi le tristi signorine normanne presso le quali svolge il suo apprendistato, fin dall'età di nove anni. Tuttavia, l'antropologia angelica resuscitata in epoca romantica ha larga diffusione solo quando si dispiega la controffensiva cattolica, cioè dopo il 1850- Le tecniche dì costrizione elaborate nei conventi penetrano allora negli strati popolari. Di recente, Marie-José Garniche-Merrit, che ha minuziosamente raccolto le testimonianze della memoria popolare, traccia un quadro sorprendente della strettissima sorveglianza esercitata, ancora tra il 1900 e il 1914, sulle novizie della piccola comunità di Buée-en-Sancerrois. Specialmente nelle parrocchie rurali, si forma una fitta rete di congregazioni giovanili. Innumerevoli associazioni di Figli e Serve di Maria o ancora di quelle Rosières, che secondo i calcoli di Martine Segalen ammontano a circa un migliaio, confortano la lezione di morale e contegno impartita dalla scuola repubblicana, a sua volta erede della cultura pedagogica di Jean-Baptiste de La Salle di cui precedentemente si erano fatti portatori i maestri della monarchia censitaria. In Touraine, sindaco e curato collaborano alla designazione e al festeggiamento della rosière del villaggio. Questa, il mattino stesso della celebrazione della sua vittoria, è tenuta a dar prova, davanti al medico, del proprio pulzellaggio. A Nanterre, la scristianizzazione non impedirà la conservazione di questo modello di virtù domestiche e personali.

Negli_alloggi popolari, l'acquisita preoccupazione di assumere tratti di maggiore finezza è accompagnata da una nuova contenzione del corpo,. Celine, in un romanzo in parte autobiografico, riferisce la tortura inflitta al giovane protagonista di Mort à crédit dai suoi genitori, un piccolo impiegato e una bottegaia di una delle vie del centro di Parigi. Sarebbe troppo lungo enumerare tutte le discipline che inducono a trasformare in gesti intimi pra-Tlcne fino a poco tempo prima tranquillamente ostentabili. Svestirsi insieme prima di infilarsi nel letto che si divide coni fratelli, compiere gli uni davanti agli altri i gesti della pulizia personale, fare all'amore nella stanza da letto comune a tutta la famiglia sono diventate azioni «vergognose».

Fermiamoci un momento sul caso della «ragazza grande» in età puberale, sulla quale si appunta allora l'attenzione dei moralisti. A lei vengono specificamente dedicati poderosi testi di fisiologia e d'igiene. In essi prende forma l'immagine, certamente fantasmatica, di una bambina spaventata o sorpresa dalla radicale trasformazione che in lei si va operando e che culmina nella comparsa delle regole. Una ragazza strana, dai gusti incomprensibili, tanto più pericolosa in quanto non possiede ancora alcuna cognizione della condizione femminile ed è ancora troppo legata alle forze naturali che si stanno manifestando in lei. Il languore, i sospiri, i pianti senza motivo esprimono la sua stranezza ed esigono la sollecitudine di coloro che la circondano. L'esistenza della fanciulla viene sovraccaricata di proibizioni che molto spesso, per la verità, rimangono puramente teoriche. I medici consigliano di evitare di stimolare il suo interesse per ciò che riguarda il sesso. È in questo modo che, sollecitata dall'urbanizzazione che priva i giovani dello spettacolo della copula animale, e favorita dalla relegazione della sessualità nella stanza dei genitori, si opera la moltiplicazione delle «ignare verginelle». È in questo periodo che si accredita l'idea che i bambini nascano sotto i cavoli. Resta da valutare esattamente quanta parte vi abbia la finzione, individuare la distorsione che s'instaura fra atteggiamento e discorso interiore; un progetto purtroppo irrealizzabile! Claudine e le sue compagne più grandi che gareggiano fra di loro per il seno più bello ci propongono in effetti tutt'altra immagine di fanciulla.

Il piacere solitario

Il terrore suscitato dalla pratiche sessuali solitarie costituisce un indice prezioso dell'ipocrisia esistente. Gli storici, da Jean-Louis Flandrin a Jean-Paul Aron, hanno posto in evidenza l’ipertrofia del dibattito medico intorno a questo flagello da tempo denunciato dal clero. Una data decisiva è costituita dalla pubblicazione, nel 1760, del celebre Onania del dott. Tissot, regolarmente ripubblicato fino al 1905. Gli specialisti hanno parlato a lungo dell'aumento di tali pratiche, ma, evidentemente, lo studio delle serie storiche si rivela in questo caso impotente a trasmettere delle certezze. Il ritardo dell'età matrimoniale, la costituzione di veri e propri ghetti di celibi nelle città, il decadere delle forme tradizionali di sessualità d'attesa in ambiente rurale, lo sviluppo dell'internato maschile, il progressivo diffondersi della camera e del letto individuali, l'accentuarsi del terrore ispirato dal rischio di contrarre malattie veneree suggeriscono la possibilità di una maggiore diffusione delle pratiche solitarie, a meno che non si voglia supporre un parallelo sviluppo dei processi di sublimazione. Io aggiungerei che tutto quanto tende all'esaltazione dell'individuo, ad alimentare il suo dialogo interiore, non ha potuto che agire in favore di tale forma di piacere. Non dimentichiamo inoltre il fascino della trasgressione, le delizie della sconfitta e dell'errore, cosi come, per la donna sposata insoddisfatta, il desiderio di compensazione o di rivalsa combinato con il rischio di «complicazioni» che la scelta di un amante comporterebbe. Tutto ta quindi supporre che, senza la diffusione di tali pratiche, la campagna condotta dai moralisti non sarebbe stata così pressante.

Ma torniamo alle terrificanti teorie degli specialisti, il cui effetto dissuasivo non va assolutamente minimizzato. L'interminabile diatriba, che si innesta sul progetto di sessualizzazione dell'infanzia individuato da Michel Foucault, è principalmente basata sullo spettro della perdita, sulla necessità di amministrare qualsiasi dispendio e di impiantare quindi una sana economia spermatica. Da questo punto di vista, il piacere solitario maschile conduce, viene continuamente ripetuto, ad un rapido deperimento. Consunzione, senilità precoce ed infine la morte costituiscono le tappe dell'itinerario percorso da quegli individui smunti, lividi, quasi ridotti in stato di amnesia che frequentano gli studi medici. La drammatizzazione del quadro clinico riflette il timore che il dispendio di energie nuoccia al necessario dinamismo fisico e coinvolga la capacità lavorativa; vi si cela soprattutto il rifiuto dell'iniziazione al piacere, la negazione delle funzioni edoniche.

Il godimento della donna donna senza la presenza maschile appare particolarmente intollerabile. Il «toccarsi» costituisce l'essenza stessa del vizio. Per l'uomo rappresenta il segreto assoluto, infinitamente più misterioso dei turbamenti del coito. In questo caso non è possibile far riferimento ai rischi dell'indebolimento, poiché la potenzialità erotica della donna appariva infinita; ma altre sanzioni, altrettanto terribili, si profilano sull'orizzonte del peccato. Non esiste quadro clinico, biografia di ninfomane, isterica o prostituta che non si apra con l'immagine della piccola viziosa. Si ritrova in questo campo la ben nota ostilità dei medici del XIX secolo nei confronti della clitoride, semplice strumento di piacere, inutile per la procreazione.

La sorveglianza dell'onanista

La lotta contro il flagello è condotta dai genitori, dal prete e soprattutto dal medico. I testi scientifici incoraggiano la sorveglianza domestica. Per i pedagogisti del clero, il sonno deve somigliare alla morte, il letto è l'immagine della tomba e il risveglio, quello della resurrezione. Nei dormitori dei collegi, una suora ha il compito di vegliare sulla «modestia» del comportamento al momento del risveglio e del coricarsi. Durante il giorno, è bene non lasciare soli per troppo tempo i ragazzi. Il regolamento dei collegi retti dalle Orsoline prescrive alla ragazza di restare sempre in compagnia di diverse altre fanciulle. I medici, dal canto loro, consigliano di evitare il tiepido umidore delle coltri; mettono al bando la trapunta di piume e l'eccessiva quantità di coperte, ed indicano la positura durante il sonno. Si mostrano diffidenti verso la pratica dell'equitazione femminile, e verso l'uso della macchina da cucire, messa sotto accusa dall'Accademia di medicina nel 1866.

La struttura dei servizi e, in caso di necessità, l'ortopedia concorrono alla prevenzione. Nel 1878, gli specialisti consigliano di adottare, nelle latrine, porte con aperture, in alto e in basso, che consentano di esercitare un controllo. Alcuni medici consigliano, per i ragazzi, l'uso di lunghe camicie allacciate. Contro l'onanismo ribelle, gli specialisti propongono, fino al 1914, appositi cinti; alcuni confezionano, addirittura, per le ragazze, delle «cinture contentive». Nelle case di cura, si impongono alle alienate ninfomani manette, cinghie e particolari apparecchi da inserire fra le gambe per impedire loro di stringerle. Quando la malattia persiste, interviene la chirurgia. Appare piuttosto diffusa la pratica della cauterizzazione dell'uretra. Théodore Zeldin cita il martirio di un commesso di negozio di diciotto anni, vittima per sette volte di una simile terapia destinata, in teoria, a curare le perdite seminali involontarie. Ma gli orrori sofferti da Amiel, narrati da lui stesso in maniera particolareggiata, sono per noi ancor più rivelatori. L'infelice soccombe regolarmente alle masturbazioni provocate da letture erotiche o dalla contemplazione di statuine e incisioni. «Ogni polluzione è come una pugnalata per i vostri occhi» ha sentenziato uno specialista rivolgendosi al ragazzo di diciannove anni. Sconvolto, da quel momento egli nota accuratamente ogni polluzione notturna; parla dei suoi pentimenti; registra i suoi buoni propositi; la sera fa dei bagni d'acqua fredda, mangia ghiaccio tritato, lava il basso ventre con l'aceto. Non serve a nulla; il 12 giugno 1841, decide di dormire solo quattro o cinque ore per notte, seduto su una poltrona.

La cauterizzazione della clitoride e dell'orifizio vulvare risultano procedure piuttosto insolite, e ancora di più la clitoridectomia, praticata dal dott. Robert dal 1837 e poi, alla fine del secolo, dal dott. Démetrius Zambaco. E bene infatti esercitare una certa prudenza e, pur senza negare la notevole portata di tali terrificanti pratiche, non sopravvalutarne la frequenza.

È ormai evidente quale ossessiva presenza abbia allora rappresentato il corpo nella vita privata. L'ascolto degli oscuri segnali della cenestesia, la vigile attesa dell'insorgere della tentazione, la costante minaccia cui si crede esposto il pudore, il fascino esercitato dalla trasgressione sempre possibile concorrono ad esaltarla. Si comprende meglio come si sia arrivati a coprire le «gambe» del pianoforte, a mettere al bando le «cosce» di pollo, a fuggire la vista del coito animale. Il solo alludervi alimenta un tipo di umorismo maschile di cui oggi non riusciamo a comprendere come potesse far ridere. Si formano circoli e società di canto unicamente per ridere e parlare di sesso. Il nudo profondamente nascosto crea delle allucinazioni negli uomini. Gl'invitati della contessa Sabine, una delle eroine di Nana, discettano seriamente sulla forma delle sue cosce. A paragone, la nostra così straordinaria sottomissione alle pulsioni e agli slanci del corpo, appare assai distratta, ed anche un po' disinvolta.

Conoscenza e controllo di sé

La volgarizzazione della ricerca

Mentre la letteratura scandaglia l'intimo della persona, si approfondisce il desiderio di conoscenza dell'io, la pratica dell'introspezione diviene consueta. Processi favoriti dal perfezionarsi e dal diffondersi in tutti gli strati sociali degli esercizi spirituali nati dallo zelo disciplinare post-tridentino. Paradossalmente, la procedura dell'esame di coscienza si estende proprio quando si riduce il numero effettivo dei praticanti. Una nuova capacità di comprensione degli imperativi della teologia morale consente l'accesso della massa dei cattolici ad una disciplina mentale rimasta per lungo tempo elitaria. Durante la Restaurazione si moltiplicano ritiri e missioni; tanto gli uni che le altre culminano in una confessione generale, occasione di una lunga esplorazione intima. Claude Langlois ha così mostrato come la pratica del ritiro fosse radicata nel popolo della diocesi di Vannes. Il 24 marzo 1821, riferisce Gerard Cholvy, 6.000 uomini partecipano, recando un cero, ad una confessione pubblica che costituisce il momento culminante della grande missione di Montpellier. Quasi mezzo secolo dopo, nel 1866, in occasione dell'arrivo di un gruppo di predicatori a Chasseradès, umile comune dell'inaccessibile Gévaudan, si opera un serio esame di coscienza e si aprono alla confessione i rudi contadini degli oustaux. Il persistere, per alcuni decenni, della doppia confessione e dell'assoluzione differita, la pratica della confessione generale in più momenti, intervallati da lunghi periodi d'esame, come predicava il curato d'Ars, divenuto missionario in sede durante la Monarchia di luglio, inducono a scavare accuratamente nei propri ricordi alla ricerca del peccato.

Il moltiplicarsi delle «regole di vita», «risoluzioni» sempre più dettagliate accompagnano l'approfondimento dell'analisi. Predicatori e insegnanti di scuole religiose invitano le anime pie ad acquistare questa nuova padronanza di sé. Così vengono guidati i comportamenti in seno alla vita privata. Consigliati dalle educatrici, i genitori impongono alle fanciulle di ritorno dal collegio una rigorosa disciplina, al fine di allontanare le tentazioni di una vita che appare votata all'ozio. Il commovente Cahier de résolutions della giovane Léopoldine Hugo rende testimonianza di tale influenza. Alcune anime pie esortano tutte le fanciulle a tenere un diario, semplice corollario del sacramento della confessione. A Marsiglia, Isabelle Fraissinet, di dodici anni, è costretta ogni giorno ad assolvere a questo dovere. Anche gli adulti possono fissare sulla carta i progressi della propria vita spirituale, scaricare il peso degli scrupoli generati dalle più insignificanti mancanze quotidiane. Dopo il 1850, lo sviluppo del diario femminile di conversione, di cui quello di madame Swetchine, edito da Falloux, costituisce il modello, esprime la stessa volontà di far coincidere il crescente bisogno di scrivere di sé con fini edificanti.

Il punto fondamentale è la laicizzazione delle procedure di decifrazione della persona, elaborate all'ombra dei confessionali. Il contabilizzare la propria esistenza, l'aritmetica delle ore e dei giorni, che grava sull'uomo del XIX secolo, non dipende soltanto dall'ossessione del peccato; dipende anche da quello stesso spettro della perdita che induce a tenere dettagliatissimi libri di conti dell'amministrazione domestica, che genera l'angoscia della dispersione spermatica o molto più semplicemente del quotidiano accorciarsi della vita. Tale volontà di arginare la perdita sfocia nel diario intimo.

La ricerca del diarista

Lo straordinario Essai sur l'emploi du temps ou Metode qui a pour objet de bien régler l'emploi du temps, premier moyen d'ètre heureux, redatto nel 1810, da Jullien, militare a riposo, denuncia chiaramente la sua origine. L'autore, che si appella a Locke e Franklin, il cui lavoro sarà apprezzato da Fourcroy, consiglia di dividere la giornata in tre periodi di otto ore ciascuno. Esorta a dedicare il primo al sonno, il secondo agli studi e agli «obblighi del proprio lavoro», il terzo ai pasti, al riposo e all'esercizio fisico. Egli consiglia soprattutto di tenere tre diari o «conti aperti» in cui registrare le fluttuazioni della salute, le vicissitudini morali e le pulsazioni dell'attività intellettuale. Un «memoriale analitico» ed un triplice quadro della situazione, redatto a scadenze trimestrali o semestrali, permetteranno di stendere dei successivi bilanci che sarà bene sottoporre alla revisione di un amico di buona volontà che si faccia giudice del loro sviluppo. In questo caso, il desiderio di chiarificazione interiore, unito all'ansia della dispersione, genera una pratica che non sottintende alcun dialogo con il Creatore. L'esame permanente ed ossessivo si struttura in funzione dell'auto-osservazione, del giudizio degli altri e della società. II lungo monologo interiore permette anche di controllare il proprio aspetto esteriore e, al tempo stesso, di rendersi meno conoscibile all'Altro; il necessario segreto personale contribuisce ad imporre l'introspezione.

I grandi diaristi della prima metà del secolo si sono sforzati di portare a termine questo tentativo di chiarificazione, senza alcuna ambizione letteraria. Le loro opere, che molto spesso mettono sullo stesso piano le attività lavorative, economiche, ricreative e amorose, svolgono la funzione di registri del progressivo depauperamento. Il diario intimo tenta di esorcizzare l'angoscia della morte inasprita dall'azione stessa dello scrivere. Indagare sullo sperpero della propria persona, significa individuare gli strumenti per una strategia del risparmio. «Conservando la storia di quanto io provo — scrive Delacroix il 7 aprile 1824 — vivo due volte; il passato ritornerà. Il futuro è sempre lì». Si costituisce così una memoria che consente insieme l'anamnesi e la commemorazione.

Tenere un diario è anche una disciplina interiore; alla carta viene affidata la confessione discreta. La scrittura consente l'analisi dell'intimo senso di colpa, registra gli insuccessi della sessualità come soffocante sensazione dell'inettitudine; ripropone i segreti propositi.

Molti altri fattori contribuiscono a spiegare la grande diffusione di questa pratica affascinante. Per Maine de Biran, soddisfa l'ambizione di basare la scienza dell'uomo sull'osservazione e di afferrare, a tal fine, i rapporti esistenti fra fisico e morale. L'indagine su se stessi è inoltre stimolata da tutti quei fatti storici che portano all'approfondimento del senso di identità. L'accelerazione della mobilità sociale genera, soprattutto, un senso di insicurezza. Spinge il diarista ad interrogarsi sulla propria posizione, a valutare attentamente il giudizio degli altri. La muta presenza della società incombe sulla vita privata e solitaria dell'autore del diario. Il nuovo sistema delle relazioni interpersonali condizionate dall'urbanizzazione aumenta le ferite narcisistiche, genera una frustrazione che induce a ripiegarsi nel rifugio interiore. Maine de Biran anticipa, nel 1816, tale ricerca di rivalsa psicologica; ha il presentimento di tempi in cui «gli uomini stanchi di sentire si troveranno maggiormente disposti a rifugiarsi in se stessi, a cercarvi il riposo e quella sorta di calma e le consolazioni che si trovano solo nell'intimità della propria coscienza».

Il crescente senso della proprietà non è estraneo alla nuova ricerca; è ancora una volta Maine de Biran ad avvertirlo; egli si mostra lieto del fatto che l'abate Moreliet, suo amico, abbia, nel memoriale dedicato a quest'argomento, basato il diritto di proprietà su quel possesso «che, fra tutte le facoltà, ogni uomo esercita su se stesso, (sul) proprio io».

La pratica dello scrivere di sé

Rimane da stabilire la reale proporzione di coloro che si sono narrati per iscritto. Se ci si limita ai grandi diaristi, riconosciuti dalla storia della letteratura, è una facile impresa. Molte sono le donne alle quali il codice delle convenienze proibisce di scrivere a fini di pubblicazione e che, tenendo un diario, soddisfano il loro bisogno, se non la loro rabbia di scrittura. Eugénie de Guérin riconosce apertamente di soddisfare ad un insopprimibile desiderio, e tutto porta a credere che la stessa cosa valga per madame de Lamartine, la madre del poeta.

Spesso mal inserito nella società in cui si trova a vivere, il diarista soffre dell'impossibilità di comunicare con gli altri. Inoltre, gli è difficile prendere delle decisioni. Nel maggio del 1848, all'età di ventisette anni, Amiel ordina, nel suo diario, sotto forma d'interminabile equazione, i dati di un eventuale matrimonio. «Mi invento fantasmi e impedimenti da nulla», confessa Maine de Biran, oppresso da ciò che egli chiama la «preoccupazione» — noi diremmo l'ansietà —, che attribuisce alla «mancanza di fiducia in se stesso».

In fin dei conti, il diarista non è molto lontano dall'apparire allora come un malato; certamente come un timido, o un impotente, oppresso da tendenze omosessuali che non sarebbe in grado di appagare. La microfamiglia borghese provinciale costituisce il luogo privilegiato per la nascita del diario intimo. Questa struttura favorisce l'attaccamento alla madre e all'infanzia; Beatrice Didier afferma che il diarista soffre di una forma di regressione e che la sua scrittura traduce la ricerca del rifugio nel seno materno. È innegabile che questa incombenza quotidiana protragga nel tempo gli obblighi scolastici della giovinezza: ha qualcosa del diario di scuola e del compito a casa.

Il diario in realtà è inizialmente, e forse soprattutto, una pratica. Impone una spossante fatica; si pensi alle 17.000 pagine del diario di Amiel! Per coloro che si compiacciono del monologo interiore, può anche diventare un raffinato piacere. «Quando sono solo — afferma Maine de Biran — sono molto occupato a seguire le evoluzioni del mio pensiero o delle mie impressioni, a scandagliarmi, a sorvegliare le mie disposizioni e le variazioni dei miei modi di essere, a trarre da me stesso il maggior vantaggio, a registrare le idee che mi vengono a caso o che le mie letture mi suggeriscono». In questo senso, il diario intimo completa le gioie della privacy: «Io aspiro a divenire me stesso, rientrando nella vita privata e familiare — confessa lo stesso diarista — fino a quel momento mi sento al di sotto di me stesso, non sono nulla». Tuttavia, come si può facilmente intuire, il diario è il nemico dell'intimità coniugale! Soprattutto le donne devono scrivere di nascosto. Eugénie de Guérin nasconde, persino al suo padre adorato, il quaderno che riempie la notte, nella sua «cameretta», contemplando le stelle. Tenere un diario assume i connotati masturbatoti individuati da Beatrice Didier.

Gli storici non hanno ancora ben valutato la diffusione sociale di una pratica la cui analisi rimane monopolio degli specialisti della letteratura. Inoltre, l'estrema fragilità di questi documenti induce, indubbiamente, a sottovalutarne la portata. Molti indizi inducono infatti a supporre che il diario intimo faccia da contrappunto ad un gran numero di vite private. La pratica è in uso anche presso la piccola borghesia, come testimonia il testo di P.H. Azaïs, modesto autodidatta parigino; il diario si presenta in quest'ambiente come una lontana filiazione del registro di famiglia, qualcosa che affianca il libro dei conti. Si può immaginare che legioni di fanciulle abbiano trovato così uno sfogo. Caroline Brame, le cui carte sono state trovate al Mercato delle Pulci, Marie Bashkirtseff non sono certo esempi isolati; né tantomeno Isabele Fraissinet.

Conviene sottolineare, in merito, la moda diffusissima dell'album ricordo. Al tempo della Monarchia di luglio, scrive Pierre Georgel, ogni ragazza di buona famiglia ne possiede uno, da presentare agli ospiti. È Lamartine ad inaugurare quello di Léopoldinc Hugo. Fino all'età di tredici anni, Didine vi narra i suoi giochi, i suoi sogni di bambina, le sue letture; in seguito vi scopriamo i sospiri e le dichiarazioni dei primi ammiratori verso i quali la fanciulla si fa man mano più attenta. Da quel momento comincia a preoccuparsi delle toilettes, annota i balli, gli spettacoli ai quali si reca e scrive le sue impressioni di viaggio. L'album ricordo è un contenitore; vi si incollano foglietti con brevi appunti; vi si conservano cartoline illustrate; dopo il matrimonio, l'album ricordo verrà conservato insieme ai quaderni nel nuovo museo degli archivi familiari.

In ambiente popolare, equivalenti simbolici dell'album ricordo, se non del diario, assolvono alla stessa funzione. Il corredo ricamato dalla ragazza da marito non può forse essere considerato come una attenta scrittura di sé e dei sogni per il futuro? In ogni caso, la sua funzione va molto al di là della semplice volontà di possedere una riserva di biancheria dopo il matrimonio. Agnès Fine mostra con quanta cura le fanciulle della regione dei Pirenei filino, ricamino e siglino con il filo rosso questo tesoro che, in seguito, non verrà mai utilizzato. La figlia lo riceverà in eredità, ma si sottoporrà anch'essa a questo rituale, sebbene non ne abbia alcuna necessità pratica. Si spiega così l'estrèmo attaccamento della donna a tale accumulazione simbolica. In Icaria si accuserà Cabet di voler confiscare i corredi. Dando un gran rilievo, nella narrazione, al baule della biancheria che Gilliat eredita da sua madre, l'autore dei Travailleurs de la mer intende proprio individuare un elemento primario della sensibilità popolare.

La moderazione delle ambizioni

La ricerca retrospettiva dell'io cui si abbandona il diarista suscita il rimpianto, acutizza la nostalgia, ma, seguendo lo stesso andamento, valorizza l'aspirazione e fa emergere l'immaginario della costruzione di sé. Il che invita a ripercorrere la storia dell'ambizione, purtroppo sempre avvolta da nebbie. Un fatto tuttavia appare evidente: le prefigurazioni dell'avvenire appaiono governate da una grande moderazione; tale prudenza contraddice l'immagine superficiale di un secolo durante il quale si sarebbero scatenati gli appetiti. In effetti non bisogna dimenticare il fascino della riproduzione e la forza dei meccanismi che la incoraggiano. La diffusione del patronato, il sistema della «raccomandazione», insomma il peso delle relazioni e l'intrico delle strategie familiari frenano a lungo l'affermarsi di una meritocrazia che, anche dopo il trionfo della Repubblica, non avrà un grande sviluppo. Il timore di un soverchio affaticamento, degli eccessi, ribadito dai medici, contribuisce, come fa notare Théodore Zeldin, a moderare le ambizioni. A ciò bisognerebbe aggiungere l'influenza della cultura classica degli umanisti i cui effetti sono stati minimizzati a causa di un condiscendente disprezzo. Quanti uomini maturi, lettori di Orazio, hanno ricercato soprattutto l’otium, e praticato il carpe diem, come quei prefetti dediti alla poesia descritti da Vincent Wright oppure come il presidente di Neuville, il magistrato messo in scena da Duranty in Le Malheur d'Henriette Gerard. L'aspirazione alla pubblica stima, testimoniata dall'ossessione dell'onoreficenza, ha spesso la meglio, in quel tempo, sul desiderio di ricchezza; e la difficile posizione dell'arricchito pone bene in risalto come la mobilità sociale non sia soltanto un problema di censo.

Si comprendono meglio allora alcuni risultati della storia quantitativa; e in primo luogo la costante attrattiva esercitata dalle professioni liberali e dall'impiego statale. Un'inchiesta ordinata da Duruy nel 1864 presso gli alunni dei licei classici della provincia, mostra che in questo ambiente le ambizioni giovanili si indirizzano verso lo studio del diritto, della medicina e verso l'Accademia militare di Saint-Cyr. Ad ogni modo, la borghesia preferisce la funzione pubblica al mondo degli affari. Christophe Charle dà un'esatta valutazione della solidità dei meccanismi di riproduzione e della continuità dell'attrazione esercitata dall'impiego statale di alto livello. Il Politecnico e le altre grandi scuole esercitano un forte potere di richiamo, per quanto non si sia ancora diffusa la pratica del quieto vivere e che, di conseguenza, una carriera di questo tipo sia ben lontana dall'assicurare grandi mezzi economici.

In ambiente operaio, l'orgoglio della propria abilità, il prestigio della padronanza del mestiere limitano il desiderio di evasione sociale; il che contribuisce a chiarire tanto l'ampiezza dell'endogamia tecnica che la scarsa incisività della promozione. La frequenza dei mutamenti professionali che si verificano da una generazione all'altra non deve in questo caso trarre in inganno sulla predominante stabilità degli statuti sociali.

Tuttavia Jacques Rancière ha messo in evidenza la notevole portata dell'esperienza vissuta fra il 1830 e il 1850, da una minoranza di lavoratori colpiti da un disagio di nuovo tipo. Sensibili alla sofferenza che il lavoro provoca sottraendo il tempo della vita, questi individui che non si sentono affatto votati allo sfruttamento patiscono di una sorta di eccesso di identità, da cui tentano di liberarsi abbandonandosi a veri e propri «deliri fra quattro mura». Le notti di questi proletari, popolate dai sogni per il futuro, sono ossessionate dal paradiso dell'identità. Una tensione minoritaria avvertita da lavoratori che vivono come operai ma che si sforzano di parlare e scrivere come borghesi; e ciò a prezzo di un'immane fatica fatta di difficili letture, di ore e ore passate a copiare e ad imparare lezioni a memoria. Il numero, nettamente più elevato di operai parigini che, durante la Monarchia di luglio, s'impegnano a seguire delle scuole serali è un indizio del propagarsi di tale ambizione proletaria. La storia dei casi singoli interviene a modificare in questo caso i dati muti della quantificazione e a documentarci sulla genesi del desiderio.

Anche le popolazioni delle campagne si aprono lentamente al sogno dell'avvenire individuale; in certi passi la cui traccia va ricercata più spesso nei gesti che nelle parole. Così, l'atroce delitto di Pierre Rivière ha potuto essere interpretato come il segno della presa di coscienza individuale di un disagio collettivo. La formulazione delle ambizioni individuali disgrega lentamente, e in maniera assai diversificata a seconda dei regimi cui sono sottoposte, le strutture familiari; disturba le strategie patrimoniali e interviene, molto a proposito, a risolvere il problema costituito dai cadetti nella famiglia patriarcale. Secondo Gregor Dallas, che studia la civiltà contadina della regione di Orléans, il progredire dell'individualizzazione allenta il legame che univa la madre ai figli, accentua il senso d'insicurezza e distrugge un'«economia contadina» che avrebbe potuto altrimenti resistere alle trasformazioni economiche. Qui, la famiglia, invece di far cerchio intorno al bambino-re, si disperde a causa dell'affievolirsi dei rapporti affettivi. È facile trovare molti altri esempi di questo crescente disinteresse nei riguardi dei propri familiari, di un tale deterioramento dei sentimenti. Un esempio fra i tanti: dall'epoca della Restaurazione in poi, l'emigrante della regione della Creuse comincia a non voler versare al padre l'ammontare delle proprie economie; presto, trascorrerà molti anni lontano senza tornare per riabbracciare la madre e le sorelle.

I giovani contadini sono tormentati da tre tipi di ambizione, articolate secondo sottili gerarchie interfamiliari, e in particolare secondo il posto occupato rispetto agli altri fratelli: 1°, il desiderio di acquisire la posizione di proprietario, progetto tradizionale, più facilmente realizzabile che nel passato, come dimostrano l'aumento del valore della terra, il frazionamento dei patrimoni e la ripresa dei grandi interventi di dissodamento; 2°, il desiderio di elevarsi ad una di quelle poche professioni intermedie, come quella di mugnaio o soprattutto di oste, che, secondo quanto ha dimostrato Ronald Hubscher a proposito delle campagne del Pas-de-Calais, costituiscono indispensabili trampolini di lancio per l'affermazione sociale; 3°, l'emigrazione definitiva verso la città; esperienza d'esilio i cui rischi vengono ad essere temperati da quei canali di solidarietà, accoglienza, aiuto nel trovare un posto di lavoro o stabilire dei contatti, quasi sempre a base regionale, strutturatisi con il tempo nella città. Là si elaboreranno nuovi percorsi, nuovi itinerari che consentiranno alla generazione successiva di intraprendere una vera e propria scalata sociale. Esemplare in proposito, il caso degli emigrati dell'Auvergne, messo in luce da Françoise Raison.

Gli aspetti della vocazione

Stiamo attenti a non dimenticare la vocazione, vertice della scala delle ambizioni, il cui irreprimibile carattere costituisce spesso un elemento di perturbazione — o esaltazione — della vita privata delle famiglie del XIX secolo. Il modello della vocazione religiosa esercita infatti un richiamo maggiore, come dimostra, ancora una volta, l'aumento del numero degli ecclesiastici fino agli inizi della Terza Repubblica. L'area sociale del reclutamento varia talmente da diocesi a diocesi che non sembra possibile tentarne una sia pur sommaria sintesi. Tutt'al più si può genericamente evidenziare la progressiva «ruralizzazione» del clero. Spesso il primo richiamo viene avvertito alla vigilia della prima comunione, in concomitanza con quella crisi mistica così ben descritta da George Sand, a distanza di tempo, e vissuta con tanta intensità dall'infelice Caroline Brame. Dopo il 1850, l'esaltazione della figura dell'angelo, l'incremento del culto mariano, la promulgazione del dogma dell'Immacolata Concezione, l'ondata devozionale che porta ad esaltare la personalità di santi fino ad allora trascurati ed il riflusso del precedente antimisticismo concorrono ad esacerbare un sentimentalismo giovanile compresso nelle sue pulsioni dal clima di negazione del corpo. La grande epopea delle apparizioni della Madonna, che si dispiega da La Salette (1846) a Pontmain (1871), è prova della presenza celeste e fa aumentare la frequenza delle vocazioni.

Conviene anche riflettere sul contemporaneo manifestarsi di un_ aspetto laico della vocazione. Alcuni politici borghesi, apostoli populisti, testimoniano con la loro vita la reale esistenza di tale transfert. Il ricchissimo quarantottardo Charles-Ferdinand Gambon passa quindici anni della propria vita nelle prigioni, resiste alle suppliche della famiglia e della fidanzata, sopporta pazientemente le sottili sevizie dei carcerieri, ma non si piega a impetrare la grazia imperiale; finalmente libero, dedica alla causa repubblicana il resto della sua vita. Molti militanti operai, che vivono un vagabondaggio quasi apostolico, molte femministe, che decidono di rimanere vergini o almeno nubili, molti insegnanti ascetici plasmano, più o meno coscientemente, la propria condotta sull'antico modello della vocazione religiosa. Françoise Mayeur, già da molto tempo, ha posto in evidenza l'aspetto conventuale della Scuola normale di Sèvres. Sarà senz'altro utile riesaminare, nella prospettiva della consacrazione del privato e della sua dissoluzione nel sogno collettivo, le innumerevoli voci del Dictionnaire du mouvement ouvrier pubblicato dall'infaticabile Jean Maitron.

Nel frattempo, un dato emerge con chiarezza, quale segno distintivo di quest'abbozzo di una storia dell'ambizione: la frequenza e la portata della delusione. Nel 1864, gli allievi del liceo classico sognano di diventare generali, grandi imprenditori o direttori di un ufficio; si ritroveranno amministratori, impiegati del registro, apprendisti usciere. La delusione del diplomato è simmetrica a quella della giovane donna, borghese o contadina che sia; sogna il Principe Azzurro o il bel ragazzo ma ben sa che la strategia matrimoniale, di cui ha interiorizzato gli imperativi, la getterà fra le braccia di uno scapolo infiacchito o di un malinconico stupidone.

II viaggio e i vagabondaggi dell'anima

La nuova esperienza dello spazio

Durante la prima metà del secolo, si compie una rivoluzione nel modo di viaggiare. Si elabora una nuova esperienza destinata a ricoprire un ruolo primario fra i sogni della vita privata. Al modello classico dell'itinerario calmo e sereno, intervallato da lunghe soste nelle città, che portava il turista a godere delle opere d'arte e delle visite ai monumenti, si sostituisce gradualmente un modo di viaggiare diverso, iniziato alla fine del XVIII secolo e di cui le escursioni di Saussure sulle Alpi, i lunghi percorsi di Ramon de Carbonnières sui Pirenei o quelli di Cambry nel Fi-nisterre hanno tracciato il modello. Scopo principale è quello di far vibrare la propria individualità, arricchirla di una esperienza nuova dello spazio e degli altri, vissuta al di fuori del quadro consueto. Il viaggiatore ama confrontarsi con scenari grandiosi, con paesaggi sublimi. Dall'alto dei dirupi, in prossimità dei gorghi, egli va a rintanarsi sulle pendici dei monti, a mezza strada fra le cime soleggiate e la valle rassicurante. Le sue letture lo invitano a paragonarsi al buon selvaggio che abita questi luoghi solitari. L'immagine dell'highlander di Wavarley, dell'Indiano di La Prairie o delle rive del Messachebé dà origine ad un'etnologia elementare e intessuta di apparizioni fantastiche. Gli studiosi dell'Accademia Celtica e, poco dopo, gli archeologi delle società scientifiche individuano per il viaggiatore le tracce di un passato profondamente impresso nel suolo e suggeriscono misteriose corrispondenze fra il mondo minerale, vegetale e umano.

I turisti ammassati nelle stazioni termali intraprendono, a gruppi, la scalata delle prime pendici delle vicine montagne. Dal 1816, Maine de Biran si avventura fra i Pirenei, seguendo l'itinerario di Ramond de Carbonnières. Le guide turistiche pubblicate durante la Monarchia censitaria indicano i «punti di vista», poi i «panorami»; introducono, al pari delle descrizioni letterarie del pittoresco, una nuova propedeutica dello sguardo, presto amplificata dalla scoperta dell'istantanea fotografica. Cambiano gli itinerari: la Bretagna, la Normandia e i Paesi baschi cominciano a sembrare attraenti, malgrado la precarietà del sistema alberghiero. Durante la Monarchia di luglio e il Secondo Impero i nuovi modi di viaggiare diventano più consueti, con un ben comprensibile spostamento cronologico. Mentre i buoni borghesi di Rouen intraprendono il viaggio in Svizzera, Perrichon va a rischiare la vita sui ghiacciai delle Alpi francesi.

Anche la semplice passeggiata subisce delle trasformazioni. Il desiderio del rifugio in cui si va a cercare l'emozione delle vibrazioni interiori e la consolazione del sereno spettacolo della natura, insomma, l'esperienza di Rousseau all'isola di Saint-Pierre conserva il suo prestigio, ma si rinnova. La grotta, la campagna sconvolta dal vento, le spiagge battute dalle onde, il promontorio sul quale si erge il faro diventeranno presto gli scenari privilegiati della contemplazione. La lettura di René e di Dominique spingono all'adozione dei nuovi comportamenti. Jean-Pierre Chalin nota che, per la buona borghesia di Rouen, nonostante la vicinanza della spiaggia, le lunghe passeggiate e le solitarie fantasticherie attraverso i boschi, costituiscono la migliore vacanza.

Tuttavia, a partire dal tempo della Monarchia di luglio, si va elaborando una nuova forma di esperienza, come testimonia il viaggio in Bretagna di Flaubert e Maxime du Camp. È ormai sparita l'attenzione alle rivelazioni del suolo, l'indagine metafisica ed etnologica, l'ansia di scoprire delle corrispondenze. Aumenta, invece, la disponibilità ad accogliere le sensazioni e i messaggi della cenestesia; in questo nuovo tipo di viaggio il corpo appare maggiormente coinvolto. L'abitudine alla gita in campagna delle ragazze addormentate sulle rive della Senna del dipinto di Courbet e dei canottieri delle novelle di Maupassant, la scoperta della spiaggia dove si viene a godere dell'aria e del fresco, non ancora del sole, le audacie del bagno di mare a tredici gradi di cui Didine narra, nel suo album ricordo, le forti sensazioni, documentano questa prima tappa del corpo che si libera dagli indumenti.

A ciò si deve aggiungere il ruolo iniziatico assunto, per il giovane colto, dal grande viaggio verso «l'Oriente», cioè verso la Spagna, la Grecia, l'Egitto o il Bosforo; come pure la diffusione, e poi lo scadimento sociale del viaggio di nozze; tempi di una duplice iniziazione, sintesi di antiche usanze, che spinge le giovani coppie verso Venezia e Tunisi come verso le rive della Bretagna o i fiordi della Norvegia.

Il viaggio è sempre un'avventura; impone una collezione di oggetti ricordo di cui a stento oggi possiamo immaginare l'importanza. L'indispensabile album pieno di impressioni frammentarie e di schizzi ispirati alla moda del Voyage pittoresque, i numerosi taccuini e resoconti pubblicati dai grandi scrittori, da Stendhal a Flaubert, da Gautier a Nerval, dimostrano l'intensità dell'esperienza. Bisognerà tuttavia attendere i treni turistici e soprattutto il momento dei grandi pellegrinaggi, cioè l'offensiva sferrata fra il 1871 e il 1879 dagli assunzionisti, perché le masse contadine possano a loro volta provare quelle emozioni che, da quasi un secolo, arricchivano spiritualmente le classi elevate.

In città, l'apparire del personaggio del «passeggiatore», individuato da Victor Hugo e analizzato da Baudelaire, mostra al tempo stesso il cambiamento dello spazio pubblico e l'affermazione della privacy. Girovagando nel paesaggio di pietra delle città, questi inaugura le strategie di privatizzazione che si andranno sviluppando all'interno dello spazio pubblico; in tal senso egli appare come una figura di transizione. Nella sua esplorazione della città, egli preferisce infatti quegli spazi che gli permetteranno di ricostituire le condizioni della vita privata; la strada stessa tende a riprodurre per lui l'immagine dell'appartamento. L'aumento dei passaggi chiusi creati dalle soluzioni urbanistiche all'epoca della Monarchia censitaria, le piccole nicchie dei caffé facilitano l'elaborazione di questi nuovi comportamenti, proponendo al passeggiatore interni fittizi. Quando, sotto la prefettura di Haussmann, Parigi subirà una profonda trasformazione, la stazione ferroviaria e soprattutto i grandi magazzini, nuovi labirinti di circolazione della merce, offriranno al personaggio l'ultimo rifugio. Divenuto una figura insolita, il passeggiatore finisce per lasciare il marciapiede al passante. Il pedone frettoloso, preoccupato di assicurarsi il benessere, con la mente assorta nei propri pensieri, non può più prestare attenzione allo spettacolo della strada; per lui questa non rappresenta più un prolungamento della propria dimora.

I sentieri della fantasticheria

Conosciamo il coraggio dei romantici nel rinnovare l'immaginario, moltiplicare i percorsi della fantasticheria, arricchire le modalità del monologo interiore, invitando i lettori alla meditazione, alla contemplazione, e anche all'estasi mistica. Qui non possiamo che tracciare le tappe di questo prodigioso rinnovamento. Al tempo della Restaurazione trionfa la fantasticheria fatta di sensazioni, immersi nella natura, proposta da Rousseau, arricchita da Lamartine, che permette alla coscienza di abbandonarsi alle fluttuazioni della vita interiore. Il pensiero della morte, il tema dello sfuggire del tempo al cospetto delle vestigia del passato, la contemplazione dell'oceano o della notte stellata, l'ascolto del canto dell'usignolo fanno da scenario alla meditazione.

Dopo il 1830 i percorsi dell'immaginazione si fanno più ampi; la fantasticheria nutrita di sensazioni decade a vantaggio della fantasticheria affabulatrice e straniante che dà libero sfogo all'immaginazione avida di proiettarsi verso paesi esotici o verso un lontanissimo passato.

Resta da stabilire in quale misura questi temi letterari abbiano alimentato l'attività pratica. Evidentemente, l'accrescersi delle barriere che proteggono la segretezza della vita privata, la diffusione di nuove discipline somatiche come pure un maggior rigore nella gestione del proprio tempo non hanno potuto che incitare alla fuga sui sentieri dell'immaginario. Le fanciulle, particolarmente soggette a un sistema coercitivo, si lasciano tentare da sogni d'amore spirituale; se non altro, il romanzo epistolare continuerà a riproporre per tutto il secolo questa immagine, da Balzac a Edmond de Goncourt e Marcel Prévost. L'inaccessibilità della vergine, l'isolamento del collegio, mentre favoriscono le pratiche della degradazione sessuale, inducono anche il giovane uomo a sognare la diafana silfide immaginaria. La gracile figura intravista in chiesa, l'ovale perfetto di un volto apparso nel riflesso di una vetrata sono sufficienti a dar corpo a questi fantasmi.

Negli archivi della vita privata giovanile si ritrovano molte tracce di tale inclinazione. Le passeggiate al cimitero di Eugénie de Guérin sembrano ispirate, fin nei gesti, dall'iconografia della morte e la fanciulla. II «quaderno di stile» di Léopoldine Hugo mostra come fra i sedici e i diciassette anni la fanciulla eccellesse nelle «dissertazioni del pensiero», rivelando in lei una straordinaria maturità nell'esercizio della meditazione. Uno di questi testi intitolato Le soir non è che una lunga analisi di questo stato di sogno. George Sand ricorda come, durante l'adolescenza, lasciava che la sua fantasia ricreasse il parco di Versailles, pur non avendolo mai visto. In seguito, la giovane Aurore prende l'abitudine di abbandonarsi alle illusioni di un momento, di perdersi dietro ai più folli pensieri; in lei, la fantasticheria straniante tende a diventare una mania. Accreditando in tal modo la ben nota estraneazione verginale, di cui vanno dissertando i medici. In questo senso va interpretata anche la tentazione flaubertiana per la vita sognata e non vissuta di cui è purtroppo impossibile valutare la portata sociale.

Diversificazione delle immagini oniriche

L'aumento del bisogno onirico individuato da Jacques Bousquet spiega l'estrema attenzione di cui in quel secolo sono fatte oggetto le procedure del sogno sentito come il nucleo più segreto della persona, protetto da molteplici strati della vita diurna. Al fine di evitare ogni anacronismo, è necessario ricordare in proposito alcuni dati che l'influenza delle teorie freudiane ha fatto perdere di vista. Durante i primi decenni del XIX secolo, i filosofi s'interrogano soprattutto sullo statuto notturno dell'anima; Maine de Biran pensa che dorma anch'essa; Jouffroy, al contrario, crede che vegli; Lélut, che riposi; secondo i romantici, il sogno rappresenta per lei una vera e propria resurrezione. La manifestazione onirica non è altro che l'espressione della profondità dell'essere.

L'importanza attribuita dagli ideologi alla cenestesia e all'influenza del fisico sul morale rimane per lungo tempo alla base delle spiegazioni scientifiche dei meccanismi onirici. Questa induce a privilegiare il ruolo dei messaggi organici, viscerali o celebrali, e a porre contemporaneamente in evidenza l'influsso delle preoccupazioni della giornata e di quanto rimane delle sensazioni diurne. Da ciò le distinzioni operate da Maine de Biran e poi da Moreau de Tours, Alfred Maury o Macario fra sogni sensoriali, affettivi e intellettuali.

Fra il 1845 e il 1860 una pleiade di scienziati francesi individua una nuova prospettiva del fenomeno; per loro il sogno non è altro che uno dei molteplici meccanismi di regressione e dissoluzione delle forme superiori dell'attività psichica, che viene quindi ad essere relegato nel campo della patologia accanto al delirio e la follia. Da allora in poi i ricercatori si interessano in modo particolare al sonnambulismo come al processo ipnagogico, cioè a quelle sensazioni indistinte che si manifestano nella fase immediatamente precedente al sogno, quando si dissolve la coerenza del pensiero. Tanto l'opera di Moreau de Tours, De l'identité de l'état de rève et de la folie (1855), quanto il fascino esercitato dall’Aurélia di Nerval mostrano la psichiatrizzazione delle analisi. Si elabora allora una scienza del sogno che, almeno in Francia, dominerà incontrastata fino all'avvento della psicanalisi.

Più delicato appare il problema della storicità della fenomenologia del sogno e della differenziazione sociale delle manifestazioni oniriche. Jacques Bousquet apre il dibattito con un'affermazione perentoria. Secondo lui «soltanto dopo il 1780 gli uomini cominciano a sognare le strane scene, i giochi bizzarri privi di significato» che formano la trama delle manifestazioni oniriche contemporanee. Seguendo la sua opinione, è alla fine del XVIII secolo che sarebbe avvenuto uno sconvolgimento sia nella forma che nel contenuto e nella funzione del sogno.

Comunque sia, tutti gli specialisti concordano nel porre in evidenza la scomparsa del sogno premonitore. Il futuro cessa di polarizzare l'attività onirica. Secondo George Steiner, l'affermarsi della cosmologia newtoniana e, in seguito, dell'evoluzionismo di Darwin non consente più di cercare i segni del futuro nell'oscurità della notte individuale. Detto ciò, il successo di cui continuano a godere, per tutto il secolo, le Clés des songes diffuse dai venditori ambulanti fra il popolo documentano, in questo caso, lo scarto comportamentale e la persistenza di credenze arcaiche.

Un altro dato: il ripiegarsi del sogno verso il passato individuale. I romantici indirizzano in questo senso, essi che considerano il sogno un ritorno alle radici stesse dell'essere di cui i primi anni della vita conserverebbero la traccia. Tale evoluzione concorda con la rivalutazione dell'infanzia che sta per compiersi all'interno della cellula familiare.

Più incerte appaiono le sorti dell'onirismo erotico, per quanto riguarda le forme che va assumendo. Se ci si limita alla tradizione letteraria del sogno, questa chiara manifestazione del desiderio appare in regresso fin verso il 1840-1850, sostituita dalle immagini dell'amore platonico. L'attività onirica accompagna in tal modo i percorsi della fantasticheria diurna. In seguito si verifica una netta ripresa dell'erotismo, si sviluppa il sogno salace, postribolare, del genere di quelli narrati, ad esempio, da Flaubert. Secondo l'opinione di Chantal Briend, quest'ondata si manifesta fra il 1850 e il 1870; le suggestioni dell'amore venale e le licenze della festa imperiale ossessionano anche il sonno. Alfred Maury vede nella ripresa dell'erotismo la manifestazione di un bisogno di «decompressione» (sic), indotto dal tentativo in corso di cancellazione del corporeo. In realtà, un totale sincronismo si stabilisce fra questo dominio onirico del sesso e l'affermarsi dell'angelismo. I più colpiti dalla tentazione del sogno erotico saranno le donne isteriche ed i giovani illibati — e qui si ritrova il dramma delle perdite seminali involontarie —, come pure «le persone che si dedicano al lavoro intellettuale e alla meditazione» (Macario). Alcuni sogni notturni riferiti da Edmond de Goncourt e, ancor più, le scene oniriche di incesto riportate da Jules Renard nel suo diario mostrano l'acuta percezione della relazione intercorrente fra sogno e desiderio sessuale, nel momento in cui inizia a sorgere la psicanalisi.

Va inoltre sottolineata la frequenza del tema onirico del viaggio, della diligenza, del treno e dell'evocazione del paesaggio; la qual cosa tende a confermare la pregnanza della nuova esperienza dello spazio. Lo stesso Alfred Maury sogna paesaggi maestosi e quadri contemplati durante i suoi viaggi; non meno di sei città ricompaiono con frequenza nei sogni da lui narrati; a proposito di una sua particolare sensazione ipnagogica, confessa: «E in particolare durante i viaggi che vado soggetto a queste allucinazioni pittoresche».

Sarebbe interessante stendere il repertorio dei temi politici del sogno: da parte mia, noto che l'epopea rivoluzionaria torna in quel periodo come un leit-motiv negli scritti degli specialisti; testimonianza inconscia delle profondità dello stato ansioso? Il sogno della ghigliottina, vissuto da Maury e ripreso da Bergson, è ormai celebre, come quello delle pinze da fuoco, ispirato allo stesso Maury dall'episodio delle giornate di giugno; ma forse vanno considerati come due di quei sogni sadici di cui Chantal Briend osserva la proliferazione alla fine del secolo scorso...

Queste scarne considerazioni appaiono piuttosto sconnesse rispetto all'imponente struttura costruita da Jacques Bousquet, sulla base dell'analisi di varie centinaia di sogni letterari. Secondo l'autore, dalla fine dell''Ancien Regime, il patrimonio di immagini o-niriche, fino a quel momento strettamente limitate alle evocazioni del paradiso e dell'inferno, si è progressivamente diversificato. Nella linea dell'Eden si collocano i sogni di giardini, poi le visioni di paesaggi naturali; all'inferno si connettono le visioni di sotterranei e città, come pure tutti i sogni angosciosi che rientrano fra i deliri studiati dalla psichiatria; è a questa che bisogna attribuire il rinnovarsi delle forme dell'incubo. In tal modo si sarebbero propagate, all'interno del sogno, le scene d'inibizione, le azioni involontarie e gli episodi di sdoppiamento della personalità. Dopo il 1850, le due serie finiscono lentamente col confluire l'una nell'altra e confondersi, mentre si compie la laicizzazione del sogno. Da quel momento può aver libero sfogo l'onirismo contemporaneo dell'assurdo e del bizzarro.

Quest'affascinante percorso, come le brevi note che lo precedono, mira ad accreditare l'ipotesi, antifreudiana. della storicità del sogno. In effetti, non si può non rimanere colpiti dalle numerose concordanze che si verificano fra storia dell'immaginario ed evoluzione dei contenuti onirici.

Mediatori del colloquio particolare

La preghiera solitaria e la meditazione

Lo studio quantitativo sulla diffusione del libro di preghiere condotto da Claude Savart impone la prudenza: in pieno Secondo Impero, continua ad essere preponderante la riedizione di opere antiche. Tale continuità apparirebbe senza dubbio maggiore se l'analisi concernesse le opere divulgative destinate al popolo. Ciò fa pensare che il sentimento religioso e le forme della preghiera individuale si siano evolute molto lentamente. Le tecniche dell'esercizio spirituale sono ancora rigorosamente ispirate ai maestri del passato. L'Imitazione di Cristo, nella nuova traduzione di La-mennais, rimane a lungo il testo maggiormente diffuso fra i ferventi cristiani. Il «buon curato» di Ars propone il modello di un eclettismo spirituale, atemporale, che opera una sintesi fra diversi modelli di santificazione, e la pia Eugénie de Guérin legge ancora con devozione sant'Agostino, san Francesco di Sales, Bossuet e Fénelon. I missionari dell'epoca della Restaurazione, sempre pronti a minacciare le pene infernali, s'ispirano ai toni drammatici dei predicatori d'altri tempi. Il romantico, affascinato dalla morte, può commuoversi ai terribili accenti di Tertulliano o di san Bernardo, e ovviamente, la meditazione sui fini ultimi rientra fra le nuove rappresentazioni della malinconia.

Poste queste riserve, non si potrebbe negare l'aspetto originale della devozione nel XIX secolo; argomento poco trattato dalla sociologia religiosa, totalmente presa dal valutare la portata della scristianizzazione. L'analisi delle intenzioni della preghiera e delle testimonianze della gratitudine porta a sottolineare la maggiore specificità e la familiarizzazione delle preoccupazioni che suscitano la richiesta di soccorso. Al considerevole numero di richieste di guarigione personale, di buona riuscita di un viaggio per mare o di salvezza per il soldato vanno ad aggiungersi le preghiere per la conversione e la salute del marito o del fratello, per la prosperità degli affari o per il buon esito degli esami; a tale proposito, la testimonianza dei colleghi del curato d'Ars concorda con i risultati ottenuti da Bernard Cousin. Nel XIX secolo Yex-voto ha il suo momento di massima diffusione; in Provenza, il suo declino comincia soltanto a partire dal decennio 1870-1880; questo tangibile segno di riconoscenza reca l'impronta delle preoccupazioni della piccola borghesia, per la quale è divenuto una forma privilegiata d'espressione. La crescente attenzione rivolta alla persona del beneficiario appare inoltre in accordo con quell'affermazione dell'individualismo, in cui ci siamo costantemente imbattuti.

La diffusione della preghiera per le anime del purgatorio costituisce un'ulteriore testimonianza della familiarizzazione della richiesta di soccorso; è in questo periodo che il culto diviene realmente popolare. Per alleviare le sofferenze dei morti della propria famiglia, di cui crede di udire le invocazioni, il figlio devoto fa celebrare messe, si comunica, prega più intensamente, si sforza di guadagnare delle indulgenze. Nel 1884, un curato di campagna, l'abate Buguet, che si attribuirà l'appellativo di «commesso viaggiatore delle anime del Purgatorio», fonda a La Chapelle-Montligeon l’«Oeuvre expiatoire», destinata ad avere un enorme successo; nel 1892, conta già tre milioni di iscritti. Questo slancio imponente rivela il bisogno della presenza del defunto sul luogo della vita; sentimento evidenziato anche dall'esplodere della moda dello spiritismo in ambienti culturalmente elevati all'inizio del Secondo Impero. Dopo la codificazione del culto familiare dei morti aumenta il desiderio di evocare coloro che sono scomparsi. Da ciò si comprende come si sia cessato di porre l'accento sulle fiamme del purgatorio e come il teatro del supplizio temporaneo si vada poco per volta trasformando in una specie di rassicurante «parlatorio» (Philippe Ariès).

Mentre aumenta l'agnosticismo e si afferma il libero pensiero, s'impongono nuove tappe della vita spirituale, nuovi riti di passaggio dell'anima. Un numero sempre crescente d'individui vive l'esperienza della perdita della fede. Anche in questo campo si accentua il dimorfismo sessuale. Soprattutto il giovane si sente in dovere di misurarsi nella lotta con il dubbio fra i sedici e i venticinque anni, al momento di entrare a far parte del mondo degli adulti. Impronta persistente di un passato rivoluzionario, una tragica figura si erge sullo sfondo di ogni coscienza, scuotendola alle radici: quella dello spretato che si fa beffe del sacerdozio; è un personaggio che ispirerà a Barbey d'Aurevilly il più sconvolgente dei suoi romanzi. A fronte grandeggia la figura del convertito. La nuova categoria di ferventi cristiani che guida la riconquista della fede riceve un maggiore conforto nel riportare alla memoria quest'esperienza individuale che imprime un nuovo indirizzo all'esistenza. Da madame Swetchine (1815) a Ève Lavallière, la «cantharide mauve» (1917), da Huysmans a Claudel, inginocchiato ai piedi dell'altare di Notre-Dame, una schiera di convertiti illustri, folgorati dalla fede, aiuteranno a sopire i terrori del dubbio e le angosce della solitudine morale.

L'esaltazione del dolore

Al di là di queste considerazioni generali bisogna, ancora una volta, dividere il secolo in due periodi distinti. Il primo è contraddistinto da una sensibilità barocca culminante con la Restaurazione e dominata dall'esaltazione del dolore. Ne danno prova l'iconografia e la letteratura che fanno da supporto alla preghiera. Le realistiche descrizioni delle sofferenze del Cristo si esasperano fino a rasentare il sadismo. La pubblicazione, nel 1815, de l'In-térieur de Jesus et Marie di Grou, e la traduzione, nel 1835, delle Visions d'Anne-Catherine Emmerick sur la vie de Jesus et sur la douloureuse Passion segnano i limiti del periodo. L'agonia nell'Orto degli ulivi suscita pagine terribili. In questi scritti, ispirati dalla scuola neo-lamartiniana, il sangue scorre, zampilla e ricopre il corpo del Cristo crocifisso. Il cuore si cinge di una corona di spine. Si diffondono immagini del Cristo che indica la piaga aperta nel costato. I romantici fanno anche del Bambino Gesù un'immagine di sofferenza; è in questo periodo che nasce l'iconografia del Sacro Cuore di Gesù con l'immagine del Bambino circondata da una sanguinante corona di spine. Anche il culto di Maria è coinvolto in questo clima; Nostra Signora dei Sette Dolori e l'immagine dello Stabat metter focalizzano la devozione mariana. Ancora nel 1846, la Madonna de La Salette reca i simboli della Passione.

Le pratiche devozionali riflettono questa sensibilità tragica, rafforzata dalla convinzione che il sangue del Cristo fluisca incessantemente all'interno della storia. Molte sono le donne, anche giovani, appartenenti o meno agli ordini terziari, che, seguendo l'esempio di religiosi celebri, indossano un camice penitenziale, un cilicio o terribili cinture metalliche. Il curato d'Ars flagella il proprio «cadavere», mentre Lacordaire si fa calpestare e sputare sul volto. L'imitazione di Cristo non basta più; le nuove preghiere esaltano il tema dell'entrata in un ideale rifugio. Il desiderio di abitare nel Cuore di Gesù, di giungervi attraverso la contemplazione delle sue ferite, vi viene continuamente ripetuto. La pratica della Via Crucis dipende dallo stesso tipo di sensibilità; questa, tuttavia, avrà ampia diffusione solo durante la seconda metà del secolo, come dimostrano gli studi condotti nelle diocesi di Arras e Orléans. Yves-Marie Hilaire fa notare, in proposito, che non sono mai stati costruiti tanti calvari come nel XIX secolo.

Verso una devozione serafica

La pietà religiosa diviene meno rigida dopo l'affratellante rivoluzione del febbraio del 1848. Già dieci anni prima, il medico trappista Pierre Debreyne aveva criticato la violenza ascetica, responsabile di favorire tanto l'isteria che la tisi. Un tipo di religiosità più sentimentale rimette in discussione il dominio della paura e l'antimisticismo. I temi dell'iconografia si evolvono in direzione di una maggiore serenità. Il nuovo culto delle apparizioni della Madonna e l'evoluzione del dogma impongono una religiosità serafica; la radiosa apparizione della bianca signora di Lourdes si distacca dalla Mater dolorosa de La Salette; la soave immagine dell'Immacolata Concezione di Sées si concilia con la rassicurante rappresentazione dell'angelo custode che trionferà ben presto nelle cromolitografie. Anche la Vergine del Sacro Cuore di Issoudun non ha più niente di tragico.

Si fa strada un nuovo tipo di rappresentazione, che simboleggia il clima di distensione: la preghiera della madre e del bambino. I manuali scolastici esaltano il «commovente quadretto». È compito della madre prendere il bambino sulle proprie ginocchia, aiutarlo a congiungere le manine e a fargli balbettare le prime preghiere. Così nell'animo infantile s'imprime l'immagine della Vergine con il Bambino Gesù associata a quella della madre. Il soave apprendistato introduce un nuovo elemento in quella religione domestica ancora così poco nota agli storici, preparando il terreno dell'enciclica Quam singulari, del 1910, che autorizzerà la comunione privata.

Il culto del «Santissimo Sacramento» e il diffondersi della pratica della comunione frequente contribuiscono alla distensione. L'adorazione perpetua, istituita in via sperimentale nel 1852 nella diocesi di Orléans e riconfermata l'anno seguente in quella di Arras, fa zampillare una nuova sorgente di emozione individuale. Questa custodia egualitaria de! proprio Dio, questo faccia a faccia solitario e prodigioso commuove anche i fedeli più grossolani. Nell'ambiente del «buon curato», viene spesso ricordato l'episodio del contadino incolto che passa delle ore nella piccola chiesa solo per vedere il Buon Dio; a chi lo interroga sugli aspetti della sua meditazione, risponde: «Io lo guardo e lui mi guarda». Questo sublime grado zero della preghiera invita a non dimenticare l'importanza della recita del rosario e della meditazione sui misteri in esso contemplati. Tali pratiche tendono ad ampliarsi e popo-larizzarsi al tempo stesso fra il 1850 e il 1880, per il risorgere o il crearsi di nuove confraternite.

Dopo il 1850 aumenta il numero delle devozioni specifiche.

Questo frantumarsi della richiesta di aiuto, questo moltiplicarsi degli interlocutori della preghiera, testimoniata dall'abbondanza della statuaria sansulpiziana, costituisce un abile espediente nella lotta contro il culto popolare dei «santi protettori» e delle «fontane miracolose» la cui persistenza nel dipartimento di Charente, nel Limousin, in quello di Loir-et-Cher come pure nel Morbihan è stata dimostrata da molti storici. Dalla stessa strategia potrebbe dipendere la rinascita o l'istituzione di molti pellegrinaggi diocesani, o cantonali, prima ancora che si affermi, all'indomani della caduta della Comune, la moda delle grandi manifestazioni nazionali, orchestrate dagli assunzionisti.

Dall'inizio del 1860 si profila la nuova immagine di una religione seria, moralizzante e soprattutto calcolatrice, scarsamente disposta al gesto gratuito e alla spontaneità; la devozione si esprime ormai con il linguaggio del capitalismo: è questa la principale conclusione cui perviene la ricerca di Claude Savart. Questo nuovo tipo di concezione utilitaristica della preghiera, in sintonia con la moda degli ex-voto, porta ad un rinnovarsi dell'ascetismo. Mentre gli inginocchiatoi borghesi assumono forme più confortevoli, sulla violenza fisica prevale poco per volta l'esatto conto dei meriti acquisiti. La quotidiana disciplina esercitata sugli slanci, l'offerta della fatica del lavoro, le moderate astinenze inducono ad un incessante calcolo spirituale che integra strettamente la preghiera alla quotidianeità della vita privata.

La bambola e il monologo interiore

Il monologo interiore ha bisogno di -interlocutori muti che raccolgano le vibrazioni dell'anima. Tre fra questi, nel XIX secolo, ricoprono un ruolo piuttosto rilevante; innanzi tutto la bambola, di cui non è stata ancora completamente analizzata la complessa funzione mediatrice.

Durante la prima metà del XIX secolo, osserva Robert Capia, «la bambola francese non ha mai l'aspetto di una bambina, ma quello di una donna miniaturizzata, il cui abbigliamento, molto curato, segue da vicino l'evoluzione della moda». La vita molto segnata, i fianchi larghi corrispondono ai canoni della bellezza femminile del tempo. Il corpo della bambola è di stoffa o di pelle, imbottito di segatura. La testa e la parte superiore del busto sono di cartapesta, i denti di paglia o metallo. La bambola segue la bambina nella sua passeggiata. La gamma dei modelli, la ricchezza del corredo, le dimensioni della sua casetta riflettono la posizione gerarchica della famiglia; in tal modo, il giocattolo

rende più agevole la presa di coscienza dell'identità sociale. La bambola può quindi più facilmente accedere al ruolo di confidente. Tanto la letteratura che dà vita e che fornisce un linguaggio quanto il progresso tecnico stimolano questa sua funzione psicologica. Dal 1824 si fabbricano giocattoli parlanti; nel 1826 appaiono le prime bambole che camminano.

Verso la metà del secolo (1855), si opera una rivoluzione: col diffondersi dell'uso della guttaperca, la bambola tende ad assumere l'aspetto di una bambina, impropriamente detta «bambolotto». Col passare degli anni, il nuovo modello prende il sopravvento. Questo ringiovanimento facilita l'identificazione; stimola la riflessione sul rapporto madre/figlia che si riproduce nel profondo e sollecita l'anticipazione immaginaria. Frattanto, la coesistenza, durante il Secondo Impero, di giocattoli con l'aspetto di adulti e di «bambolotti» permette una forma di relazione ambigua di straordinaria ricchezza. Ricamare il corredo della bambola, organizzare per lei una festa, immaginare il suo matrimonio costituiscono una prefigurazione del futuro destino; tale attività sviluppa una socialità infantile che veicola l'apprendimento dei ruoli femminili e degli usi di mondo.

Il costante ringiovanimento dell'aspetto della bambola modifica lentamente i dati del colloquio individuale, impoverendone il contenuto psicologico. Quando, nel 1879, appare il «bebé con il biberon», detto «bebé-poppante», quando il vestiario sarà composto soltanto da fasce e pannolini, quando la casetta della bambola si sarà ridotta alle dimensioni della culla, identificazione e confidenze diverranno impossibili. Il nuovo giocattolo propone soltanto l'apprendimento del ruolo materno; un cambiamento delle finalità evidenziato da una nuova gestualità infantile, preludio alla scuola di economia domestica.

Nel 1909, l'evoluzione si completa. Appare il bambolotto con la faccia da neonato. Il nuovo modello ha un immediato successo ed anticipa quello del bambolotto in celluloide, apparso nel 1920. Ma già regna l'animale di pelouche, che riproduce — e stimola — un tipo di rapporto in costante aumento nel corso del secolo.

L'animale di compagnia

Anche la storia dell'animale di compagnia rivela l'importanza della trasformazione operatasi verso la metà del Secondo Impero. Fino a quel momento si prolungano i comportamenti elitari elaborati durante {'Ancien Regime. La corte di Luigi XVI aveva già superato l'indifferenza — se non la diffidenza — nei confronti dell'animale privo di anima, caratteristica della tradizione cristiana; come era stato ugualmente superato il concetto dell'animale-macchina dei cartesiani. Era ormai passato il tempo in cui Malebranche prendeva a calci nel ventre la sua gatta incinta, incurante dei lamenti che attribuiva agli «spiriti animali». L'affetto mostrato da Rousseau per il suo cane aveva fatto scuola nei salotti; si era cessato di considerare l'animale come un pupazzo vivente per scoprire in lui un individuo, capace di sentimenti.

All'inizio del XIX secolo, secondo quanto afferma Valentin Pelosse, il rapporto affettivo è accettato; viene anzi descritto come una pratica saldamente diffusa; ma secondo due forme privilegiate. Viene innanzi tutto esaltato il legame che si stabilisce fra la donna e il cane. I dolci sorrisi, le «innocenti carezze», gli «sguardi scherzosi» costituiscono altrettante prove di quell'inclinazione alla tenerezza, di quella disposizione alla pietà che le teorie mediche individuano nella donna. Quei gesti femminili di compassione sono come dei messaggi inviati all'uomo. Nello spazio domestico viene quindi attribuita all'animale una nuova funzione: essere i1 mediatore di una propedeutica del sentimento.

L'altro aspetto privilegiato è costituito dal legame affettivo che s'instaura fra l'anziano e colui che lo sostiene nella sua vecchiaia. Alcuni importanti testi letterari esaltano la fedeltà del cane: il sermone di Lacordaire sull'ultimo amico del vecchio, la figura del cane bianco del curato in Jocelyn e, più tardi, l'instancabile cane lupo Homo, raffigurato da Victor Hugo nell'Homme qui rit.

L'affettuosità dei ricchi che si manifesta all'interno dello spazio privato è rafforzata, a contrario, dalle immagini della violenza animale e della crudeltà popolare che si manifesta liberamente nello spazio pubblico. In quest'ambiente viene messo in atto un deplorevole apprendistato del gesto sanguinario cui una necessaria azione di profilassi sociale impone di porre un freno. L'amministrazione della Monarchia di luglio comincia col proibire la macellazione in pubblico, almeno a Parigi. L'assemblea legislativa vota la legge Gramont (1850) che proibisce al proprietario la violenza pubblica sull'animale domestico; un provvedimento di scarso rilievo, che ha soprattutto l'effetto di evidenziare le barriere che proteggono la vita privata.

In epoca romantica abbiamo molti esempi di comportamenti affettuosi nei confronti dell'animale di compagnia. Eugénie de Guérin mostra un grande affetto per i suoi cagnolini; li vezzeggia, li cura, prega per loro; piange per la morte di uno di essi e decide di dargli degna sepoltura. Un episodio della sua vita affettiva che trova largo spazio nel suo diario. Ella riversa il suo affetto anche sugli uccellini, in particolare l'usignolo; mostra un'attenta sollecitudine anche per i moscerini che si posano sulle pagine del libro. L'animale costituisce già una difesa contro le angosce della solitudine. Stendhal, isolato nel 1841 a Civitavecchia, triste per la mancanza di qualcuno da amare, vezzeggia i suoi due cani. Mérimée, da vecchio, vive solo con un gatto e una tartaruga. Victor Hugo si mostra molto affezionato al cane fedele che lo accompagna nell'esilio. I quaderni di Gambon rivelano in maniera ancora maggiore questo tipo di sensibilità. Il quarantottardo si lascia commuovere dall'espressione dello sguardo del bue, dalla vivacità del cavallo, dall'arrendevolezza della pecora. In prigione, come Silvio Pellico, alleva un ragno e fa di una lumaca il suo animale di compagnia. Nelle prigioni di Doullens, Mazas e poi Belle-Isle, cura ed alleva delle capinere, che diventano le sue più care amiche. Impara da uno dei suoi compagni di pena, un povero contadino del Limousin, il canto del cardellino; tenta persino di trascriverne i suoni.

Una scena del genere è un buon indizio dell'attaccamento del popolano agli animali. Non bisogna infatti lasciarsi confondere dalle opinioni correnti sulla brutalità del carrettiere e le pratiche sanguinarie degli organizzatori di combattimenti di galli o di cani. Intorno al 1820, i contadini di Aunay-sur-Odon si mostrano stupefatti per la crudeltà manifestata da Pierre Rivière contro rane e uccelli; s'indignano per le torture da lui inflitte ai cavalli. Dalla corrispondenza di Odoard de Mercurol apprendiamo che i contadini della Dròme seguono l'usanza di non abbattere gli animali che li hanno serviti fedelmente; ed è nota la predilezione degli operai del Nord per i piccioni. Nel 1839, J.B. Rochas Séon pubblica Histoire d'un cheval de troupe. Si tratta di una storia edificante: un giovane agricoltore non esita ad arruolarsi per seguire il suo cavallo, acquistato dall'esercito. Egli muore di tisi, e l'animale si lascerà morire dopo di lui.

I primi sintomi di una nevrosi

Dopo il 1860, i comportamenti affettivi nei confronti degli animali si diffondono e si accentuano contemporaneamente; insorgono allora i primi sintomi di una vera e propria nevrosi collettiva. Già nel 1845, si era stabilita a Parigi la Società protettrice degli animali. Una fondazione che riflette certamente l'imperante anglomania; ma che testimonia anche l'impegno di alcuni zoofili francesi, primo fra tutti il dott. Pariset. Durante il Secondo Impero, il cane da salotto assume un ruolo sociale; il barboncino è particolarmente di moda. Si diffondono da quel momento le esposizioni canine; mentre aumenta l'ossessione del pedigree e del pelo ben tenuto, la fotografia dell'animale va a raggiungere quella dei figli nell'album di famiglia. Sempre più spesso l'animale viene sepolto nel giardino privato; l'apertura di cimiteri pubblici dà l'avvio ad un nuovo culto. Anche le compagnie ferroviarie si trovano di fronte al problema del cane, cui devono riservare una carrozza. Tuttavia, fin dal tempo della Monarchia di luglio, la gabbietta dell'uccellino, presente nella cameretta della giovane borghese come nella soffitta della sartina, rivela la sensibilità della proprietaria e costituisce un indizio della sua virtù. Nel 1856, il testo dedicato da Michelet all'uccellino rafforza tale attaccamento.

Durante l'ultimo quarto del secolo, la condizione dell'animale tende a modificarsi. Il costante influsso del libero pensiero favorisce il sorgere di un nuovo sentimento di fraternità fra l'uomo e la bestia. Garantire i suoi diritti, assicurargli il benessere, significa tentare di rompere la nuova solitudine del genere umano. Non bisogna dimenticare che non si parla ancora di salvaguardia della natura; il problema non si pone in termini ecologici; si tratta piuttosto di affermare il sentimento di umanità e insieme l'utilità sociale dell'animale. Anche la scuola primaria, rivolgendo una maggiore attenzione all'animale, s'impegna in questa direzione. La diffusione a livello popolare delle teorie evoluzioniste, l'ampliarsi della medicina veterinaria, le scoperte zootecniche contribuiscono a favorire il nuovo sentimento di fraternità e a stimolare la tentazione dell'antropomorfismo. Quest'ultimo raggiunge delle punte estreme; si pubblicano opere, come ad esempio la Zoologie passionnelle di Alphonse Toussenel, che evidenziano in maniera addirittura eccessiva l'intenso bisogno di dialogo.

Tuttavia, anche in questo campo, le scoperte di Pasteur inducono ad una modificazione dei comportamenti. Certo, non sembra che le preoccupazioni igieniche che in un primo tempo portarono ad accarezzare gli animali usando i guanti siano sopravvissute a lungo alla iniziale voga delle nuove teorie; non di meno la paura dei microbi finirà col far preferire il gatto da salotto ritenuto meno maleodorante e più pulito del cane. Il felino, fino ad allora adottato solo nell'alta società e nell'ambiente degli artisti, si diffonde anche fra il popolo. I siamesi della famiglia imperiale, i compagni di Gautier e Baudelaire cominciano ad essere apprezzati anche dai portieri, anche al di là della loro funzione di ammazza-topi. All'inizio del XX secolo i rapporti affettivi di dipendenza fra uomo e animale tendono a rovesciarsi; quest'ultimo si appresta di già a divenire il sovrano assoluto dello spazio domestico.

Il pianoforte hashish delle donne

Edmond de Goncourt esagera solo leggermente nel definire il pianoforte «l'hashish delle donne»; nel mondo dell'immaginazione lo strumento sembra proprio ricoprire questo ruolo. Daniele Pistone ha notato nella letteratura romantica dell'epoca duemila scene in cui compare questo strumento. Fra queste, la metà ha per protagoniste delle fanciulle, un quarto donne sposate. Lo strumento comincia a diventare di gran moda nel 1815; il suo successo viene favorito dal crescente senso del pudore, da quando l'arpa, il violoncello e il violino avevano cominciato ad apparire indecenti. Durante la Monarchia di luglio, il pianoforte si diffonde fra la piccola borghesia, divenendo pip popolare in seguito. A partire dal 1870 comincia ad essere considerato persino un po' volgare, inizia allora il suo relativo declino.

Il primato della funzione sociale dello strumento costituisce il risultato di maggior rilievo dell'opera di Daniele Pistone. Per una giovane, suonar bene il piano è un titolo di merito, è un modo di dimostrare pubblicamente la buona educazione ricevuta. Il virtuosismo musicale rientra nella strategia matrimoniale, accanto alle «doti estetiche». In compenso, solo di rado il pianoforte rappresenta il luogo dell'incontro, del dialogo amoroso; questo ruolo viene affidato al canto, particolarmente alla romanza. Detto ciò, quattro tipi di rappresentazione, preferibilmente immerse nella pace della sera, fanno del pianoforte l'immagine di un amico, di un confidente, di un rifugio che permette di esprimersi liberamente in solitudine. Bisogna notare che, col passare degli anni, tali rappresentazioni finiranno con lo scomparire, mentre il piano, cessando di essere l'amico dell'anima si trasformerà in un arredo qualsiasi.

Sotto le innocenti dita della fanciulla ignara, la tastiera esprime le pulsioni che il linguaggio non saprebbe rivelare. Per questo motivo Balzac consiglia alla sorella Laure Sauville di acquistare un pianoforte. Questo appare come il miglior rimedio contro la timidezza; permettendo lo svolgimento della scena letteraria in cui la fanciulla, credendosi sola, rivela all'indiscreto ascoltatore slanci tanto più insospettabili in quanto lo strumento ha anche il privilegio di innalzare lo spirito verso un mondo ideale.

Più di rado diventa l'eco nostalgica degli amori contrastati, un solitario messaggio inviato all'amante lontano. È inoltre capace di esprimere il lamento dell'animo ferito per un amore deluso. Secondo Edmond About, il pianoforte inviato all'amante abbandonata, rientra nella lista dei doni rituali. Tale pratica si ricollega allo stereotipo letterario della donna buona, non troppo bella, comprensiva e sensibile che, con l'animo afflitto, improvvisa strazianti melodie; insomma il tipo di donna di cui Jules Laforgue scriverà che «pratica su se stessa l'autopsia suonando Chopin».

La terza di tali scene letterarie è la più frequente; il piano vi assume il ruolo di sfogo solitario all'insostenibile violenza delle passioni; così si acquietano i sensi deliranti della duchessa di Langeais. In questo caso sostituisce la galoppata e la passeggiata nella tempesta; da notare in proposito la contiguità dei tre campi semantici. Edmond de Goncourt, precedendo gli psicanalisti, lo accosta per questo motivo alla pratica della masturbazione.

Suonare il piano è infine in relazione con l'inutilità del tempo femminile; consente di far passare le ore in attesa dell'uomo; secondo Hippolyte Taine aiuta colei che lo suona a rassegnarsi alla «nullità della condizione femminile». È comunque vero che tutte queste scene che attestano l'importanza dello strumento nella vita intima forniscono innanzi tutto delle informazioni sull'immaginario maschile che ha per oggetto la donna al pianoforte. La chioma disciolta, il volto illuminato dalla luce delle candele del leggio, gli occhi perduti nel vuoto, ella appare come la preda sognante che si offre al desiderio dell'uomo.

Tempo libero in solitudine e tesori segreti

L'accesso al libro

Durante la prima metà del XIX secolo, il libro è molto costoso. All'epoca della Restaurazione, l'acquisto di un romanzo di recente pubblicazione assorbirebbe un terzo del salario mensile di un bracciante agricolo. Ciò spiega la scarsa densità della rete libraria, fino alla metà del Secondo Impero. Per la stessa ragione si diffonde il prestito librario. L'opera di Francoise Parent-Lardeur, ha ormai messo in evidenza l'importante funzione delle sale di lettura nella Parigi della Restaurazione. In questo tipo di librerie si prestano i volumi uno alla volta o per abbonamento; al lettore è possibile ricevere in prestito persino dai venti ai cento libri per volta. A Parigi le sale di lettura sono frequentate da quarantamila persone; la maggior parte sembra appartenere alla nuova borghesia, più precisamente alla piccola borghesia che si accontenta di questo sistema di prestito. Ma accanto al possidente e allo studente, si incontrano in queste librerie moltissime persone che vivono a contatto con le classi dominanti: cameriere, portieri, commesse di negozio. Le domestiche del boulevard Saint-Germain leggono durante le ore di lavoro le opere prese in prestito dai padroni. Nel quartiere del Tempie, sarte, sartine, artigiani costituiscono la parte più rilevante della clientela di questi posti non troppo frequentati dagli operai. Anche in provincia esistono sale di lettura; ma si sviluppano più tardi rispetto a quanto avviene nella capitale. In molti capoluoghi di provincia del Limousin, durante la Monarchia di luglio e il Secondo Impero, anche alcune merciaie, spesso vedove, prestano romanzi editi in collane economiche.

Gli abitanti delle lontane campagne devono richiedere i libri per posta. Il libro è un prodotto prezioso; può diventare un dono inatteso che viene accolto con grande piacere; si pensi all'emozione provata dagli abitanti del povero villaggio di Cayla, nella zona di Albi, nel ricevere le opere di Walter Scott o di Victor Hugo.

In queste regioni operano i rappresentanti ambulanti di grandi librerie, di solito provenienti dai Pirenei, la cui attività raggiunge il culmine durante il Secondo Impero. Questi finiranno col sostituire quegli umili venditori ambulanti che nei decenni precedenti avevano diffuso tante copie di Télémaque, Simon de Nanthua, Gèneviève de Brabant, o di Robinson Crusoe.

A partire dagli anni attorno al 1860, si organizza un più efficace sistema di diffusione. Certo, le biblioteche pubbliche non hanno un'attività troppo vivace; la loro dotazione di opere classiche e scientifiche, proveniente in parte da antichi conventi, interessa soltanto un pubblico di specialisti, costretti inoltre ad orari molto ridotti. Il silenzio che regna in questi luoghi, il tipo di contegno che si esige dai lettori sono troppo estranei alle abitudini popolari perché questi severi depositi possano esercitare una grande attrattiva. In compenso, i cittadini dispongono ormai di una rete libraria abbastanza ampia che sarà completata dalle sale di lettura ferroviarie. Contemporaneamente, lo sviluppo della grande stampa a basso costo fa apparire ormai arcaico il «canard» dell'inizio del XIX secolo, mentre invece gli almanacchi, sono ancora considerati utili dai contadini.

Vengono istituite biblioteche parrocchiali, popolari e scolastiche; le prime, aperte dall'epoca della Monarchia di luglio fin nelle più piccole città, diffondono i «buoni libri»; le seconde, aperte durante la Terza Repubblica, diffondono opere ritenute facili, ma di un certo livello; le ultime, create a partire dal 1865, sono frequentate soprattutto da giovani che hanno acquisito attraverso la scuola il gusto della lettura. La biblioteca scolastica ha la stessa funzione della collezione di libri costosi collocati dal contadino su uno dei ripiani dell'armadio. Magre risorse che non possono bastare a colmare, per alcuni contadini appassionati alla lettura, lo iato creatosi fra il declino del commercio ambulante e la comparsa della stampa regionale a larga tiratura.

L'evoluzione delle modalità di lettura

La trasformazione della rete di distribuzione va di pari passo con l'evolversi dei comportamenti. Nella sfera domestica, la lettura orale, come lo scrivere sotto dettatura, perdura ma appare in declino. Durante la Monarchia di luglio, i borghesi di Rouen continuano a leggere in salotto, la sera, accanto al fuoco, ma in seguito il canto, la musica, la pittura avranno il sopravvento su un'attività considerata come appartenente al passato, riservata ormai esclusivamente all'anziano infermo. La lettura ad alta voce diventa così monopolio della figlia devota o della dama di compagnia. Anche la lettura di testi edificanti, a beneficio dei domestici analfabeti, come veniva praticata più volte al giorno da madamoiselle d'Ars, la castellana del curato, cade in disuso.

In compenso, fino alla Prima guerra mondiale, la lettura ad alta voce è di tradizione nelle veglie contadine. Deve essere breve, perché ha lo scopo di avviare la conversazione, di presentare un tema sul quale si svolgono i commenti di coloro che partecipano alla riunione; in questo si differenzia dalla lettura monotona che si svolge nel salotto borghese, e che rischia di conciliare il sonno. Alla fine del secolo, la lettura praticata nelle officine, ad esempio nelle manifatture della porcellana di Limoges costituisce una forma tardiva di quella lettura orale che, nata nei refettori dei conventi, imposta nei collegi religiosi, è ormai soppiantata dalla lettura individuale in silenzio.

Ciò non vuol dire che la lettura si svolga in solitudine, perché si legge in biblioteca, al circolo, al caffè, nelle sale di lettura. Ma implica un raccoglimento, una maniera di astrarsi da ciò che sta intorno, insomma, un complesso di attività private dalle quali per molto tempo il popolo si sentirà escluso. D'altro canto, leggere in solitudine, significa talvolta porsi consciamente all'interno di un gruppo di lettori, colloquiare con interlocutori immaginari. L'elettore della Monarchia censitaria che legge il giornale in salotto partecipa alla vita pubblica; e la sua attività sarà appunto interpretata in tal senso. Abbonarsi a La Quotidienne a Nancy al tempo di Lucien Leuwen, vuol dire entrare a far parte della ristretta cerchia dei legittimisti. La borghesia di Rouen, con buona pace di Flaubert, legge molto; i commenti sulle novità librarie arricchiscono le conversazioni mondane; il che impone una precedente lettura individuale. Questa si pratica in salotto, nella propria camera, sulle panchine del giardino o immersi nella natura.

Un passatempo riservato alle élites che si diffonde con il progredire dell'alfabetizzazione. Parent-Duchàtelet scopre, non senza stupore, che alcune prostitute passano delle ore a leggere romanzi d'amore. Abbiamo già visto quale attrattiva eserciti la lettura notturna su un ristretto gruppo di operai, subito dopo la rivoluzione del 1830. Già nel 1826 e nel 1827, Agricol Perdiguier, durante il suo viaggio attraverso la Francia, si nutre di disparate e disordinate letture. Alla sua conoscenza della letteratura divulgativa, alla sua ammirazione per la canzone popolare si aggiunge una nuova passione per gli autori più insignificanti del XVIII secolo di cui viene allora pubblicata l'opera completa.

Le letture abituali si differenziano profondamente secondo l'età e il sesso. Si afferma più che mai la volontà di riservare ai bambini la lettura, fino a poco tempo prima popolare, di racconti e leggende. Alle infinite riedizioni di Perrault o di madame d'Aulnoy si aggiungono moltissime opere i cui autori, dalla contessa di Ségur a Jean Macé, tentano di ritrovare la specificità dell'immaginario infantile. Nuovo invece, il notevole sviluppo di una letteratura destinata ai figli della borghesia che ha lo scopo di basare la supremazia sociale su una superiorità morale. Capeggiata da madame Necker de Saussure e madame Guizot, una pleiade di buone dame s'ispira così al modello elaborato da madame de Genlis. Tutte sono d'accordo con i medici nel consigliare la sorveglianza delle letture domestiche della fanciulla; tutte denunciano i perniciosi effetti del romanzo in cui si concentra il gioco del desiderio e della proibizione.

Alla donna sposata, di cui per la verità le buone dame smettono di occuparsi, viene accordata una maggiore libertà. Molte giovani spose vedranno così ampliarsi l'orizzonte delle proprie letture in occasione del viaggio di nozze. All'epoca di Paul Bourget, una letteratura che si compiace di svelare parzialmente i misteri del sesso si rivolge a queste donne, troppo di recente rese consapevoli per non serbare qualcosa dell'ansiosa curiosità della vergine. Gli uomini, dal canto loro, si riservano quella letteratura di serie B della cui diffusione non potremo mai valutare la portata. La vivacità della battaglia condotta contro il libro osceno, contro cui tuona il senatore Beranger e le associazioni per la morale, alla fine del secolo, lascia immaginare che si sia trattato di un genere che ha goduto di un notevole successo, agevolato dalla creazione di canali di distribuzione «molto riservati».

Ovviamente, le modalità di consumo del libro variano a seconda della provenienza sociale. Su questo punto va fatta un'osservazione: prima che venissero istituite le biblioteche scolastiche, il giovane contadino, avido di sapere, rimaneva condannato alla confusione di letture fatte a caso di cui sopravvaluta l'importanza e che, in alcuni casi, esercitano su di lui una stupefacente influenza. Nel 1820, il comportamento di Pierre Rivière è perfettamente identico a quello del mugnaio friulano del XVII secolo studiato da Carlo Glnzburg. I due sfortunati personaggi soccomberanno vittime delle loro disordinate letture. I metodi di lettura degli autodidatti recheranno a lungo il segno della disordinata bulimia di cui si prenderà gioco l'autore della Nausee. A circa mezzo secolo dall'epoca in cui visse Agricol Perdiguier, il minatore di Valencienne, Jules Mousseron, si getta, tanto rapida è la «recrudescenza», su tutti i libri che gli capitano sotto mano.

Il contenuto delle letture

Ma quali sono le letture preferite quando si è raggiunta l'età in cui si può liberamente scegliere? In questo campo, non bisogna lasciarsi accecare dai prestigiosi autori della storia letteraria. Claude Savart ha dimostrato come fosse ampiamente diffusa, nel 1861, la letteratura devozionale, e l'analisi degli inventari patrimoniali rivela l'importanza dei testi professionali. Le biblioteche dei magistrati di Poitiers contenevano moltissime opere di diritto, mentre quelle dei medici di campagna erano piene di libri di medicina. Inoltre, i testi di autori classici continuano a riempire gli scaffali. Adeline Daumard fa notare in proposito come la borghesia parigina mostrasse di disprezzare la letteratura contemporanea; Eugène Boileau, ammalato, dal 1872, nel suo castello di Vigne, commenta i testi di Seneca e Benjamin Franklin, due autori che ispirano il suo sistema di vita. D'altra parte, tutto induce a porre in evidenza l'ampio consumo, nel XIX secolo, di testi poetici. L'uso del leggio, l'abitudine all'ascolto dei testi liturgici, il gusto di un pubblico colto, per lo più bilingue, per i poeti latini, il successo della declamazione di opere di poeti dilettanti a conclusione di una serata, copiate poi nell'album, il moltiplicarsi delle associazioni di poeti e, forse in maniera ancora più rilevante, la moda della canzone e l'aumento dei poeti operai attestano l'onnipresenza sociale del testo poetico. Citiamo solo due indizi fra i tanti: in quasi tutte le famiglie di minatori della regione di Valenciennes durante la Belle Epoque, le ragazze conservano un quaderno di canzoni manoscritte, e Marie-Dominique Amaouche osserva la stessa pratica presso i cappellai dell'alta valle dell'Aude.

Per il resto, i contemporanei insistono sul costante aumento dei romanzi a scapito degli autori classici e dei trattati di storia. All'epoca della Monarchia di luglio, il successo inaudito del romanzo d'appendice mostra il diffondersi di tale preferenza anche fra le classi popolari. In seguito, la diminuzione dei prezzi consente l'ampia diffusione di quelle collane di romanzi di cui fu ideatore l'editore Charpentier. Nello stesso periodo, l'influenza dello scientismo e del patriottismo insegnati nelle scuole favoriscono il successo di autori come Jules Verne e Erckmann-Chatrian. Alla fine del secolo vengono istituite modeste biblioteche in alcune piccole frazioni della Creuse. Qui, accanto alle opere di questi tre autori, trovano posto quelle di Victor e di Paul Margueritte.

La costruzione del museo interiore

Il successo della lettura individuale in silenzio va di pari passo con una sempre maggiore inclinazione verso il piacere solitario dello «studiolo». Nel XIX secolo, la raccolta è una pratica essenzialmente maschile; è l'uomo che inventa e progetta l'accumulazione. La donna è capace di creare solo «mille cose da nulla». Nel 1892 come nel 1895, le esposizioni di lavori femminili suscitano l'ironia dei critici; questi si rifiutano di attribuire un valore a quei ridicoli prodotti dell'inattività. Al massimo, la tenerezza e l'affetto potranno indurre l'amica o la madre a raccogliere nei cassetti del secrétaire alcuni ricordi di famiglia, particolarmente commoventi.

La collezione ha una sua storia. Durante la prima metà del secolo si definisce una nuova pratica. Dispersi dalla tempesta rivoluzionaria, gli oggetti che ornavano le stanze dell'aristocrazia appaiono ormai come detriti del passato che vanno ad arenarsi nelle innumerevoli botteghe di rigattiere descritte con tanta incisività da Victor Hugo in Quattre-Vingt-Treize. Mentre si costituiscono le grandi collezioni pubbliche, alla critica mossa alle gerarchie si aggiunge la disorganizzazione del sistema dei simboli della supremazia sociale.

Compare allora un nuovo tipo di collezionista. Per vent'anni circa (1815-1840) i compratori approfittano di una congiuntura favorevole. Come il cugino Pons, alcuni abili frequentatori di botteghe di anticaglie, spesso persone di poco conto, senza grande disponibilità di danaro, riescono, in un periodo abbastanza breve, a raccogliere straordinarie collezioni. Verso il 1840-1845 la moda subisce una svolta imprevedibile. Sono ora i borghesi a precipitarsi dai rigattieri. Il nuovo comportamento si codifica. La visita alla bottega dell'antiquario, la ricerca paziente fondata su una nuova competenza nell'acquisto si ritualizza. Il periodo della Monarchia di luglio è l'epoca d'oro del gabinetto di «archeologia», del museo interiore, indifferente al prestigio del valore commerciale. Il collezionista privilegia allora l'oggetto antico; la sua ambizione è quella di «salvare la storia» e non pensa ancora alla possibilità di rivenderlo. Alla sua morte, il perito stimatore disperderà tutti i suoi tesori. II personaggio è presente anche in provincia. A Toulouse, ad esempio, operano in quel tempo una decina di collezionisti del genere.

Dopo il 1850 l'oggetto assume un valore più preciso, si struttura il commercio antiquario. Il fatto che il tesoro di Pons finisca col cadere nelle mani dell'incolto Popinot prefigura il prossimo affermarsi del valore economico. Da questo momento si verifica un mutamento nel comportamento. Una pleiade di ricchissimi collezionisti rappresenta un modello da seguire. Bisogna sottolineare un fatto: tutti i grandi uomini d'affari hanno provato il desiderio di accumulare oggetti preziosi. Per alcuni, è evidente che tale desiderio ha il sopravvento su qualsiasi altra passione. I grandi banchieri come i fratelli Pereire nel loro palazzo di Faubourg Saint-Honoré e i Rothschild a Ferrière sono stati travolti dal desiderio di accumulazione. Lo stesso accade a molti industriali. Eugène Schneider colleziona pittura, quadri e disegni olandesi. E racchiude i suoi tesori, che a nessuno è permesso vedere, in una sala di cui porta sempre con sé la chiave. I direttori dei grandi magazzini — nella maggior parte dei casi degli arricchiti — vengono anch'essi colpiti dalla nuova frenesia: Boucicaut colleziona gioielli, Ernest Cognacq e Louise Jay, fondatori dei magazzini della Samaritaine, gli oggetti del XVIII secolo.

Sono tutti al tempo stesso dei mecenati, esercitando una notevole influenza sulle mode. Tanto l'impressionismo quanto l'Art Nouveau devono molto a questi ambiziosi borghesi. Dopo il 1870, il grande collezionista si sottrae alla dispersione postuma degli oggetti accumulati nella sua ricerca eclettica. Egli desidera ormai venire ricordato dalle generazioni future. Per sopravvivere nella memoria nazionale, fa dono dei suoi tesori ai Musei nazionali, dove una sala sarà intitolata a suo nome.

I piaceri solitari dello «studiolo»

L'avidità del collezionista sembra allora dipendere da due differenti fattori. Per colui che ha l'ambizione di fondare un nuovo lignaggio, accumulare dei segni distintivi soddisfa il desiderio di legittimare una posizione sociale di fresca data. La collezione conferisce un evidente prestigio culturale; connessa al mecenatismo, permetterà eventualmente di orientare il gusto e la produzione artistica. In tal modo origini aristocratiche e borghesi si confondono con tanta sapienza da trarre in inganno un Arno Mayer che confonde, almeno per quanto riguarda la Francia, Ancien Regime ed eclettismo borghese.

Ma il collezionismo rivela soprattutto una struttura psicologica segreta; è profondamente connesso alla storia della vita privata. La costituzione di un museo interiore dipende, a seconda dei casi, da varie esigenze. La collezione può essere anche soltanto la semplice accumulazione di ricordi individuali. Il cofanetto segreto in cui Nerval racchiude le ciocche di capelli e le lettere di Jennie Colon, la collezione di oggetti sensuali e profumati che ricorda al Flaubert di Croisset l'ebbrezza delle notti trascorse con Louise Colet, consentono di godere di un piacere solitario, nostalgico ed ansioso al tempo stesso. La preoccupazione di controllare, di reprimere la propria libido può essere all'origine di questa pratica, che sembra allora manifestarsi preferibilmente in individui che hanno passato la quarantina.

Possesso allo stato puro, priva di qualsiasi funzione, la collezione soddisfa completamente la passione individuale della proprietà privata; ma può divenire essa stessa una fuga appassionata, un rifugio fra quegli oggetti che rappresentano altrettanti equivalenti narcisistici della persona. Al di là degli alibi dello snobismo e del piacere estetico, si avverte che la collezione compensa una frustrazione, reale o fantasmatica. Quando la sua carriera viene spezzata dall'amministrazione imperiale, il modesto magistrato Henri Odoard si ritira a Chantemerle; qui, si dedica religiosamente a riordinare gli archivi di famiglia e a collezionare conchiglie e medaglie. Il ripiegamento sull'universo domestico conferma il fallimento del rapporto di relazione, suggerito anche dalle penombre, dai mobili capitonné e dagli abbondanti tendaggi degli interni borghesi degli anni intorno al 1880. In questo ripiegamento bisogna forse vedere il segno di una paura inconscia delle masse oppure i sensi di colpa per la spoliazione di cui la ricchezza degli oggetti ammassati costituisce una prova evidente? La nevrosi di Des Esseintes indurrebbe a supporlo.

Non v'è dubbio che il gioco della raccolta nell'intimità obbedisce a sua volta al medesimo processo di regressione che dà origine al diario. Piaceri solitari e forme di autodistruzione al tempo stesso, i due passatempi hanno a che fare con la morte.

Ad ogni modo, l'onnipresenza della collezione costituisce certamente una delle manifestazioni più significative della storia delle classi dominanti durante il XIX secolo. Ignorarlo significherebbe condannarsi alla totale incomprensione delle motivazioni dei grandi protagonisti della vita economica.

Diffusione sociale di una pratica

Non meno importante appare la diffusione di pratiche a lungo riservate alle élites. Fra il 1890 e il 1914, mentre la filatelia è in pieno sviluppo, si costituiscono innumerevoli collezioni di cartoline, conchiglie, medaglie poi bambole. La piccola borghesia, in particolare quella di provincia, si lascia presto conquistare dal desiderio di costituire degli archivi familiari, poi delle collezioni di oggetti ricordo. Chantal Martinet studia il propagarsi di tale comportamento fin negli ambienti popolari. In un periodo di poco successivo a quello in cui Henri Odoard raccoglieva religiosamente la corrispondenza familiare, in tutti gli ambienti si cominciano a conservare fotografie, targhette, oggetti di fidanzamento, bouquets e coroncine da sposa. I tesori «fatti a mano» finiranno insieme agli atti giuridici e alle matricole dei coscritti in una devota accumulazione di ricordi che la morte renderà inutile. Volontà d'imitazione, democratizzazione di un comportamento? Certamente. Ma anche diffusione sociale della sensazione di una minaccia che si esercita sui valori del passato e insieme rifiuto di accettare lo scarto generazionale. Non essere stati capaci di trasmettre tali valori è causa, in quest'ambiente, di un nuovo senso di colpa; è questo che induce a raccogliere quanto potrà almeno mantenerne la traccia. Vi ritroviamo, inoltre, quella volontà che induce a personalizzare l'iscrizione funeraria. «Joseph Brunet è un uomo, ve lo dico io, credetemi!», scrive nel 1864 un ignoto proprietario sul foglio di risguardo di uno dei libri della sua collezione.

Il processo d'imitazione è rivelato da altri fenomeni. A cominciare dal 1880, mentre si esaspera la decorazione degli interni borghesi, nelle classi popolari si cominciano a richiedere le imitazioni; si sviluppa il commercio dei falsi; si costituiscono collezioni di falsi. La stanza «Louis XV», il buffet «Henri II» inseriscono rapporti diversi fra il popolo, il suo arredo e il suo interno. Tutto il rituale della vita privata ne subisce l'influenza.

La reclusione del soggetto al centro della sua collezione, vissuta da Pierre Louys nella sua dimora nella frazione di Boulainvilliers, è l'ultimo stadio di questo ripiegarsi in se stessi che suggella il progressivo affermarsi del sentimento della propria persona. Una simile condotta permette di valutare fino a qual punto potesse diventare oppressivo il desiderio di comunicazione. Lo studio dei piaceri e del tempo libero trascorso in solitudine impone quello della ricerca di relazioni intime, racconto di sé e dell'altro contemporaneamente e legame del corpo, del cuore o dello spirito che si volge all'altro.

Relazione intima o gioie del rapporto

La confessione della colpa e le vie della confidenza

Il sentimento di vulnerabilità che accompagna il progresso dell'individuazione, il fallimento del rapporto di relazione che, in seno alle classi dominanti, spinge ad un gelido ripiegamento sui piaceri solitari, l'interiorizzazione dei dogmi di una morale sessuale sempre più rigida, che esaspera l'intimo senso di colpa, amplificano le suggestioni dell'incontro. Allora le vie della confidenza si intersecano mentre, contemporaneamente, piaceri e angosce della confessione si fanno più sottili.

Il secolo della confessione

Il XIX secolo è considerato dagli specialisti l'età aurea del sacramento della penitenza. Il tribunale divino, scrive Philippe Boutry, diviene il fulcro della «religione introspettiva, indagatrice e in alcuni casi colpevolizzante» caratterizzante il cattolicesimo dell'epoca. L'esame di coscienza e la confessione appaiono come le due condizioni fondamentali della salvezza. Il sacramento si inserisce inoltre nella strategia di salvaguardia della morale familiare: allontana i giovani dal male, previene l'adulterio ed evita, più tardi, il divorzio. E, per ultimo, concorre al mantenimento dell'ordine sociale. «Ecco la diga contro il socialismo, ecco la salvezza della Francia», scrive in proposito, nel 1853, l'oscuro abate Debeney.

Può anche accadere che il sacerdote, per ricevere la confessione, entri a diretto contatto con la sfera privata. Si tratta, in realtà, di una procedura assai poco consueta; riservata ai malati e a quella ristretta élite sociale che possiede un oratorio, una cappella privata, e che talvolta beneficia della presenza di un cappellano.

Nella maggior parte dei casi, l'amministrazione del sacramento ha luogo in chiesa oppure in sacrestia. A partire dall'inizio del secolo, il confessionale è presente quasi ovunque, assumendo in seguito, forme più complesse. Può trattarsi soltanto di un rustico sedile, affiancato da due tavole di legno, come quello usato dal curato di Ars per la confessione degli uomini; ma può anche essere una di quelle sontuose nicchie in quercia lucidata a cera la cui buia intimità scatenerà i fulmini di Michelet.

Con eccessiva leggerezza si è voluta stabilire una affinità tra confessionale e divano dello psicanalista. È indubbiamente facile trovare delle analogie; come al medico, sono necessari al sacerdote raccoglimento, attenzione, capacità di giudizio e discrezione; nascosto dalla grata, di lui non si deve vedere né il volto né lo sguardo. Inoltre, durante l'intero secolo, il segreto della confessione sarà considerato inviolabile: era questo un cardine della figura sacerdotale. Ma totalmente diverso da quello di un paziente appare il comportamento del penitente; l'atteggiamento, il gesto, l'abito, tutto in lui esprime una volontà di umiltà. In ginocchio, a mani giunte, senza cappello, o con la veletta abbassata se si tratta di una signora, egli è già preventivamente nella disposizione d'animo di sottomettersi al giudizio del sacerdote. A mezza voce il fedele enumera le proprie colpe; e, così facendo, si esercita a padroneggiare il linguaggio della confessione intima; difficile apprendistato per le popolazioni rurali abituate ad esprimersi a voce molto alta.

Per il cattolico la confessione deve essere accompagnata dalla contrizione. Solo così l'assoluzione potrà cancellare la colpa e assicurare la salvezza. Ne deriva l'immensa portata del rifiuto dell'assoluzione, un potere spesso esercitato dopo la seconda metà del XVIII secolo. Una misura rigorista che esclude pubblicamente il fedele dalla 'comunione pasquale; e insinua in lui l'idea della possibile dannazione. «Amico mio, lei è perduto», «ragazzo mio, tu sei dannato», non esita a dichiarare Jean-Marie Vianney a due suoi penitenti.

Sarebbe errato contrapporre troppo rigidamente confessione e direzione spirituale. La maggior parte degli ecclesiastici, alcune ragazze e alcune donne di particolare fervore, prevalentemente aristocratiche o borghesi, come pure vecchie signorine abitanti nelle vicinanze della canonica, beneficiano di una direzione continua, personalizzata. Privilegiati che restano però una minoranza. La confessione è, però, anche un rifugio, che implica sempre la sottomissione al padre spirituale; le poche parole che precedono l'enunciazione della penitenza inflitta al peccatore, l'invito ai buoni propositi, costituiscono una forma, indubbiamente piuttosto elementare, di direzione spirituale.

In teoria, i fedeli devono confessarsi al curato della propria parrocchia. Fino al 1830 circa, il clero rurale si dimostra geloso di tale prerogativa; in seguito si instaura una certa libertà di scelta. Negli ambienti di maggior osservanza scegliere un confessore costituisce un vero e proprio rito di passaggio; per la ragazza uscita di collegio e che è alla vigilia della sua entrata nel mondo, la decisione è di grande importanza. Nel leggere la corrispondenza della giovane Fanny Odoard, si intuisce quanto sia stata determinante l'influenza del suo direttore spirituale, l'abate Sibour, futuro arcivescovo di Parigi. Le rispettive qualità dei vari confessori diventano all'occorrenza, argomento di conversazione fra le signore. Nelle parrocchie di città alcuni preti hanno quasi una loro specializzazione: gli uni preferiscono seguire i bambini e i giovani, altri le persone di servizio. Alcuni pastori godono di una grande reputazione: quando si presenta un difficile caso di coscienza si rivelano di straordinario aiuto. Il curato di Ars rappresenta il modello supremo di questi apostoli della confessione. Per circa trent'anni passa diciassette ore al giorno assediato da lunghe code di fedeli che si accalcano davanti al suo confessionale, tenuti a bada da un vero e proprio servizio d'ordine. Che la persona del «buon curato» abbia provocato il più imponente pellegrinaggio del paese è una chiara dimostrazione dell'importanza del sacramento. Ma Jean-Marie Vianney non è il solo. Il padre P.A. Mercier, ritiratosi a Fourvière all'età di sessantasei anni, ascolterà ventimila penitenti in meno di quattro anni.

Non pago delle normali confessioni consuete, il fedele può voler fare una confessione generale dei propri peccati. Così si regolano i convertiti; come quel professore affascinato dal curato di Ars e che da quarantaquattro anni non si era confidato con un prete. La confessione generale può essere il coronamento di un ritiro, di una missione, di un pellegrinaggio; ed è d'obbligo per i moribondi ancora in possesso delle loro facoltà.

La pratica del sacramento

Claude Langlois osserva che nella diocesi di Vannes, tra il 1800 e il 1830, la frequenza del sacramento della penitenza varia notevolmente secondo gli individui. La confessione mensile è, da questo periodo, obbligatoria negli istituti secondari.

Alcune anime pie, generalmente interi nuclei familiari, si comunicano e si confessano, ormai, di frequente; al punto che il vescovo si dichiara preoccupato dell'eccesso di fatica che questi troppo zelanti fedeli impongono al suo clero. Sarebbe tuttavia imprudente sopravvalutare questa nuova domanda popolare. Per tutto il secolo, gli agricoltori della diocesi di Belley si dimostrano ostili alla confessione frequente. Nella diocesi di Arras, la persistenza di un certo rigorismo rende i sacerdoti diffidenti verso tale pratica. Nell'alta Bretagna, l'uso non si diffonderà prima del XX secolo. Fino ad allora la maggioranza dei fedeli si limita ad accostarsi alla confessione tre o quattro volte l'anno.

Il sacramento della penitenza non sfugge al dimorfismo sessuale che caratterizza la pratica religiosa nel secolo XIX. Le statistiche redatte nella diocesi di Orléans su richiesta di monsignor Dupanloup, l'analisi quantitativa dei penitenti del curato di Ars, le lagnanze espresse dai parroci in occasione delle visite pastorali, insomma tutte le fonti, portano a sottolineare la femminilizzazione del sacramento. Una tendenza accentuata dalla «confessione fatta in casa» (P. Boutry): al sacerdote spetta contemporaneamente il compito di vegliare sulla castità della ragazza, la fedeltà della sposa e l'onestà della domestica.

Durante la prima metà del secolo, la confessione dei bambini non interessa minimamente il clero francese. In Bretagna, osserva Michel Lagrée, viene praticata solo a partire dalla prima comunione, cioè non prima dei dodici anni. Nel 1855, da Roma vengono mosse delle critiche a questa limitazione. Il clero francese comincerà poco per volta ad adeguarsi alle nuove regole: nel 1861, il sinodo dei vescovi bretoni chiede che i sacerdoti accettino di confessare i bambini non soltanto formalmente. Ben presto, il ritmo delle confessioni infantili si accelera; alla fine del XIX secolo riflette quello degli adulti. Nel 1910, in seguito alla bolla Quam singulari, viene istituita nelle diocesi la comunione privata. Tuttavia nella diocesi di Saint-Brieuc, solo per fare un esempio, i fedeli manifestano una notevole resistenza nei confronti della nuova pratica.

I ragazzi, nella maggior parte dei casi, dopo la prima comunione smettono di frequentare il confessionale. Il distacco degli uomini varia, tuttavia, secondo le regioni; nella piana del Lys, alla fine del secolo, il 60 per cento degli uomini fa ancora la comunione nel periodo di Pasqua; ma, a pochi chilometri di distanza, nell'Ar-tois meridionale, è solo il 20 per cento. Per alcuni giovani operai, in particolare, l'esperienza della confessione risulta deludente. Nor-bert Truquin racconta con spirito come, nel suo unico tentativo, egli abbia piantato in asso il buon prete che insisteva nel chiedergli se «vedeva delle donne». Per ricondurre gli uomini ad una pratica abbandonata dalla maggior parte di essi, il clero non lesina gli sforzi, il più delle volte infruttuosi; e, se necessario, adotta un certo lassismo. Nel 1877, i regolamenti sinodali di Montpellier consigliano ai confessori di non far aspettare i signori, di evitare di indagare troppo sul capitolo lussuria e di applicare la massima indulgenza nei loro confronti.

L'evoluzione della teologia morale

Consigli che ricordano come vi sia stata una continua evoluzione nel corso del secolo tanto nella teologia morale che nell'atteggiamento dei sacerdoti. All'indomani del Concordato del 1801, e fino a circa il 1830, si assiste al trionfo di un rigorismo che sembra riferibile più alla tradizione del gallicanesimo che alla tradizione giansenista. I parroci sono ossessionati dall'idea della dannazione e dal timore della confessione sacrilega. L'attitudine rigorista si accorda al tono della predicazione sui fini ultimi. Il rifiuto oppure la proroga dell'assoluzione diventano pratiche frequenti. E colpiscono preferibilmente i peccatori pubblici e abitudinari, non quelli considerati dai teologi «occasionali» o «recidivi». Come stupirsi allora che gli asili siano affollati da donne, affette da monomania religiosa, che si torturano in un'infinita autopunizione e sprofondano nell'anoressia affinché Dio risparmi al resto dell'umanità il giusto castigo dei peccati?

Tale rigorismo del tribunale delle coscienze si basa sulla condanna di tutto ciò che deriva da quella socialità festiva o ludica che sfugge al controllo del clero. Il ballo, la brigata, i cortei della Bretagna, la taverna, la veglia contadina, il pranzo nuziale, i riti del corteggiamento giovanile, e perfino la semplice civetteria che rivela l'orgoglio del corpo scatenano i fulmini di cupi curati. Si rinverdisce il vecchio argomento dell'indecenza della «scollatura» ricordando la ghigliottina, terribile giustiziera dei vizi dell'Ancien Regime. E così mentre Jean-Marie Vianney insulta vecchi e giovani, il curato di Véretz proibisce il ballo ai suoi parrocchiani. E, ancora durante il Secondo Impero, il curato di Massac, nella Tarn, prima della messa si aggira fra le navate per controllare l'abbigliamento delle donne; e ad una di loro arriva a tagliare un ricciolo giudicato troppo sfrontato.

Tuttavia, a partire dal 1830, si opera una distensione. Durante i successivi venti anni, grazie all'opera di risoluti pastori, di cui rappresenta il modello monsignor Devie, vescovo di Belley, le dottrine di Alfonso Maria de' Liguori, tradotto da Thomas Gousset, conquistano progressivamente i seminari e i raduni ecclesiastici. La nuova teologia morale esorta il confessore alla prudenza e all'indulgenza e consiglia di non precludere al peccatore ogni speranza. Da quel momento, tranquillizzare le coscienze piuttosto che terrorizzarle sembra la via migliore verso la salvezza. L'influenza dei gesuiti, e in seguito di Lamennais, e più in generale gli sviluppi della religiosità d'oltralpe concorrono a favore di una umanizzazione del sacramento della penitenza. La massa dei fedeli comincia ad assimilare i più semplici dettami della teologia morale; di conseguenza non è più necessario che la voce del clero risuoni così cupamente; ecco allora il terribile curato di Ars, finalmente addolcito, che mescola le proprie lacrime a quelle dei penitenti.

Un parziale ritorno al rigorismo si verifica durante il Secondo Impero; i fulmini del clero questa volta si concentrano sulla sessualità all'interno del matrimonio. Mentre dal suo studio il dottor Bergeret intende svelare le «frodi coniugali», il clero decide di dar battaglia all'«onanismo degli sposi». Fra il 1815 e il 1850, osserva Jean-Louis Flandrin, la Chiesa aveva dato prova di una certa passività al riguardo. Si opera in quegli anni una «diffusione discreta» della contraccezione. Il controllo delle nascite si diffonde nella parrocchia di Ars non diversamente che nella diocesi di Le Mans; come ammette anche il suo vescovo monsignor Bouvier. Nondimeno i teologi di Roma continuano a ritenere che una moglie possa accettare il rapporto sessuale pur sapendo per esperienza che il marito pratica il coitus interruptus. Per la Chiesa questo lassismo è un mezzo per evitare che le donne siano vittime di sevizie e che l'uomo si rifugi nella fornicazione.

A partire dal 1851, l'atteggiamento di Roma diviene più severo; la rivalità che si instaura fra l'uomo e Dio per il dominio sulle fonti della vita genera inquietudine. D'ora in avanti, i teologi della Santa Sede condanneranno fermamente qualsiasi forma di cooperazione, anche passiva, da parte della donna il cui marito pratichi l'onanismo. La Chiesa di Francia si adegua a questa e-voluzione più rapidamente, sembra, di quanto supposto da Jean-Louis Flandrin. Àgli inizi del Secondo Impero, Monsignor Parisis invita il clero della diocesi di Arras ad una maggiore fermezza. A partire dal 1860, il nuovo vescovo di Belley adotta lo stesso atteggiamento. La sconfitta e la Comune del 1871 accentuano questo nuovo rigorismo. I confessori, fino a quel momento molto discreti per quanto riguarda i peccati della carne, si addentrano in interrogatori più incalzanti: non è più il tempo in cui su questo soggetto si imponeva di aspettare le domande del penitente.

L'insidioso potere del confessore

L'approfondimento dell'indagine si produce nel momento in cui si allarga l'offensiva anticlericale. Nel 1845, il libro di Michelet

Du prètre, de la femme, de la famille aveva aperto la discussione. Sappiamo in qual modo i romanzieri si siano impadroniti dell'argomento. Zola (La Consuete de Plassans), Edmond de Goncourt (Madame Gervaisais), George Sand (Mademoiselle de la Quintinie), Le Sàr Péladan (Le Vice supreme) pongono la confessione fra i problemi principali del momento. La campagna si sviluppa ad opera dei pubblicisti. Nel 1885, Leo Taxil e Karl Milo intervengono con Les Débauches d'un confesseur. La letteratura e la stampa anticlericale sfruttano a fondo questo tema, come Jean Faury ha ampiamente dimostrato a proposito della regione del Tarn. L'ostilità nei confronti del confessore scatena perfino alcune reazioni popolari: già nel 1839, i contadini di Dompierre-en-Dombes avevano presentato una petizione contro il parroco le cui domande erano troppo indiscrete. Le dicerie del paese non risparmiano il prete neppure nell'ombra del confessionale. D'altra parte è già un bel pezzo che nell'ambiente operaio lo spionaggio del parroco è avvertito come un problema quotidiano.

L'offensiva anticlericale si organizza attorno a quattro temi principali. Il potere insidioso di cui il confessore dispone blocca la libera realizzazione dell'individuo; il permanente bisogno di appoggio contrasta con l'autonomia della persona, su cui i neokantiani basano la vita morale. L'indiscreta volontà di sapere, espressa anche da indagini parallele presso familiari e vicini, porta ad un controllo totale anche sui ritmi più intimi del soggetto e rischia di portare ad una vera e propria cancellazione dell'essere, a ciò che Michelet definisce come «transumazione».

La messa in causa della sessualità clericale avviene in maniere diverse, talvolta anche contraddittorie. Forte della propria scienza dei peccati della carne, il confessore con le sue domande eccessive insinua nell'anima dell'innocente i primi turbamenti del vizio. Sconvolta e disgustata dagli argomenti del direttore spirituale, Suzanne Voilquin, a quattordici anni, decide di non volersi più accostare al sacramento della penitenza.

Ossessionato dalla donna, cui lo apparentano l'abito che indossa e la sua particolare sensibilità, frustrato tuttavia dal voto di castità, il prete rischia ad ogni momento di essere turbato, ma anche inebriato, dall'impudicizia della confessione femminile. E l'immagine del prete seduttore, una costante della letteratura anticlericale, gioca su questo tema. Soprattutto, mediante l'interrogatorio il confessore pretende di diventare il confidente dei piaceri coniugali; egli penetra nei più intimi segreti e con le sue intimazioni vorrebbe guidare quanto accade nel letto coniugale. Rischiando così di bloccare la piena realizzazione edonica della coppia. La troppo stretta sorveglianza esercitata sulla purezza della giovane può talvolta essere di ostacolo ai progetti matrimoniali; la parola del confessore può addirittura spingere al convento la figlia del libero pensatore.

Per il marito geloso della propria autorità, il sacerdote è diventato un concorrente. E non è certo a favore della libertà della donna che si battono gli anticlericali, a loro volta assetati di virtù femminile. L'ingerenza del prete disturba il loro senso della proprietà. Un intruso che vuole dettar legge nella vita privata, che, nel caso, abusa delle visite a domicilio, pronto ad approfittare del momento in cui la sposa gli aprirà la sua fragile anima, suscita una gelosia che assume le forme di un vero e proprio «maschilismo anticlericale» (Jean Faury).

La minaccia esercitata dal clero sui beni costituisce l'ultimo grande perno di questa battaglia. L'articolo 909 del Codice civile prevede infatti che il confessore non può ereditare dal suo penitente. Qualsiasi pio lascito verrà ormai considerato dagli anticlericali come una spoliazione.

La vivacità della disputa rivela tutta l'importanza della posta in gioco. La confessione, agli occhi dei suoi avversari, rappresenta un attentato all'accresciuta segretezza della vita privata, contrasta con gli imperativi della nuova etica individualista ed impedisce la libera realizzazione di quella coppia fraternamente unita che è il sogno di Michelet. Se il ricercatore fosse in possesso di tutte le fonti di questo dialogo attorno alla trasgressione e alla colpe-volizzazione potrebbe veramente toccare il nucleo più profondo della storia della vita privata.

La scoperta di un carteggio può talvolta aiutare a sollevare il velo rivelando la realtà dei drammi della confessione. Nel 1872-73, Eugène Boileau, giovane e ricco anticlericale che raccoglie i ritagli di stampa sui preti che danno scandalo, spiega, in una serie di commoventi lettere alla fidanzata, come egli si prospetta la loro futura unione. Indignato nell'apprendere che la giovane è terrorizzata da un confessore dall'ambiguo comportamento, che tenta di approfittare tanto di lei che dei suoi beni, le ordina di rompere ogni rapporto con questo triste figuro. I figli che nasceranno dalla coppia non verranno battezzati.

La confessione di problemi sessuali e il segreto medico

Bisogna ben valutare quanto allora si rivelasse difficile la confessione di una tara o malattia sessuale. Lo dimostra la rimozione che avviene nel linguaggio. Nella buona società le cose del sesso non vengono chiamate con il loro nome. Quando i romanzieri trattano dell'impotenza si limitano a far intravedere una prestazione non riuscita. La sifilide impone delle perifrasi: il malato «frequenta sainte Véronique»; a partire dal 1902 diviene un'avarie. L'espressione, non troppo cruda, presa dal teatro di Eugène Brieux, consente infine alle conversazioni salottiere di abbordare timidamente il paralizzante soggetto. Nelle 11.400 lettere della famiglia Boileau non si fa mai cenno a tare o deficienze sessuali; né si fa mai allusione alle malattie di petto, un argomento su cui pesano gli stessi tabù.

La letteratura medica conferma tale resistenza a riconoscere apertamente il problema. Alfred Fournier, autore della Syphilis des innocents cita il caso di una ragazza vergine, contagiata attraverso un bacio e che, con il corpo coperto di ulcere, aveva custodito in sé il terribile segreto. Un ufficiale si fa saltare le cervella, uscendo dallo studio del medico, pur di non dover scrivere alla propria casta fidanzata di essere affetto da sifilide. Un giovane uomo non sa risolversi a rivelare alla madre di essere contagiato; e gli risulta anche difficile parlarne con il padre. «Non aver timore a confessarmelo», scrive in proposito Marie-Laurent Odoard al figlio Henri, studente a Parigi.

In questo campo il confidente privilegiato, spesso unico, è il medico. Ma, anche nel segreto dello studio, la confessione è difficile. I professionisti lamentano in tutti i modi che non si riesca ad ottenerla dal giovane onanista. Bergeret deve esercitare tutta la sua pazienza prima che i clienti si decidano finalmente a confessare le loro «frodi coniugali». Le donne, come abbiamo già visto, sono piene di incertezze prima di consentire a farsi visitare con lo speculo. A partire dal 1880, la malattia sessuale diventa più ossessiva. Il dogma prevalente della «eredo-lues» alimenta l'idea di una guarigione impossibile; nello spirito del malato si consolida l'immagine di una discendenza di mostri, destinati a morte precoce. L'eugenetica sembra fortemente tentare l'Occidente. Il segreto medico vacilla.

A dire il vero pochissimi individui ne beneficiano appieno. La visita di leva diventa occasione di un esame pubblico. All'ospedale, durante la visita, i tisici vengono presentati al gruppo degli studenti; Charcot esibisce davanti alla buona società le isteriche della Salpétrière. I soggetti affetti da malattie veneree ammassati a Lourcine o al Saint-Lazare, i sifilitici raggruppati nelle corsie speciali degli ospedali o delle prigioni di provincia non hanno nessuna possibilità di nascondere il proprio stato. In campagna le dicerie si appuntano su colui che ha il «sangue marcio». Bisognerà arrivare agli ultimissimi anni del secolo e ai consulti di dermatologia dell'ospedale Saint-Louis perché la situazione si schiarisca e il popolo possa godere del nuovo privilegio di una relativa segretezza.

Nella borghesia, che costituisce la clientela privata degli specialisti, le cose vanno differentemente. Qui una tara genetica rischia di compromettere le strategie matrimoniali. La guarigione non è sufficiente a restituire ad un giovane noto come «debole di petto» tutte le possibilità di sistemazione. Il timore di una ricaduta o di una progenie compromessa continua a farlo considerare come un infermo; da qui l'importanza del segreto. La famiglia di Marthe teme che la supposta isteria della giovane normanna sia di ostacolo al matrimonio dei cugini di Borgogna. Per fortuna, l'articolo 378 del Codice penale impone al medico il silenzio.

Tuttavia, tra il 1862 e il 1902, l'imperante ereditarismo induce alcuni clinici a rimettere in discussione il principio. A loro avviso converrebbe come prima cosa impedire la procreazione di esseri degenerati. Da parte loro, i professori Brouardel, Lacassagne e Gilbert-Ballet propongono di ricorrere a dei sotterfugi. Suggeriscono ai genitori della ragazza di chiedere al fidanzato di sottoscrivere una assicurazione sulla vita; il che lo obbligherà a sottoporsi ad una severa visita medica. Brouardel consiglia anche di organizzare un incontro tra i due medici di famiglia; ognuno di essi esprimerà il proprio parere senza tradire il segreto professionale. Duclaux propone di obbligare il fidanzato a dare la sua parola d'onore... Una piccola minoranza di medici, guidati da Louis-Adolphe Ber-tillon, raccomanda il «casellario medico» o «dossier sanitario» individuale, nel quale verrà ricostruita la storia patologia del soggetto e quella dei suoi antenati. Alcuni discepoli di Galton propendono per la visita e un certificato che attesti che il celibe è «adatto al matrimonio». Ma non riusciranno ad imporre tale misura antecedentemente alla Prima guerra mondiale. Nel 1903, da una inchiesta condotta dalla «Chronique medicale» emerge che i professionisti sono contrari alla «legge sul matrimonio». Il gran momento del terrore dell'ereditarietà è passato, i discepoli di Pasteur, come vedremo, non provano più le stesse angosce degli allievi di Benedict Morel o di Prosper Lucas. Tale smacco serve anche a dimostrare con quanta cautela le classi dominanti intendessero allora proteggere la segretezza della vita privata.

La confidenza giovanile

L'isolamento imposto ai ragazzi e alle ragazze della borghesia, accuratamente tenuti lontani dalla socialità popolare e confinati in relazioni sociali estremamente codificate, è una forte spinta all'amicizia particolare e assoluta. La difficoltà della confessione avviva il desiderio di aprirsi con un amico d'elezione. La confidenza fra giovani, rispettosa della separazione sessuale, svolge qui un ruolo primario nella formazione della personalità.

La scelta di un'amica del cuore rappresenta un episodio importante nella vita di un'adolescente. Le madri favoriscono lo sviluppo di questi durevoli legami tra ragazze serie e aperte. Esse sperano che la solidità di questo rapporto, l'opposto della frivolezza delle amicizie mondane, costituirà uno di quei punti fissi che consentiranno alla giovane di orientarsi nell'esistenza. Mentre i riti della socialità giovanile tendono a scomparire, vedremo presto crescere anche nelle campagne un identico desiderio di un'amicizia privilegiata. Nelle famiglie cattoliche è il più delle volte sulla compagna della prima comunione che si cristallizza questo bisogno di un affetto inalterabile. Interrogate nel 1976, le vecchie di Bué-en-Sancerrois saranno concordi nell'esaltare il ruolo dell'amica della giovinezza.

Il distacco dal calore dell'ambiente familiare, la brutale immersione nella crudele atmosfera del collegio creano un bisogno vivissimo di avere un'amica del cuore. Dal tempo di madame de Maintenon, il regolamento favorisce la tendenza delle grandi a prendere sotto la propria protezione una delle giovani nuove allieve. George Sand ha descritto nei particolari le dolcezze di queste amicizie privilegiate. In un mondo chiuso, la segregazione sessuale, coltiva la gestualità ambigua delle inseparabili. Le ragazze si scambiano ritratti e giuramenti. Spesso sono amicizie che si riveleranno durature. Uscite dal collegio e immobilizzate nell'attesa del matrimonio, le «ragazze grandi» coltivano il rapporto con lo scambio di una fitta corrispondenza e frequenti visite. Infiniti sono gli esempi della solidità di -questi affetti. Eugénie de Guérin si meraviglia con se stessa per aver in tal modo intrecciato una vera e propria rete di ragazze sagge, affettuose e precocemente maturate dall'esperienza della morte dei familiari. Naturalmente, le cugine assumono spesso il ruolo di interlocutrici privilegiate. Nella famiglia Boileau, per eludere la curiosità dei genitori parlano fra di loro in inglese. Fra Nimes e Mercurol, Fanny e Sabine Odoard si scambiano mille piccoli segreti. In questo caso ciò che colpisce è il tono serio della corrispondenza; l'argomento non è il principe azzurro, ma scrupoli di coscienza, regole di vita. All'annuncio del colera, la giovane Fanny prende le proprie precauzioni, mette al sicuro le carte più intime e si prepara al passaggio nell'aldilà. Abituata a svolgere il ruolo di infermiera in seno alla famiglia e di angelo benefico presso i poveri del vicinato, la giovane di questo ambiente ha una certa familiarità con la sofferenza.

Lettere di questo tipo indurrebbero a dubitare della validità del topos, essenzialmente maschile, che rappresenta le ragazze ansiose di udire il velato resoconto della prima notte di nozze dell'amica. Dalla pubblicazione dei Mémoires de deux jeunes mariées (1842) a quella di Cherie (1889) di Edmond de Goncourt, la letteratura farà ampio uso di questo tema.

Ben diversa, ma non meno intensa, l'amicizia maschile germogliata nei pensionati, nei collegi o sui banchi dell'università. Sono giovani che già hanno conosciuto l'amore, ma spesso in forme degradanti. È loro impossibile parlarne in famiglia; non hanno più il sostegno della confessione e le loro partners sessuali non sono in grado di ricevere confidenze di tal genere; in ogni modo questi rappresentano l'Altro, la preda alla quale si evita di aprire il proprio animo. Questi giovani borghesi, pur sapendo nel fondo della propria coscienza che il loro destino sarà diventare avvocati o praticanti in uno studio notarile, coltivano grandiosi sogni di una sfrenata ambizione; aborrono la mediocrità; credono di essere chiamati a grandi cose. Sono pieni di orgoglio per la propria cultura. Tutti questi elementi contribuiscono a far sì che l'amicizia maschile divenga uno dei versanti dell'educazione sentimentale e sessuale, il versante cioè della rivisitazione, attraverso il linguaggio, dell'esperienza vissuta. Il che conduce anche ad accentuare l'elemento beffardo, ad esaltare le virtù del riso e dello scherzo. È questo il ruolo, svolto attorno al giovane Flaubert, dalla «franc-maçonnerie garsonnière» del collegio di Rouen (J.-P. Sartre).

Prima, la mobilità imposta ai giovani proletari delle grandi città dalla precarietà degli alloggi o del posto di lavoro aveva impedito

Lo sviluppo di quelle solide amicizie che sembrano ormai una prerogativa dei contadini, legati da durevoli vincoli di vicinanza, e dei borghesi, privilegiati dall'esperienza della privacy. I rari operai che hanno scritto delle memorie ricordano cameratismi occasionali, rapide simpatie sorte per qualche mese tra compagni di stanza o di officina. La fluidità e frantumazione del rapporto d'amicizia penetra fin nelle camerate degli emigranti stagionali. Ma questo è un argomento non chiarito che meriterebbe un più attento studio.

Connivenza tra fratello e sorella

Torniamo ora alla borghesia. In questa classe esiste una eccezione alla barriera fra i sessi: il rapporto privilegiato che può unire fratello e sorella, e la cui importanza mi sembra troppo di rado sottolineata. Il legame che unisce madre e figlia, rinsaldato dalla rigida differenziazione dei ruoli sessuali, ha indubbiamente contribuito ad occultare le forme giovanili del legame affettivo.

Il fratello è l'unico ragazzo con cui una giovane possa mostrarsi in confidenza; e la sorella rappresenta l'unica ragazza perbene conosciuta dal ragazzo nell'intimità. La severità della morale e il rigore del codice di frequentazione hanno l'effetto di esaltare l'importanza della fratellanza e insieme ridurne l'espansione sentimentale. I reciproci fantasmi alimentano una confidenza in tono minore in cui timore e desiderio di aprirsi si confondono. Flaubert nel rivolgersi alla giovane sorella Caroline, cui è legato da profondo affetto, abbandona le espressioni troppo libere e nel raccontare smussa i toni crudi.

La sorella, nella maggior parte dei casi in soggezione di fronte alla cultura e all'esperienza del mondo virile, tributa al fratello un'ammirazione rafforzata da un affetto trepido e quasi materno. Essa teme per lui la malattia, la perdita della fede, l'insuccesso. D'altronde i genitori contano su di lei per un'opera di moralizzazione nei confronti del figlio. La devozione di Eugénie de Guérin al fratello Maurice rappresenta una caso limite; ma si ritrova un sentimento analogo, anche se meno intenso, in Sabine Odoard, più legata, a quanto sembra, al fratello Henri, studente a Parigi che non allo scialbo marito impostole dalla famiglia. In tutti i due casi troviamo la stessa dissimetria sentimentale, le stesse continue lagnanze per le troppo rare lettere e per la scarsa confidenza.

La sorella rappresenta la molle e duttile cera su cui può esercitarsi il pigmalionismo del fratello, un modo piano di forgiarsi un doppio. In questo rapporto il «ragazzo» si fa i denti; gli viene così precocemente offerta l'occasione di dar forma ad un'immagine di ragazza dei suoi sogni, preparandosi a quella condizione coniugale che gli obblighi della sua posizione gli impongono di procrastinare. Si potrebbero citare all'infinito i modelli di coppie di questo genere che, a cominciare dal morboso legame tra René e Lucilie, si aggirano sull'orizzonte domestico. Balzac e Laure, Stendhal e Pauline, Marie de Flavigny e Maurice, assieme ai Guérin, possono essere citati quali illustri esempi. Fino a che il romanticismo ha esercitato una preponderante influenza, l'esaltazione di questo rapporto, partecipe del miracolo di due creature fatte l'una per l'altra e del mito dell'androgino, sembra essere stata più viva. Con la fine del secolo il legame tende ad allentarsi: la dolce e buona sorella maggiore genera in Jules Renard un senso di imbarazzo.

La circolazione dei segreti familiari

Come abbiamo visto, in quell'epoca la corrispondenza tra familiari è di una eccezionale frequenza. I membri dispersi del parentado non perdono i contatti. Una rete di rapporti, la cui conoscenza si deve alla fortuita conservazione in archivi, si intreccia altrettanto fitta fra gli Odoard di Mercurol e i Dalzon di Chandolas che tra i Boileau di Vigne.

Si tratta di un rituale d'obbligo che prepara le visite, accompagna gli scambi di regali e favori basati sulla complementarietà geografica e funzionale. Attraverso le lettere si trasmettono notizie sulle persone, raccomandazioni, informazioni finanziarie, consigli. Scambi da cui emerge in filigrana una gerarchia familiare, che può essere determinata dal rango di nascita oppure basarsi sul successo personale. Aimé Dalzon, ingegnere a Saint-Etienne, ha fatto una carriera piuttosto brillante. Fratello ammirevole, prova un sollecito affetto per Arsene, rimasto al paese. Aiuta da lontano la sua famiglia, si fa carico di numerose formalità amministrative, descrive al fratello i nuovi materiali per la sericoltura, gli indica le prevedibili oscillazioni delle quotazioni della seta, lo aiuta a trarre vantaggio dalle relazioni di suo suocero. È lui che sceglie il collegio per i nipoti e le nipoti.

Sono corrispondenze dell'età matura, avare di confidenze e di confessioni individuali. Non vi si fa cenno alla propria vita sessuale. Il lettore vi trova un maggior riserbo e minori illusioni. In queste esistenze ordinate, le «sciocchezze» sono, indubbiamente, divenute più rare. In compenso, a parte il caso dei Boileau, estremamente parchi di confidenze e le cui lettere vengono lette ad alta voce al cospetto della cerchia degli intimi, vi è una continua circolazione di segreti familiari. Il «cadavere nell'armadio» delle tare di famiglia ossessiona i responsabili della sfera domestica. Per gli Odoard è la malattia di mente del primogenito, Auguste, oppure sono le malefatte dello zio ecclesiastico, il quale — non si saprà mai perché — si è visto obbligato a cercar rifugio in un convento di trappisti. Nella corrispondenza della famiglia di Marthe il faticoso scioglimento dei segreti assume un andamento farsesco. La «colpa» della ragazza, amante di un cocchiere, è dichiarata apertamente fin dall'inizio, nel 1892; ma solo poco per volta il lettore sente crescere la confessione della sifilide del defunto genitore. Le allusioni a mezza bocca alla «disgrazia» della madre, l'isteria della figlia generano il sospetto, finché il genero non vuota decisamente il sacco. Si cominciano allora a capire i timori sul matrimonio dei cugini; si scopre la triste sorte della sorella Eléonor, condannata a restare zitella e di cui, dopo morta, si oserà dire che era leggermente idrocefala. In confronto a questa tragica atmosfera, la figura della zia Dide dei Rougon-Macquart sembra leggermente edulcorata.

Dinanzi alla colpa e alla tara la famiglia fa blocco. Attorno al segreto si manifesta una solidarietà totale. Il tornare continuamente a parlare della disgrazia all'interno della cerchia parentale cementa e allo stesso tempo controbilancia il rifiuto della fuga; fagocita la tentazione della confessione pubblica. È singolare che all'interno della borghesia si ritrovino alcuni comportamenti individuati dagli etnologi come propri del mondo contadino. Per queste famiglie di notabili, come per gli oustaux del Gévaudan, il segreto della vita privata condiziona il «capitale-onore» e di conseguenza il successo delle strategie. Nei due casi l'essenziale è penetrare i segreti dell'altro. Ma mentre i Lozériens mandano i più giovani al caffé per raccogliere le dicerie utili a precisare una tattica, le famiglie borghesi, quando si tratta di scoprire le tare di un qualsiasi candidato al matrimonio, mettono in azione una serie di canali di informazione di cui conosciamo la complessità.

L'educazione sentimentale e le frequentazioni tradizionali

L'amore romantico

La configurazione del sentimento amoroso, i comportamenti da questo ispirati sono rivelatori dei sogni erotici come delle tensioni che traversano la società. E anche in questo settore, modelli immaginari e pratiche sociali subiscono una evoluzione continua. La storia contemporanea ha invece trascurato questo aspetto dei modi di essere. Con un eccessivo amore per gli elenchi di dati, ha prediletto l'analisi quantitativa delle gravidanze pre-nuziali allo studio dei carteggi privati.

Le antiche prigioni si rivelano ancora ben munite; è quindi opportuno non perdere mai di vista i vecchi codici che, larvatamente, contribuiscono a dettare le leggi dei sentimenti. L'amore cortese con i suoi schemi di comportamento, il neoplatonismo del Rinascimento e la sua antropologia angelica, l'argomento classico dell'uragano delle passioni, la condanna del «folle amore» da parte dei chierici della Riforma cattolica pesano, al di là della consapevolezza individuale, sul comportamento degli innamorati del XIX secolo. Evidentemente, ancora più condizionanti si rivelano i sistemi ereditati dal secolo dei Lumi. Il pensiero dei metafisici sull'essenza dell'anima; le teorie dei medici e degli psichiatri sulla struttura della passione, l'esistenza delle due nature sessuali e i pericoli dell'eccesso fisiologico; l'opinione dei teologi in merito alla gravità relativa della colpa sessuale plasmano i comportamenti amorosi.

Il punto essenziale resta sempre l'elaborazione e poi il declino dell'amore romantico. Le multiformi e mutevoli teorie che definiscono le modalità del legame fra anima e corpo costituiscono il retroterra di questa nuova organizzazione del sentimento amoroso; ma su questo argomento non è 'più il caso di tornare. E più opportuno soffermarsi sulla bipolarità della natura femminile, assolutamente indispensabile alla comprensione della mentalità dell'epoca. Segnata dall'infamia dell'antico patto con il demonio, la figlia di Eva rischia ad ogni istante di precipitare nel peccato; la sua natura stessa richiede di essere esorcizzata. La donna, più vicina al mondo organico, gode di un'intima conoscenza dei meccanismi della vita e della morte. Essa che tende a identificarsi con la natura, vive permanentemente sotto la minaccia di quelle forze telluriche la cui esistenza è manifestata dagli eccessi della ninfomane e dell'isterica. Quando queste lave ribollenti si riversano senza freno, il sesso debole si scatena, insaziabile negli amori, fanatico nella fede, spaventoso come un folle agitato. Ispirati da questo sistema di rappresentazione, la cui struttura risale all’Ancien Regime, gli artisti della seconda metà del XIX secolo porranno l'accento sull'enigma della femminilità. Marmorea e bestiale insieme, cinta dal serpente, gli occhi accesi da una luce ferina, la donna-sfinge corrisponde al codice ieratico del modem style, quale è stato brillantemente analizzato da Claude Quiguer. I romanzieri, soprattutto Zola, faranno slittare questo modello di femmina divoratrice fino all'interno delle classi popolari dei sobborghi. Per gli uomini di quel tempo, ossessionati dalla parura della donna, si impone più che mai di domare la sessualità della propria compagna e sottometterla all'ordine maschile.

A questo punto interviene il codice religioso. La discendente di Eva è anche la figlia spirituale di Maria. Si traccia in tal modo il polo bianco della femminilità. Già il metodismo aveva esaltato l'immagine della redentrice. Il secolo XIX cercherà in lei l'angelo custode dell'uomo. Aperta alla pietà, nata per la carità, la donna ha il compito di farsi messaggera dell'ideale. È qui palese l'influenza dello spiritualismo di Martineau. L'esistenza incontestabile di esseri immateriali — gli angeli — implica quella di creature intermedie senza le quali il divino ordinamento per gradi sarebbe discontinuo. La donna ha la vocazione di elevarsi per occupare questo ruolo di mediatrice, per poi chinarsi sull'uomo e rivelarsi a lui in celesti apparizioni.

Già prima della promulgazione del dogma dell'Immacolata Concezione (1854) e della promozione del culto connesso alle apparizioni della Madonna (1846-1871), la letteratura religiosa e la pittura mistica esprimono una fuga dalle pesantezze della carne, uno slancio verso angelicate trasparenze. Aspirazioni di cui si fa interprete la pittura di Louis Janmot, nutrita della cultura dell'illuminismo lionese, soprattutto nella bella serie Virginitas. La giovane donna leva lo sguardo verso il cielo, si fa garante di una comunicazione fra il proprio compagno e il mondo invisibile. In questa prospettiva, l'amore sarà il secondo cielo, l'affinità vissuta nella comune avventura spirituale.

Uno stretto legame si stabilisce tra i modi della confessione e la dialettica amorosa, come se — osserva Lucien-Frappier-Mazur — il rimosso seguisse, per emergere, le stesse vie associative utilizzate al momento della rimozione. L'esperienza romantica dell'amore assume dal sacramento il linguaggio religioso della confessione, la funzione redentrice della sofferenza, l'attesa della ricompensa. Qui è la donna a detenere il magistero spirituale, è lei a dimostrare la validità delle scelte.

Ma l'amore romantico rimanda ad una complessità più problematica; il linguaggio religioso si combina con il nuovo statuto della passione. I disordini del cuore, la bufera dell'essere, il turbamento, insomma tutto il codice elaborato al più tardi nel XVII secolo e riproposto fra il 1720 e il 1760, è ora come relegato sullo sfondo. Soprattutto in Francia, fra il 1820 e il 1860, si opera una vera e propria reinvenzione del sentimento. La passione è ora solamente energia; essa provoca quello choc elettrico dell'essere che prelude all'amore. Questo legame tra due individui, e insieme comune penetrazione all'interno di una magica sfera, garantisce il passaggio dall'ordine naturale all'ordine poetico. È un sentimento che comporta un'affinità spirituale così intensa da generare in ognuna delle due parti la certezza di un accordo eterno. «L'amore nella sua pienezza — scrive Paul Hoffmann — sfugge al reale e vive ai confini della vita, laddove si confondono presenza e assenza, il volto dell'essere amato e le immagini del ricordo e del sogno».

Spetta alla donna provocare nell'uomo questo risveglio, questa «turbolenza dell'anima», tenere in vita l'inestinguibile nostalgia di un mondo ideale. Rousseau ha proposto all'età romantica questa perfetta compiutezza, ha riproposto il mito di un androgino spirituale; e sarebbe molto riduttivo vedere Sophie esclusivamente come la proiezione maschilista di una compagna asservita. Questa riattualizzazione dell'antica nostalgia della primitiva indivisione, della totalità originaria e mitica genera quella sorta di indeterminatezza sessuale dei due protagonisti, cosi evidente nelle pitture di Janmot. Un confondersi degli esseri da cui scaturisce lo slancio fraterno verso l'ideale.

Allora il cerchio si chiude e riappare inatteso il polo oscuro della femminilità. La vergine eterea, diafana, nega a tal punto la sessualità del proprio compagno da diventare una immagine inquietante, insidiosamente castratrice. L'uomo si ritrova vittima di colei che egli ha innalzato al livello degli angeli per meglio esorcizzarne l'animalità.

Lo choc dell'incontro

Da quel momento la letteratura di maggior diffusione propone dei modelli di comportamento, traccia degli itinerari spirituali, esemplifica la nuova struttura dell'amore. Si assiste alla proliferazione di alcuni clichés; l'emozione dell'incontro, l'«apparizione» della donna, l'irruzione della leggiadra immagine fuggente. Contemporaneamente si rinnova lo scenario amoroso: al boschetto si sostituisce il viale nel giardino, il sentiero che accompagna l'approccio alla natura. La parola diviene mediata; privilegia il messaggio a distanza. Il primo incontrarsi degli sguardi che si incrociano e si attardano, la musica lontana della voce, il naturale profumo che filtra attraverso le vesti leggere garantiscono la tutela del pudore femminile e forgiano indistruttibili catene.

L'amore romantico modifica lo statuto della dichiarazione, e-saspera le reazioni della vergogna, instaura nuove procedure deliberatorie. La manifestazione del desiderio maschile trasgredisce totalmente il codice angelicato; da lì nasce il raffinato erotismo del sistema. Alla parola, che sarebbe troppo scandalosa, supplisce lo sguardo, il sorriso, al massimo lo sfiorarsi; il turbamento, il rossore, il silenzio prolungato sono altrettante risposte.

Il tutto fa parte del processo dell'educazione sentimentale, topos di questa letteratura. È una esperienza attraverso cui si manifestano le difficoltà della crescita. La donna interviene a colmare la perdita di un amore materno contrastato. Il conforto da lei apportato, la totale confidenza da lei ispirata consentono il miracolo di una seconda nascita, il ritorno al paradiso, guadagnato per mezzo della sofferenza iniziatica che ha preluso all'incontro. Madame de Warens, madame de Renai, madame de Cousèn, madame de Mortsauf, e tante altre ancora formano una coorte di seconde madri che devono deliberare sul desiderio di iniziazione amorosa. L'impossibile piacere materno, la temibile immagine ca-stratrice che si nasconde dietro il personaggio chiave di questa educazione sentimentale gravano di un pesante tributo la piena realizzazione della sessualità romantica.

Dopo il 1850, mentre i buoni dizionari, come quello di Pierre Larousse, continuano a manifestare una costante fedeltà al primato idealista, il modello dell'amore romantico si disgrega. Il terreno semantico del sentimento non è mutato nei suoi elementi ma tende a disorganizzarsi. Il fallimento della generazione del 1848 sfocia nell'ironia flaubertiana, che in questo campo segna la caduta delle credenze angeliche. Le vie dell'educazione sentimentale si chiudono. La perdita della fede nell'amore romantico accompagna la sua diffusione, potremmo dire la sua democratizzazione; è divenuto un oggetto di consumo, quasi una merce di scambio. Nelle fantasie di Emma Bovary e del suo amante Rodolphe, quando l'avventura si conclude, gli elementi costitutivi del sentimento sembrano scivolare via portati dalla corrente. Lo stesso accadrà durante tutto il successivo mezzo secolo. Mentre la sfinge prevale sull'angelo, un insieme confuso e fluttuante di sensazioni, di sogni, di ricordi e di paure si sostituisce all'irrefrenabile slancio verso l'ideale.

La realtà dei comportamenti

Lo studio delle esperienze di vita si impone come un impegno non differibile agli storici, che ormai ben conoscono i percorsi dell'immaginario. Le prime ricerche, anche se rare, sono sufficienti a mettere in evidenza tanto l'ascendente dei modelli che lo scarto esistente tra l'elaborazione e la loro traduzione in comportamenti.

Nicole Castan osserva che, sul finire del XVIII secolo, perfino tra il popolo si diffonde il linguaggio dell'amore-passione; si fa già appello alla forza dei sentimenti e agli slanci del cuore. Si impone una nuova retorica, riferita ai più diseredati. Interrogati, anche i peggiori analfabeti parlano dei «giuramenti più teneri» e di «pianti dirotti» e già si. avverte in questi ambienti un'eco della Nouvelle Héloìse.

L'analisi di un corpus di lettere intime degli inizi del XIX secolo rivela a Jean-Marie Gautier la violenza del linguaggio della passione all'indomani della Rivoluzione. L'«amore travolgente» singhiozza; la gelosia prende le forme della demenza; la potenza del sentimento genera la tentazione della morte. Insomma, mentre si opera la privatizzazione del pianto, nel comportamento si esaspera il codice classico del turbamento. Ma, contemporaneamente, si diffonde il linguaggio dell'angelismo; la metafora religiosa è frequente nel modo di parlare: l'amante è una creatura celeste; il culto che le si tributa, una adorazione.

Circa mezzo secolo dopo (1850-1853), un linguaggio analogo si ritrova nelle frange della piccola borghesia. Il giovane Jules Odoard si scopre perdutamente innamorato di una maestrina di campagna, figlia di contadini. La passione è burrascosa. La corrispondenza, fittissima, ne rispecchia le lacerazioni. L'innamorato invia all'amante «baci di fuoco». I due giovani paragonano i loro cuori esulcerati al cuore sanguinante di Gesù dell'iconografia romantica: «Mio Dio... sia fatta la vostra volontà», scrive Jules, privato del «divino balsamo» rappresentato per lui dal corpo dell'amante.

Non è questa la sede adatta a tentare una classificazione dei comportamenti. Sarebbe tuttavia possibile una analisi sistematica. Le passeggiate in giardino, gli sguardi, le confessioni, le strette di mano costituiscono i passaggi obbligati degli amori nascenti di Victor Hugo e di sua figlia Adele; e i gesti della passione di Stendhal per Métilde non oltrepassano questo confine. Il rigido Francois Guizot nella giovinezza sperimenta una educazione sentimentale che ricalca il modello romantico. Hippolite Pouthas ha ricostruito la passione del giovane protestante per un'amica della madre; e il futuro ministro fu sul punto si suicidarsi per la delusione.

«Far l'amore» al paese

Parlare del sentimento amoroso nella società contadina può, di primo acchito, far supporre che ci si addentri in un universo totalmente differente. Presso i contadini del XIX secolo non si parla delle proprie emozioni. Nelle scarse lettere inviate alle mogli dagli emigranti stagionali del Limousin il linguaggio del cuore tace; l'argomento principale è la coltivazione della terra.

Detto questo, è necessaria una estrema prudenza: i testimoni osservano questi ambienti con l'occhio dell'etnologo, velato dai pregiudizi. Ispirati dall'antropologia dell'epoca dei Lumi, vedono il contadino come un selvaggio, ritardato nel cammino della civilizzazione dalle necessità di adattamento all'«ambiente». Gli osservatori, dubbi discepoli di Condillac e degli ideologi, sono anche convinti che fra gli organi si eserciti una sorta di concorrenza; la forza, al limite la violenza, imposta dal lavoro manuale, le cattive condizioni igieniche in cui trascorrono l'esistenza ostacolano la delicatezza dei sensi e quindi quella dei sentimenti. La fibra meno sensibile impedisce l'affinamento dell'anima. Così questi testimoni decretano che il contadino può rivelarsi accessibile alla passione soltanto sotto una forma mostruosa. Questi appare loro totalmente sordo a quell'amore romantico che presuppone la delicatezza dei messaggi. Per i sostenitori del vitalismo, l'aspetto nodoso dell'involucro corporeo è sufficiente a provare la povertà dell'anima. Nel popolo l'amore si riduce alla rudezza dell'istinto e all'accecamento dell'abnegazione.

Ormai da tempo etnologi e storici hanno spiegato tale sistema di rappresentazione. E sono riusciti a individuare come l'amore fosse riconosciuto nella società rurale; «se ne parla, lo si fa» scrive in proposito Martine Ségalen. Però funziona secondo un altro codice; ed è questo che ha sviato i testimoni. Si manifesta inoltre in maniera differente secondo le regioni.

Il sentimento si esprime scarsamente attraverso il linguaggio, si estrinseca piuttosto nel gesto. In occasione di una festività, di una fiera o di una festa di ingaggio, di una veglia e dell'uscita dalla messa ci si nota l'un l'altro, ci si piace. L'innamorato è avaro di parole; non riesce a confessare la propria inclinazione che per via di antifrasi: la manifesta attraverso ingiurie scherzose o con grossolane battute. Una serie di gesti scandiscono l'itinerario amoroso. Si serrano le mani fino a farle scricchiolare, si torcono i polsi, si strofinano guancie o coscie; pesanti manate sulla spalla, spintoni, lanci di sassi manifestano chiaramente la reciproca inclinazione. Ognuno conosce il significato di questi comportamenti come anche la graduazione dei comportamenti di risposta.

Se i giovani sono ben accetti alle famiglie, potranno «far l'amore» cioè corteggiarsi. Da quel momento la «frequentazione», rigidamente ritualizzata, diviene oggetto di sorveglianza da parte del gruppo sociale. È un corteggiamento che si svolge prevalentemente in silenzio. Se necessario si vale delle tecniche sessuali dell'attesa, anche esse codificate e sorvegliate, ma questa volta dal gruppo dei giovani. Il «maraichinage», il «mignotage» e il «fouillage» della Vandea, termini dialettali con cui si indicano baci e carezze piuttosto spinti, ne rappresentano, come vedremo in seguito, i modelli più noti. Ma anche senza arrivare a queste forme di masturbazione reciproca, la ragazza può lasciarsi «strofinare»; concede al ragazzo «le haut du sac», cioè di farsi carezzare il seno.

Le difficoltà dell'interpretazione

Si tratta di comportamenti ormai ben noti, che, ciò non di meno, sollevano svariati problemi. Sarebbe in primo luogo opportuno distinguere nettamente tra frequentazione sessuale di gruppo, che può portare a «carezzare» senza gran partecipazione una compagna occasionale, e frequentazione personale che esprime una precisa inclinazione e che si svolge secondo altri ritmi. Bisogna anche stare attenti a non confondere la rappresentazione pubblica della dichiarazione, spesso molto ritualizzata, e la antecedente seduzione che può essersi svolta in modo molto più discreto di quanto non lascino intendere gli etnologi. La sorveglianza delle mucche, le andate alla messa o al mercato, tutta una rete di incontri quotidiani autorizzano una complicità che precede il teatro sociale. L'essenziale del sentimento trova certamente modo di esprimersi in questi interstizi del controllo.

Edward Shorter ha centrato il problema. A suo avviso, a partire dal XVIII secolo si è verificata una prima rivoluzione sessuale. Poco per volta, i giovani hanno avvertito il desiderio di emanciparsi tanto dai rituali o dai controlli esercitati dai gruppi, divisi secondo fasce generazionali, che dalle strategie di famiglia. Favorito dall'esodo rurale e dalla destrutturazione del sistema contadino, il progresso della spontaneità nelle relazioni affettive e quello dell'empatia fra i partners, hanno tracciato un nuovo modello popolare, maggiormente individualista, di comportamento amoroso. La diffusione del romantic love è troppo in sintonia con quanto visto perché sia pertinente avanzare delle critiche.

Non si deve però ritenere che l'accettazione del codice imposto dalla società tradizionale equivalga ad un'assenza di sentimento individuale. Non sempre le strategie familiari contrastano l'empatia. Come nota Pierre Bourdieu a proposito della zona del Bearn, queste lasciano abbastanza spazio da consentire all'inclinazione individuale di affermarsi. Non bisogna considerare come ingiunzioni delle semplici raccomandazioni suggerite dalla precedente riuscita o fallimento delle procedure. Le norme di famiglia erano inoltre interiorizzate dalle parti in causa fin dalla prima infanzia; esse inoltre servivano a dare ordine alla vulnerabilità sentimentale.

E questo è stato un bene per i giovani di campagna del XIX secolo, in quanto, come sappiamo, le strategie matrimoniali, rinvigorite dalla prosperità, lungi dall'affievolirsi, sono divenute sempre più categoriche, in particolare per quanti potevano contare su una eredità. Infatti il solco che separa i membri della comunità familiare si approfondisce; la libertà concessa ai cadetti fa da contrappeso all'accentuato impegno competitivo imposto ai maggiori. Per lo stesso processo, le figlie degli operai a giornata godono di maggiore libertà di azione rispetto alle «ereditiere». Nelle campagne del Pas-de-Calais, osserva Ronald Hubscher, l'amore ispirato da queste ragazze consente ad alcune di loro di elevarsi socialmente.

È inoltre opportuno non minimizzare la tardiva accentuazione della separazione dei sessi, risultato dell'offensiva clericale che tocca la punta massima tra il 1870 e il 1880. La severità del controllo che, in alcune regioni rurali, si esercita in quegli anni sui giovani mostra a qual punto il processo di emancipazione non abbia avuto uno svolgimento lineare.

Certamente non è mai esistita una più rigida sorveglianza sul pudore delle ragazze di quella esercitata a Buée-en-Sancerrois alla vigilia della Prima guerra mondiale.

Intanto il comportamento amoroso si cala sempre in un modello prestabilito; è obbligato a tener conto di imperativi socioeconomici. Il fin troppo noto desiderio di libertà equivale, il più delle volte, all'adozione di un comportamento prefabbricato. Edward Shorter ha sicuramente ragione quando ritiene che «l'amore da romanzo» sia più individualista dei tradizionali amori contadini, non per questo bisogna sopravvalutarne la spontaneità. Stiamo attenti a non esagerare la libertà del contadino trasferitosi in città. Si tratta di un vecchio stereotipo elaborato da borghesi preoccupati di fronte allo sviluppo di classi ritenute pericolose e piene di vizi. Un luogo comune ulteriormente accreditato dall'ignoranza degli storici sui canali di inserimento e sui rapporti di vicinato che inquadrano l'immigrato. Nei quartieri urbani, all'interno delle colonie regionali, funzionano delle procedure di controllo, circolano delle voci che limitano la libertà dei comportamenti.

Degradazione del codice romantico

L'essenziale sarebbe analizzare i processi di discesa dell'amore romantico verso il basso della piramide sociale. La Chiesa propone ai comunicandi sogni angelici. L'influenza delle romanze e di quelle operette, che a quanto riferisce un osservatore, diventano popolari nelle campagne del Limousin a partire dalla Monarchia di luglio, il successo del melodramma con Margot in lacrime, i romanzi presi in prestito e letti in ufficio, in un secondo tempo il romanzo d'appendice rappresentano altrettanti canali attraverso i quali circola il nuovo immaginario sentimentale. Marie-Dominique Amaouche-Antoine dimostra come, dopo il 1870, il repertorio del caffè concerto e dei guitti abbia condizionato la sensibilità degli abitanti della alta valle dell'Aude. Agli innamorati in cerca di un modello la cartolina postale proporrà, dopo il 1890, un sistema prefabbricato di atteggiamenti, una messa in scena del sentimento, e gli emblemi della festa di San Valentino. Attraverso la cartolina la dichiarazione d'amore si democratizzerà.

L'asimmetrico concubinaggio che, in attesa del matrimonio, lega la sartina allo studente dà forma alla sessualità dell'età adulta. Ma queste unioni disarmoniche hanno anche accelerato la diffusione delle rappresentazioni romantiche dell'amore e della voluttà. Il giovane borghese, talvolta senza nemmeno accorgersene, insegna mimiche e atteggiamenti che rinnovano il teatro amoroso delle piccole operaie. Le pose disinvolte, gli incontri sul sofà, la serata nella saletta riservata diventano anche un modo per impadronirsi del codice romantico.

Gli amori carnali in epoca romantica

A rischio di essere alquanto schematici, è opportuno tentare un taglio cronologico in questo difficile terreno, continente nero protetto da una pesante cappa di silenzio, ancora oscurato dal tenace pregiudizio secondo il quale il sesso sfugge alla storia. Ancora una volta, negli anni attorno al 1860, ci troviamo di fronte ad una svolta. Cominciamo dunque da quella prolungata prima metà del secolo che va dal Consolato ai fasti dell'Impero.

Le figure della voluttà

Il linguaggio della sessualità guida i sogni, regola i modi di agire. Non tenerne conto equivale, senza scampo, a precipitare nell'anacronismo. Secondo Bronislaw Baczko, il termine «sessualità» comincia ad apparire soltanto nel 1859 — forse nel 1845. Indica allora esclusivamente il carattere (o i caratteri) di ciò che è sessuato. Prima dell'elaborazione della scientìa sexualis si parla di «amore», di «passione amorosa», di «desideri» e di «istinti genetici», di «atti carnali» e di «atti venerei», i medici parlano di copulazione e di coito. Evocare i gesti dell'amore fisico è sempre un quasi-monopolio dell'uomo. Ma anche il linguaggio maschile è costretto ad adottare delle perifrasi. Soltanto il medico può parlare apertamente di sesso; lo autorizza il concetto di «istinto genetico». Dissociata dalla passione, la sessualità, assimilata in tal modo a una forza necessaria alla riproduzione della specie, acquisisce uno status inferiore che autorizza una certa disinvoltura nei confronti di tutte le forme degradanti della relazione amorosa.

I medici si sforzano di codificare i piaceri coniugali; il che fornisce loro l'alibi per soffermarsi con un certo compiacimento sulle forme dell'orgasmo. E già i loro fulmini cominciano ad abbattersi sui comportamenti devianti, visti come «aberrazioni» dell'istinto genetico. Al momento, tale volontà di allargare il campo della patologia si esercita principalmente a spese dell'onanista.

L'amore fisico ossessiona il romanzo e la poesia. L'oscenità, onnipresente e insieme nascosta nelle perifrasi del testo, impone al lettore una continua decodificazione che alimenta il piacere della trasgressione. L'ellissi, la litote, la perifrasi oppure la metafora fanno lavorare l'immaginazione. Secondo tali schemi funzionano le evocazioni del parossismo del godimento. In questo tipo di letteratura, si «prende una donna» che «si concede»; mentre la «gioia» — in un caso il coito e nell'altro l'orgasmo — è fatta di «indicibili godimenti», di «inaudite delizie», di «un piacere folle, quasi convulso». II romanzo abborda, o quanto meno sfiora, aspetti segreti della sessualità, trascurati dal discorso libertino; fa intravvedere la frigidità, l'impotenza; si crogiola negli scandali dell'inversione.

Il riso propone aggiramenti di altro tipo. La «franca», la «sana» allegria serve da pretesto alla «storiella licenziosa», alla «facezia». Una vigorosa letteratura canzonettistica, ispirata al secolo galante, si sviluppa fra la piccola borghesia e le frange dell'ambiente popolare; la sua pretesa è di spezzar via le malinconie dei pessimisti.

II doppio senso consente di «velare» l'argomento; così funziona il gioco di parole consistente nell'inversione di una lettera o di una sillaba in una frase che, a sua volta, valorizza l'allusione oscena per mezzo dello sforzo imposto all'immaginazione. Si tratta di un genere che riflette l'amore narcisistico del sesso maschile. «Lo chansonnier — scrive Marie-Véronique Gautier — sogna una donna perennemente vogliosa, gli occhi inchiodati sullo strumento del suo piacere». È un campo in cui prolifera la metafora eretico-guerresca . La ragazza non'fa altro che «deporre le armi»; il piacere maschile si riduce ad un «tiro al bersaglio».

La bipolarità femminile modella le configurazioni della voluttà che ossessionano l'immaginario. Essa impone un incessante avanti e indietro fra idealizzazione e degradazione; il ritmo cardiaco di una sessualità che, come osserva Jean Borie, conduce inesorabilmente dai postulati serafici e appassionati alle scorribande al casino. Il codice dell'amore romantico impone alla donna una angelica purezza del letto che oggi potrebbe far sorridere. I tabù che gravano sulle manifestazioni del desiderio femminile obbligano l'amante a fingersi una preda che non potrebbe mai «arrendersi» se il vigore dell'assalto non servisse almeno a giustificare la «sconfitta». Un corpo troppo eloquente nella voluttà, dopo l'«estasi», deve assumere le pose redentrici della purezza. Louise Colet non si atteggia a verginella; è lei ad assalire il giovane Flaubert nella carrozza. Tuttavia al termine della loro prima scena d'amore, in un albergo di fortuna, resta stesa sul letto «i capelli sparsi sul cuscino, gli occhi al cielo, le mani giunte, dicendogli] parole insensate». «Nel 1846 — osserva Jean-Paul Sartre nel commentare la scena — una donna della società borghese quando ha finito di fare la bestia deve fare l'angelo».

Il senso dell'inferiorità sessuale maschile suscita allora nell'uomo una crescente ansia. La descrizione delle voluttà di un personaggio di de Musset si discosta decisamente dal trionfalismo di un Restif. I testi ormai tendono ad accentuare le attitudini parossistiche: i medici, al pari dei romanzieri, insistono sul totale slancio dell'essere, l'estasi, o piuttosto l'annientamento, e persino — o soprattutto — la degradazione. Il godimento devasta Namouna, come indicano «un leggero tremore, un estremo pallore, / un convulso nella voce, una bestemmia, / parole confuse balbettate a mezza voce [...]».

Questa figura romantica della voluttà, derivante alla lontana dall'astio verso il piacere alla Sade da cui si origina, si accompagna tuttavia ad una ossessiva computisteria coitale, suggerita dal timore dello sfinimento e del deperimento. Il borghese dell'epoca ha bisogno di rassicuranti exploits o, quanto meno, della prova matematica di una costante regolarità. Il fatto che Vigny, Hugo contassero i propri orgasmi, che Flaubert tenesse un conto delle proprie prestazioni, che Michelet stendesse un bilancio annuo della propria attività genitale fa pensare che fosse diffuso nel loro ambiente questo tipo di registro contabile dell'amore.

Si tratta di un teatro della voluttà, in cui estasi e degradazione si confondono, che si svolge ai margini. All'interno dei bordelli, nella casualità di incontri nelle strade, in mezzo ai fasti della cortigianeria, in alcuni casi nei piaceri dell'adulterio prendono forma le modalità del godimento; ed è questo l'itinerario che noi cercheremo di seguire, lasciandoci guidare dalle molteplici configurazioni della coppia.

La richiesta pre-coniugale

E’ opportuno, come prima cosa, ricordare alcuni fatti storici che condizionano l'incontro. Nel XIX secolo l'intervallo che separa la pubertà dal matrimonio è sempre lunghissimo; tanto più considerando che l'età delle prime regole si abbassa in media di circa due anni. L'allungarsi della vita media impone di attendere per un tempo maggiore l'eredità che consentirà il matrimonio. Da ciò l'entità del celibato, e soprattutto la costituzione di ghetti urbani che determinano una intensa domanda pre-coniugale. Gli emigranti stagionali, raccolti in camerate nel centro della capitale, i militari di guarnigione, gli studenti, gli impiegati e i commessi di negozio dalle rendite insufficienti a mettere in piedi il ménage piccolo borghese cui aspirano, esercitano una costante pressione sulla virtù femminile; per non parlare degli immigrati definitivi che si accalcano nelle città della Monarchia di luglio; in alcuni quartieri si determina un profondo squilibrio fra i sessi (Jeanne Gaillard). In campagna, quando regna la famiglia patriarcale, fra i cadetti, più numerosi che in passato nell'attesa dell'età adulta, alcuni sanno di essere condannati a non trovare moglie. Il proletariato dei domestici, che si costituisce in alcune regioni di coltivazioni estensive, come la Champagne del Berry, sperimenta anch'esso i tormenti di una vera e propria miseria sessuale.

L'«istinto genetico» di cui i medici riconoscono la violenza e definiscono la frequenza, avvalora la tesi dell'esistenza di due differenti etiche a seconda del sesso. Il realismo morale, lascito dei Padri della Chiesa, in particolare di sant'Agostino, spinge a minimizzare la gravità dell'atto sessuale nella sua bestialità e a tollerare un complesso sistema di soddisfazioni sessuali maschili; un vero inferno che ci si sforza di circoscrivere e che costituisce l'altro polo del cielo amoroso cui aspirano gli angelici amanti di un Louis Janmot. Funziona a pieno ritmo una sessualità degradata,

fungendo da elemento di compensazione rispetto all'idealizzazione degli impulsi.

I primi gironi dei piaceri illegittimi

La masturbazione costituisce il primo girone dell'arcipelago dei piaceri illegittimi. Ma esistono altre forme della sessualità dell'attesa. E qui interviene la demografia storica. Fra il 1750 e il 1860 si verifica un aumento tanto delle nascite di illegittimi che di concepimenti pre-matrimoniali. Il fenomeno è rilevante; purtroppo la storia seriale non è in grado di proporre un interpretazione. Per alcuni questa realtà a due facce è una prova dell'affermarsi della scelta sessuale, dei progressi dell'individualismo amoroso e, contemporaneamente, della disgregazione dei meccanismi tradizionali dell'unione matrimoniale. La spinta di questi due vettori può anche risultare dal deteriorarsi dei rituali codificati di frequentazione; questi, elaborati nel XVII secolo e agli inizi del XVIII, erano basati sulla capacità di autocontrollo delle parti in causa. La Chiesa, ricordiamolo, ha costantemente combattuto la socialità giovanile, vista esclusivamente come precoce manifestazione del vizio. Ora, la disorganizzazione della sorveglianza esercitata dal gruppo sociale lascia la ragazza disarmata di fronte agli assalti del seduttore.

L'aumento del numero di concepimenti pre-matrimoniali potrebbe stare a significare che il giovane uomo si sente in obbligo, più imperiosamente che per il passato, di sposare la propria conquista; però, la crescita parallela di nascite illegittime invalida questa interpretazione. In compenso, nulla vieta di pensare che lo sviluppo dell'illegittimità rispecchi non un attenuarsi, ma una accentuazione delle strategie familiari; gli amori contrastati, non potendo sperare in un futuro appagamento legale, possono trovar conforto solamente fra il fieno del pagliaio o sui prati della gita campestre.

Nel XIX secolo, in alcune regioni rurali, funzionano forme elaborate della sessualità dell'attesa che oltrepassano la semplice manifestazione del sentimento amoroso. Talvolta, il codice di frequentazione consente la coabitazione notturna; il che non implica necessariamente il coito completo. In Corsica, i giovani praticano il concubinaggio pre-matrimoniale, nel Pays basco, il matrimonio è «a prova». Le balie del Morvan prima di sposarsi devono aver dato prova della propria rimunerativa capacità di procreare. Il 40 per cento delle spose della diocesi di Arras sono incinte; anche li, osserva Yves-Marie Hilaire, la fidanzata deve dimostrare di sapere far figli. L'opinione pubblica si dimostra molto tollerante. Tra il 1838 e il 1880, i giovani, a partire dai quindici-diciassette anni, si danno bel tempo in coppia, la domenica, in «stanzini», «palchetti» o «luoghi nascosti». In seguito, il livore del clero farà decadere quest'usanza.

Esistono anche forme di unione meno ritualizzate: i ragazzi degli oustaux del Gévaudan dormono nelle scuderie, assieme ai domestici; è questa l'occasione, fra la paglia, approfittando degli incidenti della promiscuità, di osservare e smaliziarsi. Scioltasi dall'abbraccio del domestico adulto, la vivace servetta insegna i rudimenti dell'amore al ragazzetto ben contento di imparare. In questa società di stampo lotzeriano i costumi sono rudi. Viene tollerato che i cadetti, che non hanno alcuna possibilità di prendere moglie, violentino le pastorelle del brefotrofio; quando la loro eccessiva brutalità scatena un dramma, nel villaggio le bocche si cuciono e la polizia è impotente a scoprire il colpevole. La sessualità degli scapoli impone qui una implicita sottomissione del proletariato femminile. Gli oustaux, in realtà, vigilano con la massima attenzione sulla verginità delle «eredi». In questo ambiente di grande fervore religioso gli sguardi danno la caccia alla ragazza incinta. Per sviare almeno un po' le malelingue, questa si stringe negli abiti, evita di attardarsi troppo al confessionale, si fa ostentatamente la comunione e cerca di negare il proprio stato con una eccezionale solerzia nel lavoro.

I molteplici modelli del concubinaggio

Una vecchia tesi, proposta un tempo da Louis Chevalier, e ripresa ora da Edward Shorter, tende a fare del concubinaggio operaio, nelle forme da esso assunte nelle città agli inizi del XIX secolo, un nuovo modello di sessualità illegittima. Stanchi dei rapporti artificiosi, i giovani immigrati che si sono sottratti alla tutela della comunità contadina, poco sensibili ad un controllo sociale divenuto più distante intendono stringere legami liberi che consentano la piena realizzazione di rapporti significativi. Essi traccerebbero in tal modo una immagine propriamente popolare di unione extra-coniugale, mentre all'interno delle classi medie si rafforza la struttura della cellula familiare ristretta.

Purtroppo i fatti non concordano appieno con questa esaltazione dell'illegittimità popolare. Michel Frey ha analizzato la struttura di 8.588 coppie irregolari nella Parigi della Monarchia di luglio. Gli operai costituiscono soltanto i due terzi dell'effettivo maschile, mentre le operaie rappresentano i nove decimi delle concubine. Inoltre il gruppo che definiamo di operai è composto in maggioranza da artigiani, piccoli negozianti, come pure da un popolino di domestici, lavoratori a giornata e venditori ambulanti; i lavoratori degli opifici sono soltanto il 10,4 per cento di questo insieme. In compenso le concubine appartengono quasi tutte ad un proletariato di cameriere e operaie della fabbrica e dell'industria. Una dissimetria che fa presagire la grande complessità della pratica del concubinaggio. Michel Frey dimostra anche che a Parigi, nel 1847, non esiste alcuna correlazione fra densità operaia e diffusione del concubinaggio; al contrario, sembra che a questa data le classi lavoratrici diano prova di una straordinaria propensione per il matrimonio.

Per quanto limitate possano essere, sono ricerche che invitano alla prudenza. In realtà dietro la definizione di concubinaggio, si nasconde una realtà multiforme. Non si tratta di negare l'ampiezza delle unioni illegittime in ambiente popolare. Numerose sono le unioni precoci, spesso ricalcate sul modello coniugale, la cui regolarizzazione è ritardata dalle spese che imporrebbe un matrimonio. Pierre Pierrard osserva che a Lille l'acquisto dell'abito da matrimonio, il corredo, gli onorari per la messa, le spese sostenute per le pubblicazioni e il pranzo di nozze inducono non pochi candidati all'unione legittima a fare marcia indietro. I documenti richiesti dall'amministrazione si rivelano difficili da mettere insieme, obbligando degli individui sradicati ad un non consueto scambio di lettere e a costose trafile; prima del 1850, gli indigenti non beneficiano della gratuità degli atti, il 20 per cento dei Setaioli di Lione che si sono sposati nel 1844 vivevano già in concubinaggio, e la grande maggioranza (80 per cento) legittimava in tal modo i figli nati durante la relazione pre-matrimoniale. «È chiaro — osserva Laura Strumingher — che, in base al modello culturale adottato da questi artigiani, l'unione sessuale e il fatto di avere una prole non costituisce una ragione sufficiente a sposarsi».

Il popolo della città si mostra maggiormente tollerante della comunità paesana; in città il controllo della famiglia incide più lievemente. Si ammette più facilmente che una ragazza «si goda la giovinezza», che concubinaggio e matrimonio abbiano, qui, un contenuto quasi analogo e che non vi siano in gioco patrimoni di sorta. La ragazza che dispone di un salario può inoltre più autorevolmente esprimere le proprie esigenze. Gli investigatori della realtà sociale insistono nel ripetere che per una donna è difficile vivere in una grande città senza un uomo. Di conseguenza la concubina si trova in una condizione di inferiorità rispetto al compagno. Le è quindi tanto più difficile imporre la regolarizzazione dell'unione. Senza contare che i commenti di disapprovazione sull'operato del giovane uomo non sono condizionanti come in seno alla comunità contadina.

La natura del concubinaggio varia secondo la durata della coabitazione. A Parigi, nel 1847, il 43 per cento dei «faux ménages» si sono costituiti da meno di tre anni; è quindi possibile considerarli come matrimoni in prova. In compenso, il 34 per cento delle coppie coabitano da più di sei anni; una durata rivelatrice di un incontestabile disprezzo per le regole da parte dei due compagni.

Alla situazione di illegittimità, definita da Michel Frey operaia, e che si rivela scompensata a detrimento della donna, si aggiunge un concubinaggio marginale che unisce un buon terzo dei borghesi, grandi e piccoli, a sartine, stiratrici, commesse di negozio. In alcuni casi, queste unioni sono connesse alla sessualità dell'attesa. Di questo tipo è la temporanea relazione fra lo studente e la piccola operaia. Il romanzo ha tracciato il modello della ragazza facile, ingenua, spiritosa, a cui piace andare a ballare, e che porta in sé la vivacità, la freschezza e la sincerità dei sobborghi; una semplicità e leggerezza sottolineata proprio con lo scopo di minimizzare il cinismo della rottura che sanziona la fine del corso di studi. Secondo Estèbe che analizza il comportamento giovanile dei futuri ministri della Terza Repubblica, tutti gli allievi delle grandi scuole superiori fanno appello alla spontanea devozione di colei che chiamano la loro «studentessa». Ogni allievo del Politecnico ha la sua sartina che lo accompagna ai colloqui d'esame; con il passare degli anni il giovane uomo dà un'impronta più coniugale alle sue abitudini. Se i suoi mezzi lo consentono, lascia la ragazza per offrirsi il lusso di una relazione elegante, oppure più semplicemente per godere delle grazie di una «donnina allegra»; figura più inquietante, coinvolta nel ciclo della venalità, e la cui affermazione coinciderà presto con il declino della figura della sartina.

La severità del regolamento, i cambi di guarnigione, l'obbligo della dote creano degli ostacoli al matrimonio dell'ufficiale. E questi spesso attende l'andata in pensione per potersi sposare. Se vuole sottrarsi all'assidua frequentazione del bordello è libero di vivere in concubinaggio, purché la relazione sia mantenuta nei limiti della discrezione e la sua compagna dimostri una certa distinzione. Secondo William Serman molti degli ufficiali del Secondo Impero si adattano a questo tipo di soluzione temporeanea. Gli amori fra artista e modella sono un luogo comune del romanzo; non esistono però studi che ne provino la validità.

Alcune di queste unioni a margine si rivelano maggiormente durature. Per uno scapolo che ama l'ordine, mettersi a vivere con qualcuno rappresenta una esigenza di cui bisogna ben valutare la necessità assoluta. Era allora difficile, e anche ridicolo, per un uomo solo assolvere a quei doveri domestici che richiedono molto tempo e una presenza continua. Accendere e attizzare il fuoco, pompare l'acqua, svuotare i secchi, far da cucina, tenere in ordine la biancheria costituiscono un insieme di compiti davanti ai quali più di un impiegato scapolo, stufo dei ristoranti a basso prezzo, fa macchina indietro. In campagna uria simile inversione di ruoli susciterebbe dei pettegolezzi. Ecco allora nascere la tentazione del concubinaggio ancillare o dell'unione con una donna buona, tranquilla e affettuosa, la cui devozione non si sa bene se debba essere considerata come quella di una moglie o di una domestica. Nelle campagne del Gévaudan, la coppia di padrone e fantesca aggira il problema della dote; in attesa di una migliore situazione finanziaria, costituisce l'unica forma possibile di unione.

Non confondiamo queste confortevoli sistemazioni con gli amori ancillari dei mariti vogliosi di carne giovane. In campagna si tratta di una pratica a lungo perdurante, secondo i vecchi schemi. Numerosi casi di infanticidio coinvolgono un «padrone» che, d'accordo con la moglie, oppure con la suocera, non ha esitato a cacciare la domestica incinta per opera sua. A Nantes, già alla fine del XVIII secolo, a questo tipo di unione clandestina, intessuta di venalità, sembra poco per volta sostituirsi una nuova relazione venata di rispettabilità e con delle sfumature di sentimento. Il marito preferisce ormai mantenere la ragazza fuori del domicilio coniugale e metterle su casa. Ma anche su questo argomento è consigliabile un'estrema prudenza: in base ad altri documenti, Marie-Claude Phan individua in questa stessa epoca un'avanzata degli amori ancillari.

Comunque sia, e probabilmente le norme del Codice civile non sono estranee al fenomeno, la figura della ragazza mantenuta diventa presto un personaggio abituale della grande città della Monarchia censitaria. Balzac, in uno dei suoi romanzi, Une doublé famille, si impegna nel dissezionare le gioie e i tormenti di tali delicati equilibri. Il gusto nuovo per la privacy coinvolge anche i rapporti venali; il borghese vuole ritrovare presso l'amante le comodità cui è abituato a casa sua, con in più un pizzico di erotismo. Si traccia così il modello della ragazza decorosamente mantenuta, e fedele all'amante, cui fa riscontro l'immagine della sposa dolce e rassicurante. L'una e l'altra vivono immobilizzate nell'impaziente attesa dell'uomo.

L'arcipelago del piacere mercenario

Puttane e cortigiane sono tutt'altra cosa. Le autorità dell'Impero e della Monarchia censitaria hanno realizzato il sogno del bordello regolamentato; tracciando anche quel French system che si imporrà come modello in tutta Europa. La casa di tolleranza di quartiere vive in quel periodo la sua età dell'oro. Essa adempie ad una triplice funzione: ufficiosamente, in quanto vietato dai regolamenti, provvede all'iniziazione dei minorenni, soprattutto i collegiali; soddisfa «l'istinto genetico» degli scapoli prigionieri della ghettizzazione sessuale, il che le assicura una clientela in massima parte popolare; ma serve anche, discretamente, a soddisfare i mariti frustrati. Il riserbo delle ex verginelle, spesso condannate ad unioni mal assortite, l'influenza raggelante del confessore, l'immagine castratrice della madre, la frequente mancanza di rapporti sessuali a causa o delle mestruazioni o delle gravidanze oppure dell'allattamento, l'interruzione delle relazioni sessuali al momento della menopausa, la diffusione delle malattie ginecologiche, le categoriche esigenze della contraccezione costituiscono altrettanti incitamenti a prendere la direzione del bordello. Senza contare che lì può talvolta crearsi un cameratismo disinvolto, esiste una possibilità di abbandonarsi ignota al capofamiglia imprigionato nel suo ruolo. Il fascino esercitato dalla «animalità» popolare, il linguaggio scurrile esasperano il desiderio della «sala» dove sono esposte quelle nudità offerte tra profumi che stordiscono.

Dopo le prime decisioni del cancelliere Pasquier, i regolamentaristi coltivano il sogno di un sano e riservato canale di scarico dove possano riversarsi desideri irreprimibili. Ossessionati dall'idea di escludere qualsiasi raffinatezza erotica, raccomandano un coito senza compiacimenti, troppo rapido per consentire una anche minima effusione sentimentale. La casa di tolleranza, in contrapposizione al lupanare clandestino, vuole porsi quale tempio di una sessualità utilitaristica. Le ragazze sottomesse, tenute sotto controllo dell'ufficiale medico, oggetto di un continuo addestramento somatico, strettamente sorvegliate dalla tenutaria, hanno il compito di restituire l'ospite soddisfatto, ma integro, alla famiglia e alla società.

In realtà, il sistema, che raggiunge il suo apogeo nel 1830, quando il prefetto Mangin riesce per alcune settimane a segregare nelle case di tolleranza le prostitute di Parigi, non funzionerà mai alla perfezione. Rete dalle maglie troppo larghe, non riesce ad impedire lo sviluppo di una prostituzione clandestina. Anche il sottile realismo di un Parent-Duchàtelet si rivelerà impotente: funzionano lupanari che sfuggono a ogni controllo; pietose «battone» si offrono per pochi soldi nei cantieri o nei fossati delle mura; ragazze per la truppa si aggirano attorno alle caserme, attanagliate dalla paura delle autorità. Un flusso ininterrotto circola dalle luci della «casa», tollerata dalla pubblica amministrazione, alla losca penombra del bordello clandestino.

Intanto prende piede e si codifica una serie di immagini sessuali attorno alla donna del popolo, associata al puzzo di immondizia, ai rifiuti organici, alla malattia, alla morte; immagini di cui la storia insegnata nelle università non si è ancora totalmente liberata. Sarebbe ormai opportuno volgersi anche a considerare le funzioni dionisiache di questo reticolo di piaceri volgari che le autorità vogliono trasformato in un inferno.

Giovani mantenute di umili origini, che sono riuscite ad emanciparsi e a sfruttare abilmente le proprie grazie, realizzano, come sappiamo, sorprendenti ascese sociali. Oscure piccole prostitute, divenute mezzane, tengono le fila e organizzano gli incontri dei loro protetti. All'ombra della Monarchia censitaria si prepara il trionfo delle cocottes e delle grandi «maliarde» della generazione successiva; ma di questa preistoria della festa imperiale sappiamo poco o nulla.

>La gestione del letto coniugale

Ed eccoci alla sessualità coniugale, realizzazione dei sogni e dei timori della giovane donna, punto terminale di una esistenza da ragazzo per colui che ha saputo percorrere le tappe di quel processo iniziatico che noi abbiamo ora seguito per via immaginativa. O che si arrestino interdetti sulla soglia di questo santuario oppure che giudichino troppo poco frizzante quanto vi succede, certo è che i contemporanei parlano molto poco del letto coniugale. La demografia storica calcola i ritmi della fecondità, il che non illumina minimamente sulle pratiche del piacere. Restano le diatribe del clero, del resto molto vaghe, e il linguaggio normativo dei medici, più esplicito. Una attenta lettera delle fonti nel loro insieme, suggerisce alcuni fenomeni più salienti. In primo luogo, l'importanza dell'iniziazione femminile durante la prima notte di nozze; e ciò vale per tutto il secolo. A quel momento si impone una messa in scena collettiva del pudore, dello spavento e dell'ignoranza, descritta concordamente da tutti i medici. E dalla volontà di allontanare dal consesso familiare un episodio avvertito come troppo imbarazzante ha, in parte, origine la moda del viaggio di nozze. L'iniziazione può essere brutale, così almeno dicono i testimoni; il fatto è che gli sposi hanno aspettato quella notte per fare la reciproca scoperta. Nel 1905, il dottor Forel osserva ancora che fra la sua clientela le buone maniere vietano ai fidanzati di parlare dei propri bisogni sessuali.

A partire da questo momento, compito del marito è regolare il piacere della sua compagna. Come qualsiasi donna, per quanto essa lo possa ignorare, questa potrebbe trasformarsi in una terribile gaudente; solamente una sessualità ben temperata potrà evitarle i tormenti della ninfomania o, più semplicemente, i turbamenti dello «snervamento». Fortunatamente, si pensa, il desiderio femminile ha bisogno di essere provocato. Il marito si trova così ad essere investito da parte del consesso dei medici di una pesante responsabilità. Si comprende meglio l'inquietudine di un giovane uomo che a quel tempo si scopre vicina una sposa un po' troppo esperta. Abbiamo notizia di alcuni di questi drammi della prima notte. Per la giovane signora Lafarge, sposatasi nel 1839, l'episodio, incompleto, si svolge sotto il segno della violenza in uno squallido albergo di provincia. Circa mezzo secolo più tardi, Marie Guérin, madre di santa Teresa, durante questa iniziazione subisce un vero e proprio choc.

I medici insistono sui pericoli dell'esaurimento maschile. Predicano una severa gestione spermatica in accordo con la mentalità della classe dominante. Anche il coito coniugale può condurre l'uomo alla rovina. Ne consegue una serie di prudenti consigli, modulati secondo l'età della coppia. Tale letteratura, che attinge largamente ai vecchi testi di Lignac e di Nicolas Venette, stabilisce la frequenza dei rapporti, ma non sappiamo in quale misura i suoi comandamenti siano stati rispettati. Il corpo medico si dimostra ostile alla copula senile; per la donna dopo la menopausa — come per la donna sterile — il coito è diventato inutile. L'uomo deve guardarsi da queste due figure devastatrici, insaziabili, non più placate da una prospettiva di gravidanza. Molti di questi medici considerano la cinquantina come il limite estremo dell'attività maschile; oltre questo termine l'uso del sesso accelera il trapasso.

La preoccupazione della riuscita dell'atto riproduttore porta a valorizzare il vigore del coito. Le teorie mediche, lungi dal valorizzare la raffinatezza e lentezza delle carezze, associano la qualità del rapporto al trasporto e alla rapidità maschile; i medici ignorano dunque il problema della eiaculatio precox. Tuttavia la frequenza delle perdite seminali involontarie, di cui parlano costantemente, induce a pensare che questa pratica, frustrante per il sesso femminile, fosse allora largamente diffusa. Ad ogni modo la rapidità del rapporto coniugale resta evidente durante tutto il secolo; il che fa supporre che l'orgasmo simultaneo costituisse una eccezione. Nel 1905, Forel ancora ne sottolinea l'estrema rarità fra la sua clientela borghese.

Ma è più opportuno evitare qualsiasi anacronismo; il problema non si pone in questi termini; l'attenzione verso il piacere dell'altro è scarsa. È vero che verso la fine della Monarchia di luglio, la scoperta dei meccanismi dell'ovulazione prova che la donna non è un semplice «vaso» secondo la concezione aristotelica. Come intuiva Galeno, essa partecipa attivamente al concepimento. Ma, contrariamente a quanto sosteneva il medico greco, tale partecipazione non esige il piacere. L'automatismo dell'ovulazione autorizza la disinvoltura nei confronti del godimento. La scoperta scientifica serve da giustificazione all'egoismo maschile, inaugura una fase sfavorevole all'orgasmo femminile, pone le basi di una ostilità nei confronti dell'inutile clitoride. Dobbiamo osservare, tuttavia, che questa stessa scoperta è valsa alla liberazione di alcune donne le quali, convinte fino a quel momento della necessità del piacere fisico ai fini del concepimento, si trattenevano dall 'abbandonarsi al godimento, per paura di restare incinte. Ancora alla fine del secolo, alcune donne sorpresissime, che non avevano mai sperimentato l'orgasmo, si rifiuteranno, per questo motivo, di credere di essere incinte. Il che conferma, se ve ne fosse bisogno, lo sfasamento esistente tra scoperte scientifiche e pratiche quotidiane.

Il culto della verginità, l'angelicita romantica e l'esaltazione della pudicizia impongono al borghese di fervente religiosità di configurarsi la camera e il letto come un santuario e un altare dove si svolge l'atto consacrato della riproduzione. Il giovane Auguste Vacquerie ha sistemato, nella camera della sua Léopoldine, un inginocchiatoio; l'accostamento di letto, crocifisso e tavolo da preghiera accentua spesso la religiosità del luogo. Il pudore impone di far l'amore al buio, lontano da qualsiasi specchio; i medici raccomandano di attenersi alla posizione detta del missionario; anche se, come già i colleghi del secolo precedente, — e come pure i teologi — considerano lecito tutto ciò che facilita il concepimento; e danno la loro approvazione anche al coito da tergo.

In quale misura allora le figure della voluttà, apprese dallo sposo nella marginalità sessuale, si insinuano nel letto coniugale? Fino a dove può spingersi l'audacia del maschio, il riconoscimento del piacere da parte della donna senza offendere il pudore e provocare il disprezzo e il disgusto del partner. Per quanto carichi di desiderio, quali voluttà gli sposi si concedono senza essere ossessionati dal timore della malattia o della dannazione? Su questi argomenti le fonti tacciono: le cause di separazione non parlano di disaccordo sessuale a meno che questo non venga camuffato sotto le voci di «sevizie» e «ingiurie». Occorrerà arrivare alla fine del secolo perché alcune donne osino sostenere pubblicamente che si rifiutano di praticare la fellatio.

Il pericolo dell'anacronismo

La sessualità, oggi al centro del rapporto di coppia, non costituisce allora che la cornice di fondo della vita coniugale. Addine Daumard ha messo in luce quanto grande fosse allora a Parigi la solidità delle unioni borghesi, spesso motivate da strategie patrimoniali. La frequenza di donazioni fra vivi e di disposizioni testamentarie che assicurano al coniuge sopravvivente, una volta provveduto alla sistemazione dei figli, l'essenziale delle risorse economiche della coppia, sono la prova dell'esistenza di un reale attaccamento. In quest'ambiente, solo raramente, chi non ha figli priva il coniuge dell'eredità, lasciandola a favore della propria famiglia d'origine. Anche il tono dei testamenti è una spia di questo rapporto di affetto, ulteriormente dimostrato dall'estrema rarità delle separazioni.

Sappiamo poco sulla sessualità delle coppie di contadini. Stiamo attenti tuttavia a non soffermarci con eccessivo compiacimento sulla mancanza di intimità e sulla promiscuità familiare di queste unioni. Qui esiste una ampia dissociazione fra camera e luogo dell'amore. Il pagliaio, il fienile, i boschetti consentono, quando se ne ha voglia, la soddisfazione discreta del desiderio. In quell'ambiente, almeno al momento, non esiste biancheria interna, complicati sistemi di allacciatura, igiene intima; l'unione ignora le raffinatezze degli indugi e delle repugnanze borghesi. Detto ciò, è meglio, come propone Martine Segaien, evitare anche qui di sottovalutare la tenerezza fra i coniugi. Il duro lavoro in comune, la solidarietà nella divisione dei compiti, l'educazione dei figli sembrano aver intrecciato fra i due legami stretti e duraturi. James Lehning osserva che tra i contadini di Marlhes, piccolo comune della Loire, aumentano considerevolmente in quell'epoca i contratti di matrimonio in regime di comunanza dei beni e le donazioni fra coniugi.

L'avvento della sessualità

La trasformazione dell'immaginario erotico

La storia contemporanea della sessualità ha inizio verso il 1860. Cupi brontolìi scuotono la cultura tradizionale; l'immaginario erotico si trasforma. Imprigionato nella sfera del privato, il borghese comincia a soffrire della propria morale. Il miraggio di una sessualità popolare, animalesca e libera, attizza la tentazione della fuga sociale; il cono d'ombra della prostituzione si illumina di nuove attrattive. Zola si fa interprete di questa situazione di sofferenza; il toccante monologo di padron Hennebeau, avido spettatore dei giochi erotici dei giovani, rivela la profondità del doloroso desiderio. «Avrebbe preferito crepare come loro di fame, se avesse potuto ricominciare l'esistenza avendo al fianco una donna che si fosse data a lui sopra le pietre, con tutta la forza delle sue reni e del suo cuore».

Il codice romantico dell'amore si frantuma. E assieme impallidiscono per la donna i turbamenti della trasgressione; la seduzione diventa qualcosa di banale. Il mito di Don Giovanni si degrada; il personaggio si colora di una strana passività. Per Bel Ami non è più necessario simulare il trasporto. Spesso sulla passione prevale il timore delle «complicazioni». Intanto cresce la paura della donna. All'indomani della sconfitta e della Comune, ossessionati dalla sensazione che le dighe innalzate contro la sessualità femminile siano sul punto di cedere, i benpensanti cercano di edificare un ordine morale che si rivela inefficace. Il terrore di vedere il popolo e la sua animalità avanzare, contaminare la borghesia, alimenta l'angoscia sessuale. Il tema della prostituzione invade la letteratura. Maxime du Camp denuncia la nuova circolazione sociale del vizio, di cui Zola tenta di tracciare il percorso in Hana. Si elabora una nuova regia della seduzione femminile, che alla fine risulta allarmante. Abbandonando il dardeggiare o il volgere al cielo dello sguardo, l'abbigliamento diafano, le lacrime, i sospiri e la timida confessione degli appassionati turbamenti, la donna vuole apertamente provocare il desiderio; essa nuovamente si circonda di pesanti effluvi muschiati. Il demi-monde propone un affascinante modello; la seduttrice, circondata da rampicanti e piante esotiche, tenterà di trasformarsi in una ieratica principessa d'avorio.

Parallelamente si gettano le basi della scientia sexualis che rinnova le tattiche della continenza. Da Moll a Hirschfeld, da Fer* a Binet, da Krafft-Ebing a Forel, un primo gruppo di sessuologi dissoda il terreno dell'erotismo, codifica le perversioni, lancia l'interdetto della patologia su comportamenti fino allora condannati soltanto dalla morale. Si prepara in tal modo il regno del sesso. La sfera domestica, a sua volta investita dall'erotismo, diventa insieme l'epicentro e la zona a rischio del sisma che sta montando.

Il raffinarsi del flirt giovanile

All'interno delle famiglie borghesi di fine secolo, il flirt dei giovani modifica le procedure della sessualità d'attesa, prepara futuri mutamenti. Questo insieme di comportamenti, attraverso cui si esprimeranno per un secolo gli amori fra giovani nel mondo occidentale, non è stato fatto oggetto di nessuna ricerca. Invece di riproporre l'immagine letteraria di Maud de Rouvre, la demi-vierge di Marcel Prévost, lasciamo ad uno specialista, Auguste Forel, il compito di descrivere questa nuova pratica. Il flirt adotta dal codice degli amori romantici il principio categorico della distanza iniziale. Il nostro sessuologo sottolinea il ruolo fondamentale dello sguardo che prelude all'incontro. La carezza degli occhi apre un itinerario sapientemente scandito. Gli «insensibili sfioramenti» delle vesti, poi della pelle, la pressione delle mani tracciano i preliminari. Ginocchia e gambe si accostano, si stringono, sotto il tavolo, all'interno della carrozza o del vagone ferroviario. Cominciano allora i «giochi d'amore»: baci, carezze, toccamenti. Secondo Forel, questa sapiente gestione del desiderio spesso porta alI'«orgasmo senza coito». Molti di questi giovani «stanno attenti a non tradirsi con le parole»; il flirt sviluppa una straordinaria «conversazione muta dell'appetito sessuale».

Il nuovo gioco amoroso ha già i suoi luoghi privilegiati: le città termali, le stazioni balneari, i casinò, i grandi alberghi, alcuni sanatori. Il flirt concilia verginità, pudore e imperativi del desiderio. Ecco che anche le donne sposate entrano in questa spirale. La donna qui si limita a lasciar indovinare la propria sensualità; evita in questo modo di compromettersi appieno. Inoltre il nuovo erotismo impone la delicatezza; autorizza tutte le raffinatezze, tutte le complicazioni dei sensi. Grandioso e affascinante, il flirt permette di far uso delle qualità intellettuali e artistiche. Detta le regole del rituale del fidanzamento. Ha già i suoi «fanatici»; uomini e donne per i quali, osserva Forel, il flirt sostituisce allo stesso tempo l'amore e la copulazione. Il flirt appare oggi come una condotta di transizione: a mezza strada tra «la verginella» e la ragazza emancipata, la «flirteusè» può soddisfare un desiderio, provare un piacere che è ancora difficile confessare apertamente.

Si discuterà a lungo sulla figura del flirt all'interno della sessualità dell'attesa. Una tesi classica, sostenuta da Jean-Louis Flandrin, contestata da Edward Shorter, convinto che si tratti di un comportamento nuovo, vuole che il «maraĩchinage» della Vandea, interminabili mute carezze, reciproca masturbazione dei due giovani, sprofondati in un fossato, nascosti da un largo ombrello, non sia altro che il residuo obsoleto di antichi rituali di frequentazione giovanile. Ed è questa indubbiamente la verità. Va tuttavia osservato che il «maraĩchinage», presentato come tradizionale dal dottor Baudoin verso il 1900, come pure da un sacerdote della Vandea nel 1880, ha potuto subire l'influenza di comportamenti nati nelle classi superiori. J.-L. Flandrin afferma, un po' frettolosamente, che nulla di simile esisteva allora nella borghesia. Sarebbe opportuno non sottovalutare i reciproci scambi e la circolazione dei modelli culturali. Nel 1905, Forel può così notare che le procedure del flirt borghese si sono rovesciate come un maremoto sui livelli più profondi delle classi popolari. A suo avviso, si tratta in questo caso di una imitazione pesante e goffa della delicatezza dell'elite. Nulla quindi impedisce di supporre che il «maraĩchinage» si sia così rinverdito assorbendo nuove sottigliezze, mediate dalla classe dominante.

L'erotizzazione della coppia sposata

La tecnica del flirt illumina di luce nuova la sessualità coniugale. Va da sé che le demi-vierges non possono accostarsi al letto nuziale con lo stesso atteggiamento delle «verginelle» della Monarchia censitaria. Oramai sulla confessione del piacere femminile non grava più lo stesso interdetto. Nel corso dell'ultimo quarto del secolo emerge la rivendicazione di una nuova coppia più fraterna e maggiormente unita, non più separata dalle barriere della conoscenza, non più bloccata dai dettami del confessore. Una nuova coppia ad immagine della società repubblicana tracciata dai profeti del nuovo regime; da quelli stessi che, con Camille Sée, aprono alle ragazze l'accesso alle scuole secondarie. Tra sposi si prende l'abitudine di chiamarsi «tesoro», e la giovane donna non si vergogna di gradire il velato erotismo dei romanzi alla moda.

Tra una fanciulla un po' più sveglia e un giovanotto più attento al piacere della compagna, può stabilirsi un'intesa di nuovo tipo, un comune godimento sostituirsi all'assalto egoista. Alcuni moralisti, alcuni educatori si dimostrano favorevoli. Nel 1903, l'aumento del rischio di malattie veneree induce il dottor Burlureaux a redigere un manualetto di educazione sessuale ad uso delle ragazze. La Società di profilassi sanitaria e morale, sostenuta da alcune educatrici, tutte brave madri di famiglia, riprenderà l'idea. Vengono esercitate delle pressioni su Louis Liad, rettore dell'Università di Parigi; ma questi non osa introdurre ufficialmente l'educazione sessuale fra le materie dell'insegnamento pubblico femminile, per paura di fornire delle armi ai suoi avversari.

Già nel 1878, il dottor Dartigues aveva pubblicato De l'amour expérimental ou des causes de l'adultere chez la femme au XIX" siècle; il libro contiene una perorazione a favore dell'orgasmo femminile, visto dall'autore come il più valido argine della diffusione dell'adulterio. Intanto il dottor Montalban e molti suoi colleghi raccomandano allo sposo una maggiore delicatezza e pazienza nella carezza; anche essi guardano con maggior attenzione al piacere femminile. È evidente che si tratta di posizioni forse minoritarie, ma che sono in accordo con i progressi della contraccezione. Progressi che dimostrano l'avanzata di una sessualità erotica orientata alla voluttà, a detrimento di una sessualità genetica tutta dedita alla procreazione.

Tecniche del piacere senza rischio

Verso la fine degli anni 1850 i medici cominciano a mettere decisamente sotto accusa l'«onanismo coniugale». Il dottor Bergeret, nel 1857, stende un elenco dei metodi adottati dalla sua clientela di Arbois. Il coitus interruptus è la tecnica più diffusa. Il self-control che tale pratica richiede è in sintonia con quell'autonomia morale che verrà presto propugnata dai neo-kantiani, i-spiratori della scuola repubblicana. Ma Bergeret non risparmia neanche la masturbazione reciproca, da lui definita un «ignobile servizio», la fellatio o «coito boccale», e perfino il «coito anale», più frequente rispetto al precedente, almeno a quanto afferma il dottor Fiaux. I più ricchi usano il condom, mentre gli operai continuano a credere che far l'amore in piedi eviti il rischio di gravidanze.

Alla fine del secolo si sviluppa la propaganda neo-malthusiana. Sotto la spinta di Paul Robin e di Eugène Humbert, la Lega della rigenerazione umana (1896), poi il gruppo che pubblica Generation consciente (1908) predicano «lo sciopero del ventre». Le iniziative dei neo-malthusiani cercano di farsi strada anche all'interno della classe operaia. La propaganda raggiunge i lavoratori del Nord; Gerard Jacquemet osserva che si è sviluppata anche nel XX arrondissement di Parigi; diversi prefetti constatano che gli operai sono ormai sommersi da informazioni sulle tecniche contraccettive. Volantini e opuscoli consigliano i metodi meccanici, meno costrittivi e più sicuri del coitus interruptus. Le clienti del dottor Forel ne sono bene al corrente. Alcune ricorrono a lavande di acqua tiepida e aceto, altre utilizzano spugnette intrise di disinfettante e inserite in fondo alla vagina. Più elaborati i «pessari occlusivi» in membrana di gomma, montata su un anello di osso. È questo il sistema cui ricorre, su consiglio del medico, Marthe. Si diffonde il preservativo in gomma sottile; meno costoso del preservativo fatto di una membrana sottile ed elastica ricavata dall'intestino animale — che inoltre richiede una manutenzione attenta. Insomma, la contraccezione si sviluppa contemporaneamente all'igiene intima. La cannula diventa l'alleata del bidè.

A partire dal 1882, l'antisepsi consente in gran numero gli interventi di ovariostomia. All'ospedale di Saint-Louis, il professor Péan, tra il gennaio 1888 e il luglio 1891, ne pratica 777. Le pazienti da lui operate sono donne del popolo. Nel 1897, il dottore Etienne Cam, scandalizzato, calcola che circa 30.000, 40.000 donne, nella sola Parigi, siano state «castrate» con questo sistema. Zola, nel romanzo Fecondile, denunzia quella che egli considera la «grande frode» coniugale. Ma vi è una più terribile chirurgia, di cui non è possibile misurare i devastanti effetti. Alcune donne accettano di subire l'operazione chiamata di Baldwin Mari, consistente nel creare una vagina artificiale.

In questa fine secolo, scegliere risolutamente la strada della contraccezione, abbandonarsi alla «perpetua adorazione» secondo la definizione datane nel 1902 da Gui de Téramond, comporta la trasgressione alle norme imposte dal confessore nonché dalla maggior parte dei medici. La maggioranza della classe medica è infatti ancora convinta che la «frode coniugale» scateni una polimorfa patologia femminile: «spaventose emorragie» (Bergeret), gastralgie, consunzione, «snervamento», disordini psichici insidiano la donna non acquietata dal liquido seminale e soprattutto da numerose gravidanze successive.

Si tratta di convinzioni condivise da larghe fasce della clientela. La famiglia di Marthe, è preoccupata nel vedere che il marito la sottopone ad un ritmo amoroso troppo intenso; e quando la madre si rende conto che non vi sono gravidanze in vista per soddisfare il temperamento femminile, sente in pericolo il cervelletto e la longevità della figlia. Da parte loro intanto i parenti dello sposo pensano che la giovane donna sfinisca il marito.

Vi è un punto che rimane oscuro: le modalità di diffusione delle pratiche contraccettive; la propaganda neo-malthusiana infatti non raggiunge tutti gli ambienti; ora, la «frode coniugale» si estende in modo massiccio, come provato da un'inchiesta condotta nel 1911 dal dottor Jacques Bertillon. Va osservato in proposito che la frequentazione delle prostitute, tradizionali utilizzatrici delle irrigazioni, ha indubbiamente accelerato l'apprendimento di sistemi squisitamente erotici.

Mentre il «tirarsi indietro» era, già da tempo, pratica corrente per il contadino piccolo proprietario, l'orgoglio virile dell'operaio continua ad essere associato alla fecondità della moglie. Un sentimento che, assieme alla disinvoltura maschile, frena il balzo in avanti della contraccezione. Tuttavia, a partire dagli anni 1880, mentre i rischi di infezione diminuiscono, si sviluppa in quest'ambiente quello che Angus MacLaren definisce «femminismo domestico». Si sviluppa una solidarietà al femminile, tra madre e figlia, levatrice e cliente che permette di tenere sotto controllo le dimensioni della famiglia. Meno esperte delle borghesi nel maneggiare i mezzi meccanici di contraccezione, meno agguerrite per pretendere il «coito asciutto», le operaie cominciano a ricorrere massicciamente all'aborto. Quando i violenti sforzi fisici, le tisane, le irrigazioni non hanno avuto effetto si rivolgono a una di quelle «mammane» che pullulano nelle grandi città. Numerose sono anche le donne che praticano da sole l'intervento, prima di farsi trasportare all'ospedale.

Un nuovo permissivismo si fa strada nell'opinione pubblica, e questo spiega come, alla vigilia della guerra, cresca fortemente il numero degli aborti; in base ad alcuni calcoli, gli esperti ritengono che, ogni anno, vengono praticate dalle 100.000 alle 400.000 interruzioni di gravidanza. Agli inizi del XIX secolo a ricorrere a questi sistemi era nella maggior parte dei casi o una nubile sedotta oppure una vedova che temeva il disonore. Ormai, la clientela delle procuratrici di aborti è prevalentemente composta da donne sposate. Una pratica dettata dalla disperazione e dalla necessità tende a diventare consueta, mentre intanto progredisce il dominio delle donne sul proprio corpo.

La tentazione ancillare

Il focolare borghese, tentato da un timido edonismo, sembra, in quel momento, subire i rinnovati assalti dell'amore ancillare. La cameriera diventa un criterio di distinzione sociale; qualsiasi piccola borghese si sente in obbligo di averne una. All'interno di un appartamento spesso troppo piccolo si instaura una promiscuità di nuovo tipo. La giovane di campagna porta nello spazio privato, fino ad allora tranquillo, la tentazione continua della freschezza popolare delle sue carni. Quando il nuovo assetto urbano voluto da Haussmann, e lentamente continuato durante la Terza Repubblica, avrà relegato il personale domestico in piccole camere al sesto piano, sarà semplicissimo per gli uomini di casa compiere una rapida escursione attraverso la scala di servizio. Consolare il Signore, accoglierne nel proprio seno gli sfoghi può costituire per la cameriera una piacevole rivincita su una padrona troppo autoritaria. I borghesi della nuova generazione, allevati da una balia «in casa», educati da una bambinaia, sono abituati a ricorrere ad una donna del popolo per tutto quanto concerne la cultura somatica; giunta l'età dell'iniziazione e, poi della maturità sessuale si comprende come abbiano la_tentazione di rivolgersi alla camerjerina La quale si inserisce nella catena dell'abdicazione corporea a servizio della libido borghese. Gli psicanalisti probabilmente avrebbero molte cose da dire sul feticismo del grembiule. Un indumento sciolto che simboleggia insieme l'intimità della sfera privata e la disponibilità del corpo femminile. Se è il caso, la padrona di casa può farsi complice di un «ménage à trois»; malata, frigida oppure trascurata, delega in questa maniera i sollazzi del marito, o anche del figlio. L'amore con la cameriera evita di dilapidare il patrimonio o di compromettere la salute; sventa il rischio di «complicazioni».

La letteratura romanzesca si crogiola negli amori ancillari. Zola, Maupassant, Mirbeau li celebrano a tutto spiano. Ma resta sempre una consuetudine non misurabile. La loquacità degli scrittori riflette in modo troppo evidente le proiezioni di uomini affascinati dalla accessibile e domesticata fisicità del popolo, per non consigliare la massima prudenza.

A questo — probabile — ritorno della sessualità in una sfera marginale si potrebbe collegare il modo di agire di molti imprenditori e soprattutto capiofficina che si valgono della propria autorità per sedurre le giovani operaie. I socialisti, e soprattutto gli anarco-sindacalisti, protestano indignati contro questa nuova forma di ius primae noctis. È una prevaricazione sui corpi del popolo che, a loro avviso, contribuisce a minare la moralità dei lavoratori. Sappiamo bene che non si è trattato di semplici vaneggiamenti. A Limoges, nel 1905, intrighi di questo tipo scatenano delle vere e proprie cacce al satiro per le strade. Nascono così quei gravi disordini che, in quello stesso anno, insanguineranno la città delle porcellane.

I magistrati e l'infedeltà

L'erotizzazione della donna sposata rinfocola il timore dell'adulterio. Nei confronti della legge la situazione dei due coniugi su questo punto, non è assolutamente paritaria. L'adulterio del marito non può essere perseguito_dinnanzi al tribunale correzionale a meno che questi non mantenga una concubina nel domicilio coniugale; là sua condotta in tal caso sfiora la bigamia, e mette in pericolo l'istituto familiare. Solo in questo caso la moglie può sporgere denuncia e il marito rischia di dover pagare una ammenda piuttosto pesante. La donna può inoltre intentare un processo di separazione legale, soprattutto se l'adulterio si accompagna a eccessi, sevizie e ingiurie gravi. A partire dal 1884 le sarà lecito chiedere il divorzio. Ovunque abbia luogo, invece, l'adulterio della donna costituisce sempre un crimine. La sposa infedele può essere condannata fino a due anni di prigione. Dopo aver ottenuto la condanna delia moglie, il marito ha la possibilità di interrompere l'esecuzione della pena e permettere alla colpevole di far ritorno al tetto coniugale. Il marito dispone in tal modo di un vero e proprio diritto di grazia. Il complice della donna adultera rischia a sua volta di essere condannato, il che prova che non era intenzione del legislatore favorire esclusivamente il sesso maschile, ma che si voleva innanzi tutto proteggere la famiglia. Come che sia, si tratta di disposizioni che costituiscono, come dirà Naquet, «un semi-incoraggiamento all'adulterio maschile». Allo stesso modo, in caso di separazione legale, l'obbligo alla fedeltà continua ad incombere sulla donna, mentre al marito sono permesse tutte le scappatelle in quanto non esiste più un domicilio coniugale.

A giustificazione di una simile disparità, i giuristi ricorrono a due argomenti principali: non spetta alla donna, essere inferiore, indagare sulla condotta di un marito che essa deve presumere fedele; inoltre soltanto l'adulterio femminile rischia di far cadere nelle mani di figli spuri le proprietà patrimoniali.

Nella realtà, la giurisprudenza tenta di ovviare a tale sperequazione. Alla donna vengono, in fasi successive, accordati alcuni diritti: possibilità di ricorrere contro il marito quando l'adulterio è notorio o accompagnato da comportamenti ingiuriosi (1828), quando è associato all'abbandono della famiglia (1843), al rifiuto della coabitazione (1848), e persino al rifiuto dei rapporti sessuali (1869). Anne-Marie Sohn osserva che tra il 1890 e il 1914 l'adulterio femminile non è punito più severamente dell'infedeltà maschile; da questo punto di vista, l'inferiorità giuridica della donna è divenuta assolutamente teorica. Inoltre i magistrati non attribuiscono più una grande importanza a quello che essi considerano ormai un reato minore.

Osserviamo che tra il 1816 e il 1844 l'infedeltà rappresenta, nei procedimenti di separazione legale, una causa secondaria; la divisione giudiziaria è diventata per le donne uno strumento per sottrarsi alle percosse, sempre meno tollerate di decennio in decennio. Dopo il 1884, i maltrattamenti, la mancanza di denaro sono tra i motivi prevalenti addotti nelle richieste femminili di divorzio.

Il desiderio della donna sposata

Una serie di fattori concorrono alla crescita del numero delle adultere, soprattutto nella piccola borghesia. L'attenuazione, tardiva, della sorveglianza che pesava sulla giovane donna, il progresso, moderato, dell'igiene intima, la pratica del bagno, del tennis, poi della bicicletta, l'abitudine a lasciarsi accarezzare liberano poco per volta dagli interdetti che pesavano sulla contemplazione, l'esibizione e la conoscenza erotica del corpo. Le nuove voluttà coniugali, lo sviluppo delle pratiche contraccettive, come pure la rivendicazione del diritto della donna al piacere, secondo l'immagine che ne offre Madeleine Pelletier, deteriorano il modello della sposa virtuosa. La generalizzazione dei comportamenti maschili di seduzione, l'indulgenza dei magistrati, il timore delle malattie veneree, la maggior discrezione della, per altro prevedibile, rottura inducono ad un transfert del desiderio virile verso la donna sposata, più esperta e più accessibile che non in passato.

L'assetto urbano di Haussmann consente alla signora perbene di uscire e prendere possesso del centro della grande città; a partire dagli anni 1880 le è possibile mettersi in mostra sulle terrazze dei caffè, scintillanti delle luci delle lampade a gas, in seguito elettriche. Si moltiplicano i pretesti di incontro, i luoghi di appuntamento. I grandi magazzini consentono di eclissarsi discretamente; le stesse opere di beneficenza possono rendere utili servizi. Nel 1897, molti mariti, attoniti ed esterefatti, vedranno ricomparire una moglie da loro creduta carbonizzata nell'incendio del Bazar de la Charité. Vera o finta che sia la storia, è significativo che circoli questa voce. Le carrozze e tutta una rete di salette riservate o di case di appuntamento consentono furtivi abbracci. Si prolungano e si diversificano i momenti di interruzione della vita coniugale a due: viaggi in treno, le vacanze della donna da sola, i pellegrinaggi di massa, i soggiorni termali, i «bagni di mare», o anche le brevi escursioni di un giorno, favoriscono le avventure.

L'adulterio alimenta le conversazioni da salotto. Negli ambienti dell'alta politica, osserva Jean Estèbe, avere un'amante è normale; «una relazione mondana può anche suscitare echi favorevoli». Il romanzo, il vaudeville incoraggiano all'infedeltà. Alexandre Dumas figlio, Feydeau, Becque e Bataille insistono sugli amori adulterini. Qui il «ménage à trois» funziona con borghese efficienza. Consente di placare i sensi, di godere comodamente di una voluttà resa più piccante dalla segretezza. Evita di compromettere la propria salute e la propria reputazione. Va osservato tuttavia che la scena del vaudeville non va considerata soltanto come una semplice suggestione; ha anche la funzione di scaricare, attraverso il riso, l'indefinita ansietà che monta con la confusione dei modelli. Andare a teatro per farsi quattro risate con Feydeau, al braccio della propria sposina, esorcizza la minaccia del vizio senza rischi, il cui effetto disgregante minaccia la famiglia.

Ristretti ambienti più avanzati si abbandonano anche ad una critica ragionata dell'istituzione matrimoniale. Alcuni socialisti cominciano a predicare la libera unione; nel 1907, Leon Blum si dichiara a favore dell'esperienza pre-matrimoniale; quindici anni più tardi, Georges Anquetil dedica tre grossi volumi alla concubina e all'amante legittima.

È essenziale in ogni modo non sopravvalutare le dimensioni dei comportamenti adulterini. Larghe fasce della popolazione non si lasciano coinvolgere dai nuovi costumi. L'immagine della donna virtuosa rimane complessivamente dominante all'interno della borghesia. Il portare all'ordine del giorno la maternità come dovere, problema attualizzato dalla minaccia tedesca, certamente rivela nuove inquietudini e avrà il suo peso nel rinsaldare la moralità. Una paziente ricerca sulle donne del patronato del Nord, porta Bonnie Smith ad esaltare la virtù di queste sagge mogli che si comportano da vere dame di beneficenza. Tra il 1890 e il 1914, le leghe per la moralità, sostenute dal senatore Béranger e dai grandi predicatori delle chiese protestanti, conducono violente campagne contro gli scritti osceni, la licenza nelle strade e la corruzione della truppa. La loro influenza sembra aumentare nell'immediato anteguerra quando dilaga l'ondata nazionalista. In alcuni ambienti la disinvoltura nei rapporti matrimoniali è abbastanza malvista. Una moglie leggera può rappresentare un handicap per la carriera di un magistrato o di un sottoprefetto. I pettegolezzi, o addirittura la denuncia anonima, minacciano inoltre quei funzionari di cui si dice che manifestino troppo ritegno.

Le amanti

Nella Bella Epoque, la relazione è qualcosa di ben diverso dagli amori illegittimi di una donna libera ed emancipata; questa è la provvisoria conclusione delle ricerche di Anne-Marie Sohn. Fra le due situazioni, la seconda riproduce il vecchio modello del concubinaggio squilibrato: in più della metà dei casi, un amante borghese, il più delle volte vedovo o scapolo, prende per amante una discendente delle piccole operaie di una volta. Il sottoprefetto di Forcalquier ha come amante una giovane sarta. La donna adultera, al contrario, inganna il marito con un uomo del proprio ambiente. Il più delle volte, accorda i propri favori ad un signore della sua stessa età. L'analisi degli archivi giudiziari lascia capire che la donna che inganna così saggiamente il marito con un unico amante non prova il minimo rimorso. La relazione le appare come la normalissima conseguenza di un cattivo funzionamento della coppia coniugale. In alcuni casi, la vede come risposta al tradimento o alla sifilide del marito. Insomma, sembra che un'implicita critica all'unione legittima si operi all'interno dei cuori. La controversia che si apre sui danni del regime dotale riflette questo atteggiamento critico nei confronti dell'aspetto mercantile del matrimonio. Ad ogni modo, la letteratura romanzesca propone che in situazioni del genere sia la madre e non la sposa ad essere insidiata dal pentimento.

La scoperta dell'adulterio della donna è vissuta differentemente secondo gli ambienti sociali. Nella borghesia il più delle volte sono indiscrete missive che portano a galla il pasticcio. L'uomo qui vive la dolorosa esperienza nella legalità e nell'artificio. Per salvare la sua vanità e giustificare il comportamento della moglie è capace di chiamare in causa la patologia mentale. Gli uomini del popolo, invece, sopportano male il ridicolo. Più spesso cedono alla tentazione della violenza, soprattutto nel Sud. La maggioranza dei mariti traditi che ricorrono al crimine o al tentato omicidio si trova in questo ambiente. A Belleville, moltissime questioni penali hanno all'origine ingiurie o allusioni relative alla moralità delle mogli. Giunta la sera, e le relative sbornie, gli insulti esplodono. Ci si apostrofa da una finestra all'altra, sopra le strette stradine. Agli insulti, «puttana» o «ruffiana», seguono violente scazzottature. Ed ecco coinvolto tutto il vicinato.

Dalla donna sposata, invece, qualunque sia l'ambiente, la scoperta del tradimento, è vissuta sul piano dei sentimenti. Lo stesso accade quando si arriva al divorzio. Si tratta di un'esperienza superata più facilmente dalle mogli che dai mariti. Questi non sopportano facilmente che la moglie possa riconquistare la propria libertà sessuale; è allora che si manifestano forme di brutalità. Soltanto le ragazze libere ed emancipate reagiscono alcune volte con la violenza, giunto il momento della rottura. La donna che ha vissuto per molto tempo con un vedovo o con uno scapolo è poco disposta a sopportare un abbandono che la lascia sola ad affrontare la generale disapprovazione. La passione costituisce l'alibi per le amanti che avevano osato sfidare i pettegolezzi. La rottura pone allora un problema all'uomo, a tal punto la reazione della compagna rischia di essere violenta. Alcune donne abbandonate suscitano pubblici scandali; altre scrivono lettere di vendetta; qualcuna arriva a sfigurare con il vetriolo l'ex amante.

Questi può cercare di sbarazzarsi di una scomoda relazione con un regalo di benservito. Il severo Jules Ferry manda il fratello Charles a sistemare le cose con una graziosa sartina bionda di rue Saint-George. Altrimenti, l'esasperato gentiluomo avvilisce la sua antica relazione, e la denuncia alle autorità. Può succedere che pensi di doverla uccidere. L'opinione pubblica, che vede di mal occhio l'accanimento di donne di questo tipo, è dalla sua parte. Si capisce come, una volta sposato, l'ex amante di queste ragazze emancipate preferisca dedicarsi ad un adulterio di tutta tranquillità.

L'illusione dell'adulterio venale

La trasformazione delle forme del desiderio, di cui è ancor timida spia la nuova sessualità coniugale, dà una nuova configurazione ai rapporti di tipo venale. La sete di piaceri più sottili disgrega poco per volta le immagini istituzionalizzate. Il bordello, come discarica seminale, ha stancato. Molti clienti trovano umiliante, o anche disgustosa, la volgare esibizione delle carni nude e l'animalesca docilità delle ragazze. Il bordello di quartiere è in crisi, ad eccezione di alcune zone della provincia interna dove l'evoluzione è ritardata dalla rigida mentalità tradizionale. La prostituzione autorizzata è inoltre colpita frontalmente dalla violenta campagna degli abolizionisti, sostenuti dalla destra radicale. Per sopravvivere, il bordello autorizzato deve soddisfare le nuove e-sigenze della clientela. Nel 1872, le vecchie ospiti di Chateau-Gontier constatano indignate che le ragazze accettano oramai la fellatio, un tempo proibita all'interno delle case.

I grandi bordelli parigini di fine secolo rispecchiano tale evoluzione. Sapienti regie di profumi, arredi sontuosi, sfavillio di specchi, profusione di tappeti, luci elettriche in quantità danno un nuovo volto alle tattiche della voluttà. Dentro grotte di Calipso o conventi alla Sade, ninfe e «suore» esperte offrono raffinati piaceri. I quadri viventi fanno la delizia dei voyeurs. Discrete salette, lontane antenate delle cabine di «life-show», vengono messe a loro disposizione. Alcune case si specializzano in particolari forme di erotismo. La svolta operata dalla nascente sessuologia regola le nuove configurazioni del rapporto venale. Oramai, ad ogni «perversione» corrispondono specialisti nel ramo e rifugi privilegiati.

Parallelamente si fanno strada forme di prostituzione maggiormente in sintonia con le nuove esigenze. Già durante la Monarchia censitaria, le ballerine dell'Opera accordavano tradizionalmente i propri favori a quei rispettabili signori che accettavano di prendersi cura di loro. Infinitamente più provocanti, le grandi «cocottes» della festa imperiale avevano imposto il prestigio della galanteria. Con il tempo questi tipi di comportamenti tendono a democratizzarsi.

Il piccolo borghese sogna le dissolutezze dell'aristocrazia. Il caffè concerto, il varietà, l'avanspettacolo gliene danno l'illusione. Si tratta di ritrovi di nuovo tipo in cui si esibisce un proletariato di povere guitte costrette a vendersi al signore un po' alticcio, nell'ovattata intimità delle salette riservate. Le chellerine delle birrerie del Quartiere latino offrono agli studenti l'illusione dell'amore sopperendo al declino della piccola sartina.

Tuttavia, è la casa da appuntamenti, clandestina o quanto meno discreta, l'istituzione che maggiormente si attaglia alla trasformazione delle forme del desiderio; al punto che il prefetto Lépine decide, per poterla meglio tenere sotto controllo, di tollerarla. Gestita da una signora di dignitoso aspetto, la casa di appuntamento occupa il piano nobile di uno stabile più che decoroso. Funziona solamente durante il giorno. Le presentazioni avvengono nel salotto, arredato in modo tradizionale. La donna è arrivata con il cappellino in testa, vestita come una brava borghese, e accondiscende, senza ombra di volgarità, a sollazzarsi per un tempo abbastanza lungo in una camera dall'atmosfera matrimoniale. Ben inteso, il regalo sarà in proporzione. I distinti signori che frequentano la casa cercano l'adulterio venale; sono attratti dalla moglie dell'altro, che, in circostanze diverse, sarebbero sicuramente incapaci di conquistare. La casa di appuntamento offre loro l'illusione della seduzione mondana. La tenutaria vanta, il più delle volte a torto, che le donne che frequentano il suo salotto sono delle rispettabili signore sposate, delle donne alla moda in difficoltà economiche, oppure delle sensuali frustrate.

In occasione di un viaggio nella grande città, prendere parte a questa recita di ombre cinesi può essere una bella tentazione per il possidente di provincia. Ad ogni modo, la fuga dopo il peccato — questa terribile fuga che ossessiona Huysmans e Maupassant — sarà meno umiliante che fra le luci del bordello.

Il bisogno di conservare quanto meno il simulacro del sentimento e di organizzarsi la possibilità di un'incontro voluttuoso scivola dall'alto al basso della piramide sociale. A partire dal 1880, la liberalizzazione della vendita di bevande permette la nascita di una prostituzione da cabaret meno umiliante per il cliente — e anche per la ragazza — delle nudità del bordello. A partire da questa stessa data prolifera la cosiddetta prostituzione clandestina. La passeggiatrice diventa una figura consueta, che si confonde fra la folla dei grandi viali; anch'essa ormai autorizza un'operazione mistificatoria, soprattutto quando riesce abilmente a far credere a un sempliciotto di aver preso l'iniziativa di una audace conquista.

L'importanza del mezzo secolo che va dagli anni più fulgidi del Secondo Impero alla Prima guerra mondiale risulta più che evidente. Si opera in profondità un lento smottamento, che imprime alla coppia una fisionomia inedita e prepara l'esplosione della nuova etica sessuale. Bisogna quindi evitare di lasciarsi irretire dall'immagine di una morale vittoriana, intransigente e monolitica. Questo mezzo secolo, considerato da Edward Shorter come una semplice fase transitoria, mi sembra, tutto sommato, più innovatore che non il lungo periodo che va dal Consolato alla metà del Secondo Impero.

I sussulti che, a partire da questa data, cominciano a stravolgere, o quanto meno a modificare, l'immagine della vita privata devono molto al processo imitativo. La discesa sociale di comportamenti, elaborati in seno alla aristocrazia prima, e successivamente all’interno della borghesia, prevale rispetto all’influenza esercitata da modelli popolari. È vero, la sessualità del popolo affascina; come pure, una certa libertà erotica è sbocciata all'ombra delle classi lavoratrici, soprattutto durante la Monarchia censitaria, prima che si sviluppasse la familiarizzazione operaia. Ma non sono questi i modi di essere che hanno fatto scuola. In Francia, le attuali forme di liberalizzazione dei costumi, in sostanza, ciò che Edward Shorter considera come la seconda rivoluzione sessuale, si sono elaborate all'interno delle classi dominanti. Gli autori di vaudeville, i politici della sinistra radicale, alcune femministe borghesi, i propagandisti neo-malthusiani, i socialisti che hanno teorizzato la libera unione e, soprattutto, gli scienziati che hanno posto le basi

della sessuologia hanno contribuito a dar forma alla sensibilità moderna più di quanto non abbiano potuto fare le confuse unioni erratiche degli immigrati della Parigi della Monarchia di Luigi Filippo. Come osserva Bronislaw Baczko, il concubinaggio popolare della Monarchia censitaria si situava a monte del matrimonio; il concubinaggio contemporaneo intende il più delle volte collocarsi deliberatamente al di là dell'istituzione.

Sussurri e grida

Sintomi della sofferenza individuale

Nuove fonti di ansia

La crescente individuazione genera nuova sofferenze intime. Impone di modellare delle immagini di sé che si trasformano in fonte di insoddisfazione. Mentre la nascita cessa, poco per volta, di costituire un criterio chiaro e decisivo di appartenenza, ognuno si sente in obbligo di definire e significare la propria posizione. Ora, l'aumentata mobilità sociale — di cui è certamente opportuno non sopravvalutare il ritmo — l'incompiutezza, l'instabilità, la precarietà delle gerarchie al pari della complicazione dei segni che indicano il rango hanno come effetto di confondere le ambizioni, provocando irresolutezza, sconforto, inquietudine. Lo sforzo di o-gnuno per costruirsi una personalità, il peso del giudizio altrui spingono alla scontentezza, o anche all'autodenigrazione: sentimenti che sfociano in un senso di inadeguatezza. Abbiamo visto a qual punto i diaristi soffrano di tale torturante sottovalutazione di sé. La competitività sociale, più anarchica di quanto non fosse durante l’Ancien Regime, rinfocola la paura della sconfitta. Nell'individuo, forgiato sin dall'infanzia dall'ossessione degli esami, si ingigantisce il timore dello smacco; la necessità di un continuo adattamento, l'angoscia dell'abbandono possono generare una sorta di paura di vivere. Sentimenti che determinano una paralisi della volontà o, più in generale, il male del secolo descritto da de Musset.

Al deteriorarsi delle certezze viene ad aggiungersi la coscienza nuova di un dovere di felicità che modifica il rapporto tra desiderio e sofferenza. Il vuoto dell'anima e del cuore, nel momento in cui si manifesta, è avvertito ormai come una infelicità. La noia che grava sugli spiriti più raffinati del tempo, lo spleen baudelairiano traducono questo nuovo senso di colpa verso se stessi.

Confluenti fonti di malessere, quali ampiamente traspaiono dalla lettura di carte private, che sono ulteriormente amplificate dall'ascesa della clinica psichiatrica. In questo campo, la nascente nosologia, la ridondanza dell'esposizione di casi clinici stimolano l'ansia. La «mania raziocinante», la «lucida follia», consentono ad alcuni specialisti di stanare l'alienazione fin nella calma e nel segreto di una tranquilla vita privata. In senso lato, il trionfo della medicina clinica tende a modificare il rapporto che ognuno instaura con il proprio corpo; quanti coscritti che si reputavano normali scoprono con terrore il proprio stato patologico in occasione della visita di leva?

L'evoluzione delle figure del mostro

Ma esiste qualcosa di ancor più angoscioso: si ergono due immagini del selvaggio che provocano il panico in seno alla classe dominante. Durante la prima metà del secolo, Louis Chevalier è stato il primo a individuare il fenomeno, crescono la repulsione, il timore — e la fascinazione — suscitate dalle classi lavoratrici, in continuo aumento nel cuore delle grandi città. La narrativa amplifica la minaccia; l'inchiesta sociale, stimolata da questo processo, intende condurre una analisi del fenomeno; la filantropia tenta di esorcizzarlo. L'iniziale ottimismo della Restaurazione si tramuta in cupo pessimismo durante la Monarchia di luglio. Contemporaneamente, le élites partono alla scoperta della Francia più nascosta, dove scoprono i selvaggi. Ottusi pastori delle montagne, rozzi pescatori del litorale del Leon, i miserabili delle paludi del Poiteau, i cupi abitanti degli acquitrini della Dombe o della Brenne sembrano loro intrecciare misteriosi legami con l'asprezza e il passato della terra, con la durezza dei minerali e la natura della vegetazione; un mondo che appare loro permeato da una intrinseca animalità.

L'ansia vaga causata dalla vicinanza di tante tribù diverse si acuisce nel constatare la presenza di veri propri mostri in seno alla società. Orrendi crimini, il parricida Pierre Rivière, l'orchessa di Sélestat, che, nel 1817, divora la coscia del figlio dopo averla fatta cuocere con cavoli bianchi, avendo per giunta cura di conservarne un pezzo per il marito, il vignaiolo Antoine Léger, che, nel 1823, succhia il cuore di una ragazzina dopo averla sventrata, sembrano testimoniare lo stretto legame esistente fra l'uomo e la bestia. I giornali insistono su queste storie crudeli che gettano una luce tragica sulle angosce della vita privata. Dal regicidio del 21 gennaio 1793, il mostro è in agguato; gli orchi, scrive Jean-Pierre Peter «evadono dall'ameno recinto delle fiabe»; nel 1831, la figura di Quasimodo suggella l'affinità teratologica fra popolo e animale.

Dopo il trauma della Comune, mentre progressivamente la violenza proletaria tende a diminuire, la presenza del selvaggio scava nel profondo: il vero_pericolo scaturisce ormai dall'intimo della persona. Il "mostro” si è rintanato all'interno dell'organismo; e può irrompere perfino nel delirio dell'immaginazione. È la ricomparsa dell'antenato, sempre avvertita come morbosa, a costituire ormai la più angosciosa minaccia.

La famiglia patologica

La nozione di famiglia patologica segna a tal punto l'epoca da meritare che ci si soffermi sull'argomento. Da questo punto si dipartono i fili che collegano lo scienziato, l'ideologo e l'artista. Il vecchio concetto di ereditarietà godeva di gran credito nel XVIII secolo; i medici dell'epoca insistono nell'affermare che i rampolli di genitori anziani si rivelano malaticci, che i figli dell'amore sono di grande bellezza e che l'ubriaco rischia di generare dei mostri. Una ragionevole riproposta delle teorie ippocratiche, ricorda Jacques Léonard, predica allora l'incrocio dei temperamenti, la neutralizzazione delle idiosincrasie estreme. In seguito, lo studio della patologia industriale e urbana, lo sgomento suscitato dalle «isterie insurrezionali», lo spettacolo della neuropatia degli artisti inducono al pessimismo, suggerendo l'ipotesi che si sia creato un legame tra civilizzazione e degenerazione.

Il vecchio mito teratologico, derivato dalla Genesi, proponeva l'immagine di un tipo perfetto di umanità esposta, a causa del peccato originale, al rischio di una progressiva degradazione. Nel 1857, Benedict Morel, ispirandosi a Buchez, resuscita tale teoria. L'uomo si allontana dalla propria natura originaria e degenera. Una deriva che lo allontana dal primato della legge morale e lo asservisce al dominio dei desideri fisici, abbassandolo, insomma, al rango animale. Per circa trent'anni (1857-1890), la teoria dell'ereditarietà morbosa conquista, in forma laicizzata, gli spiriti colti. Si ignorano allora le leggi di Mendel e si crede nella trasmissione dei caratteri acquisiti; nulla impedisce dunque di immaginare una progressiva decadenza della specie. L'eziologia scientifica delle mostruosità sfocia ben presto nell'elaborazione di una teratologia sociale, nella costituzione di un immaginario museo di tarati, di esseri deformi, di degenerati. L'ereditarietà si riduce in realtà in un processo morboso. Il «marchio», il «sigillo» impresso sulla facies o nella morfologia cancellano l'individuo, lo collocano all'interno di una famiglia teratologica. Il concetto di «predisposizione ereditaria negativa» (Moreau de Tours), accompagnato dalla crescente fede in tutte le possibili forme di latenza rende vana la speranza di una redenzione. «Ogni famiglia — scrive Jean Borie — vive asserragliata in un torrione medievale con in fondo alle botole una popolazione spaventosa accovacciata in agguato».

Le teorie darwiniane, che si diffondono nell'ambiente medico a partire dagli anni 1870, impongono, scrive Jacques Léonard, una «rilettura evoluzionista del dossier sull'ereditarietà». Gli scienziati si dedicano allo studio delle cause da cui si origina il processo morboso; presto risulta loro evidente la responsabilità popolare. La miseria, l'insalubrità delle condizioni di vita, la mancanza di igiene, l'immoralità, l'intossicazione scatenano, portano alla luce o accelerano il processo ereditario. Dalla_ strada, dall'officina, dal sesto piano incalza, secondo quei medici, il pericolo che attenta il patrimonio genetico delle élites, La paura di essere contaminati dall’ammassarsi del popolo, si è tramutata in. timore-di una degenerazione che, tenuto conto del primato della neurologia, simodella secondo le forme della patologia nervosa.

Il naturalizzarsi della colpa, o anche della semplice negligenza, conferisce ad ognuno responsabilità nuove. Il mito della «eredo-lues» trasforma il desiderio in un «meccanismo infernale» (Jean Borie). L'immagine simbolica della sifilide diviene ossessiva nel romanzo, invade l'iconografia. I sogni degli eroi di Huysmans, le orrende raffigurazioni di Félicien Rops esprimono una angoscia collettiva riferita alla tragedia dei grandi sifilitici. Il vizio comporta rischi più pesanti; l'impossibile redenzione biologica sostituisce

— o rafforza — il timore del peccato e dell'inferno; la fede in una ereditarietà morbosa chiama ad un'assunzione al di fuori dell'animalità.

È bene tuttavia non esagerare questa nuova forma di terrore. Tranquillizzanti resistenze non hanno mancato di manifestarsi. Gli scienziati fedeli alla tradizione cattolica, gli ideologi repubblicani trascinati dall'ottimismo, vecchi medici ispirati da un insieme di teorie neo-ippocratiche e vitalistiche, e soprattutto i sostenitori del contagio di scuola pasteuriana, ribelli al darwinismo, ritengono che l'ereditarietà morbosa non ha nulla di ineluttabile. Mentre Weissmann mina alla base il concetto di ereditarietà dei caratteri acquisiti, il concetto di «acquisizione delle eziologie microbiche

— scrive ancora Jacques Léonard — si scontra vivacemente con le spiegazioni di carattere ereditario». Per operare una trasformazione dell'ambiente, molti scienziati confidano nelle riforme sanitarie o sociali e nei benefici effetti della solidarietà; alcuni auspicano una generazione responsabile, guidata dalla scienza. Orientamenti di pensiero da cui scaturisce la critica ai beni dotali e al matrimonio d'interesse; si caldeggia l'educazione sessuale e l'autocontrollo; si incoraggia l'avvento di quella nuova coppia maggiormente informata, più unita ed equilibrata di cui abbiamo già notato l'apparizione.

Impotenza e nevrastenia

Una rapida scorsa delle cause di sofferenza aiuta a comprendere l'importanza storica che assume in quel momento qualsiasi sintomo di malessere individuale. Adottare un atteggiamento di comprensione obbliga a sposare il dolorismo del tempo, pronto a captare le manifestazioni morbose, angosciato dalla vaghezza dei confini tra normale e patologico. Ora, è proprio in seno alla sfera domestica, all'interno della vita privata che si manifesta il sintomo, che trasuda l'infelicità nata dall'ansietà biologica o sociale, dalla delusione, dal fallimento. In questo campo, le configurazioni della sofferenza differiscono secondo i sessi. La dicotomia nella distribuzione dei ruoli e dei modi di comportamento, allora molto rigida, la dissimmetria nelle modalità di resistenza al lavoro, consigliano di seguire in parte, tracciando questo quadro del disagio fisico e psicologico, tale elementare linea di demarcazione.

È d'obbligo cominciare con il sesso maschile, a tal punto risufta evidente che è questo a condurre il gioco; è lui che provoca e in seguito connota il malessere delle donne. Tuttavia in un secolo dominato dal principio della continenza, la manifestazione della sofferenza maschile è improntata a discrezione, quanto meno sulla scena pubblica. Secondo Moreau de Tour, la lesione ereditaria è sempre una azione gestuale, e per chi assiste un teatro. Un aforisma che invita alla discrezione. L'uomo delega alla donna la messa in scena di un dolore di cui egli si sforza, dentro di sé, di occultare i segni.

Fra i molteplici sintomi del malessere maschile, mi limiterò a scegliere soltanto alcuni esempi; e, primo fra tutti, quel rapporto carente con il desiderio da cui trapela la paura della donna. L'immagine di Eva tentatrice, la paura permanente del polo oscuro della femminilità, dello scatenarsi della sessualità divoratrice, poi l'enigmatica figura della sfinge fine secolo, ostacolano, come abbiamo già visto, la realizzazione edonica della coppia. Gli anatemi medici che insistono sui rischi cui espone la masturbazione e la dissolutezza stimolano i sensi di colpa, favorendo di conseguenza le manifestazioni di impotenza.

Durante tutto il secolo, la paura del «far cilecca» sessuale resta in agguato sullo sfondo delle immagini maschili della sessualità. I temporanei fallimenti di Stendhal con la prostituta Alexandrine, e di Flaubert con Louise Colet sono rimasti famosi. La paura di non avvertire al momento opportuno l'erezione del membro virile costituisce per Edmond de Goncourt la nuova preoccupazione del seduttore mondano. Il dottor Roubaud dedica al flagello una ponderosa opera e individua l'esistenza di una impotenza idiopatica causata dalla vergogna. Nel capitolo dedicato all'argomento, Stendhal riporta una conversazione con cinque bei giovani uomini fra i venticinque e i trent'anni di età: «È venuto fuori — scrive — che, ad eccezione di un presuntuoso, che probabilmente non ha detto la verità, avevamo tutti indistintamente fatto cilecca la prima volta con le nostre amanti più famose». L'impotenza genera un'ansia tanto maggiore in quanto non si conosce sufficientemente il meccanismo dell'erezione. I ciarlatani si arricchiscono con interventi terapeutici di vario tipo. Nella stampa di grande diffusione della fine del secolo, soprattutto con l'arrivo della primavera, si assiste ad una esplosione pubblicitaria di flagellazioni meccaniche, docce, massaggi, trattamenti elettrici, urticazione del pene, agopuntura o applicazioni magnetiche.

Sarebbe troppo lungo descrivere l'ascesa progressiva di tutti quei disordini della personalità che accompagnano la crescente difficoltà dell'esistere, in parallelo con l'allungarsi della durata media della vita. Disordini di varia forma che richiamano l'attenzione clinica dell'alienista e sollecitano l'affinamento di una psichiatria fedele, fino al 1860 circa, al primato dell'eziologia morale della follia. Durante i primi decenni del secolo, l'ipocondria è un male diffuso, riguarda soprattutto gli uomini, in particolare coloro che esercitano le professioni liberali. Con la fine del secolo si diffondono la nevrastenia e la psicoastenia. I mal di testa, causati dall'accentuarsi del carattere competitivo dell'esistenza, dal moltiplicarsi degli «affari», cominciano massicciamente a produrre dei danni.

E’ a questo punto che la letteratura francese propone i primi deliri maschili, vissuti personalmente e descritti dall'interno! Nel 1887, quaranta anni dopo i vaneggiamenti da oppio di Theophile Gautier e la redazione di Aurélia, Le Horla di Maupassant presenta al lettore l'inquietante immagine della frattura interna, dello sdoppiamento dell'individualità. Nasce allora la vertigine di una angoscia sconosciuta, che ossessiona il nostro secolo XX. Il mostro non fa altro che rivelarsi attraverso la bestialità del desiderio; ha cessato di essere l'Altro; confonde con la sua sola presenza il sentimento stesso dell'identità.

La clorosi delle giovinette

Ben diversi appaiono, nel XIX secolo, i sintomi specifici della sofferenza femminile. L'inquietante fisiologia della donna, la sua fragilità, il convincimento che il sesso determini la forma delle malattie da cui è assalita spiegano come, a quel tempo, un ampio ventaglio di disturbi e malesseri venisse comodamente etichettato con il termine «malattie da donne». Un polimorfo stato morboso che rappresenta il problema quotidiano delle famiglie, e assorbe in misura quasi totale il tempo dei medici curanti della borghesia. La più precoce fra queste malattie, la clorosi, allarga i suoi confini. Legioni di giovinette dal pallore verdastro invadono l'iconografia, popolano i romanzi e le raccolte di casi clinici. La tentazione dell'immagine angelicata, l'esaltazione della verginità, il timore del sole, in attesa del culto simbolista per i cerei pallori, coltivano nelle classi alte l'immagine della giovane creatura simile ad un giglio, la cui stessa qualità del colorito sembra indicare la delicatezza e il languore.

La ridondanza delle interpretazioni mediche, le molteplici teorie scientifiche dimostrano l'inquietudine suscitata da questo strano male. Infatti fino al 1860 circa si assiste ad un accavallarsi di interpretazioni. Per alcuni, fedeli alle antiche convinzioni ippocratiche, la clorosi risulta da una disfunzione del ciclo mestruale e dalla manifestazione involontaria del desiderio amoroso che si risveglia. Così si impone, a loro avviso, il bisogno di un intervento terapeutico preventivo, basato sul divieto assoluto di tutto quanto possa favorire la passione; in attesa del rimedio vero e proprio, cioè il matrimonio. Per altri, più pudibondi, la clorosi risulta da un cattivo funzionamento dello stomaco, equivalente simbolico dell'utero. Per altri ancora è una manifestazione di insufficienza vitale; non si tratta più, agli occhi di questi ultimi, di pletora o di ritenzione quanto di un «fallimento del divenire donna» (Jean Starobinski), connesso il più delle volte a cause ereditarie. Teoria che tende a valorizzare la pubertà femminile, problema che d'altra parte sappiamo quale fascino eserciti su medici e romanzieri. Le angosce in cui si dibattono le eroine di Zola nell'oltrepassare questo difficile confine ne rappresenta un chiarissimo esempio. Connessa alla comparsa delle regole, la clorosi, che provoca disturbi nervosi, sembra in questo caso vicina all'isteria, si apparenta alla «follia puberale».

Tuttavia, durante l'ultimo terzo del secolo, si fa strada una nuova verità; si pensa ormai che il male risulti da una carenza. Una più approfondita conoscenza dell'anemia, la pratica del conteggio globulare giustificano la vecchia pratica medica che prescriveva medicamenti a base di ferro.

Tutto queste varie peripezie della scienza hanno indotto gli adulti ad esercitare una costante attenzione sul risvegliarsi del desiderio femminile e a rendere operante un'igiene morale atta a ritardarne il momento; da qui deriva la tendenza a far sposare presto le ragazze, visto, anche, che il menarca si manifesta, da un decennio all'altro, sempre più precocemente. I fantasmi suscitati dall'idea del sangue delle donne hanno contribuito a delinearne la condizione.

L'utero e il cervello dell'isterica

Ma esiste una figura che si impone con pregnanza ancora maggiore: la donna isterica; essa ossessiona l'immaginario domestico, regola le relazioni sessuali, governa sordamente i rapporti quotidiani. Da quando si è cancellata la figura pubblica della strega sghignazzante sulla vita quotidiana incombe ora onnipresente l’lsteria. Durante tutto il secolo infatti il male appare come specifico del sesso femminile. Ai medici che sostengono il contrario non si dà alcun credito. Bisognerà giungere agli ultimi decenni dell'Ottocento perché prenda piede l'immagine dell'uomo isterico. Nell'iconografia dell'ospedale della Salpètrière, la prima fotografia di uomo affetto da questo strano male risale al 1888. L'isteria si manifesta senza lasciare tracce organiche; ed è proprio questa caratteristica a generare, fin dal tempo di Ippocrate, il disorientamento dei medici. I medici del Mondo Antico attribuivano il male alle manifestazioni indipendenti di un utero che avrebbe agito come una sorta di animale rintanato all'interno dell'organismo. Veniva così ad essere affermata l'indipendenza del desiderio, la cui forza sommerge la volontà e le manifestazioni esteriori del corpo, rispetto alla persona. Durante_ la crisi, la donna è attraversata da forze oscure che la travolgono e insieme la giustificano.

Alla fine del XVIII secolo attorno all'isteria nascono nuovi interrogativi. Gli scienziati allora si racchiudono in un ragionamento circolare, tautologico, che spiega il male attraverso la natura della donna. Nella pratica quotidiana, i medici del XIX secolo restano per molto tempo legati a queste concezioni che pongono in primo piano il ruolo dell'utero e le manifestazioni del desiderio sessuale. E indirizzano l'isterica verso le cure ginecologiche. Obbedendo a identici schemi mentali, ben prima che Michelet dichiarasse la propria affascinata curiosità per i meccanismi dell'ovulazione, diversi mariti perdonano alle mogli il turbato equilibrio dei giorni che precedono l'inizio delle mestruazioni. Alcuni vigilano con attenta sollecitudine sul buon andamento del ciclo.

Tuttavia, i medici da molto tempo discutevano sui rispettivi ruoli, nell'eziologia del male, svolti dal sistema genetico e dal sistema nervoso. Verso la metà del XIX secolo si verifica una sfaldatura per cui si tende a mettere in risalto l'azione del cervello. Nel 1859, Briquet parla dell'isteria come di una nevrosi dell'encefalo. Un mutamento di rotta fondamentale. Ora la malattia_viene posta in relazione proprio con quelle qualità che sono una caratteristica della donna; questa soccombe all'isteria in quanto dotata di una delicata sensibilità, accessibile alle emozioni e ai nobili sentimenti. La donna è portata a questo specifico male dalla propria globale struttura; essa paga un pesante tributo alla malattia per quelle stesse qualità che fanno di lei una buona sposa e una buona madre. La malattia, scrive Gerard Wajeman, sembra da quel momento sottrarsi alla patologia. Va tenuto presente che il libro di Briquet viene pubblicato cinque anni dopo la promulgazione del dogma dell'Immacolata Concezione, all'indomani delle apparizioni di Lourdes, in un momento in cui nei pensionati per giovinette si rafforza l'ascendente dell'antropologia angelizzante.

Tra il 1863 e il 1893, Charcot continua a sostenere la tesi del primato della nevrosi. Attribuendone le cause all'ereditarietà morbosa, risvegliata dallo «choc nervoso», agente provocatore che scatena le manifestazioni del delirio. Il male non lascia tracce organiche in quanto interessa esclusivamente la corteccia cerebrale.

Che si tratti di una alterazione connessa all'utero oppure connessa al cervello, l'isteria continua ad essere concepita come manifestazione di un corpo esterno al soggetto. Il male, osserva Gladys Swain è sempre «avvertito da colui che ne è preda come altra cosa da sé». Esprime una forza anonima che la donna si sente, in alcuni casi, in obbligo di subire, allo stesso modo in cui è costretta a sopportare la violenza del desiderio maschile. Perfino la sposa conosciuta come casta, o anche indifferente e fredda, rischia, come un tempo l'indemoniata, di essere percorsa da forze naturali che potrebbero trasformarla in una ninfomane.

Un insieme di convinzioni che portano a consigliare un ragionevole appagamento del desiderio e del bisogno di tenerezza che regola la sensibilità femminile. L'ossessione di questo male incoercibile avvalora la tesi di una igiene sessuale basata sulla moderazione, quasi un inno alla vita coniugale tranquilla. Una condizione che consente alla donna di estrinsecare, senza pericoli, le proprie qualità di sposa devota e di tenera madre. Al marito spetta il compito di darle modo di esercitare la sua sensibilità, senza trascinarla, attraverso una sensualità eccessiva, sulla strada dell'isteria, sempre in agguato.

Ma, nel corso dei decenni, interviene una nuova problematica, complicando i dati della questione. Gli animisti del XVIII secolo vedevano l'isteria non come risultato di una tensione, di una distorsione tra il soggetto e il suo corpo, bensì come conseguenza di un disordine dell'anima. Secondo Stahl, la malattia suggella l'irrompere della passione; è il segno di un conflitto vissuto dall'anima divisa. Quest'ultima, scrive Paul Hoffmann, «si vieta di adottare apertamente dei comportamenti di soddisfazione, incapace, tuttavia, di non esprimere almeno il proprio desiderio».

Si può capire in qual misura una teoria di tale genere preluda a quella soggettivizzazione del corpo di cui Gladys Swain individua la lenta maturazione teorica tra il 1880 e il 1914 e che sfocerà nell'analisi psicologica di Janet e poi nella psicanalisi. Da quel momento l'isteria è l'espressione della coscienza divisa, della dissociazione dell'io; è la interna frattura del soggetto. Per la prima volta nella storia si va cancellando l'atteggiamento convulsionario attraverso cui si esprimeva l'antico sentimento di esteriorità del corpo; il destino femminile avrà da quel momento cessato di trovare il proprio simbolo nel teatro dell'isteria.

Malgrado ciò, per chi studia la vita privata, l'essenziale è pur sempre l’onnipresenza di questa malattia sulla scena domestica. La donna di quell'epoca, quando non è costretta per far sentire la propria voce al delirio e all'urlo, ricorre ad ogni sorta di malesseri o disturbi per attirare l'attenzione di coloro che la circondano sulla propria sofferenza intima. Gli storici cominciano a pressare attenzione a questo sviamento della parola.

Ricerca dell'identità femminile

Alcune manifestazioni isteriche assumono forme spettacolari; spesso collettive, esplodono nello spazio privato come nello spazio pubblico. Le une si ricollegano all'arcaica possessione; altre si collocano nel prolungamento dei riti convulsivi. Tra il 1783 e il 1792, due ecclesiastici, i fratelli Bonjour, installati nel piccolo comune di Fareins, a tre chilometri da Ars, riescono ad esercitare un assoluto ascendente su un gruppo di giovani parrocchiane. Queste si ribellano all'autorità paterna, si sottopongono alle flagellazioni inflitte loro dal curato, si abbandonano ad eccessi di ogni sorta; una si lascia crocifiggere nella piccola chiesa del luogo; la più esaltata, divenuta l'amante di François Bonjour, partorisce un nuovo Messia. Mette così radici una strana forma di eresia paesana, ancora fiorente al tempo della Terza Repubblica. Le «abbaiatrici» di Josselin, nel 1855, come le «possedute» di Plédran, nel 1881, testimoniano della persistenza di manifestazioni di delirio collettivo che sovvertono la vita privata.

È più noto il caso delle isteriche di Morzine. In questo piccolo villaggio isolato fra le montagne dell'arco alpino, sono numerose le donne non sposate; e vi si è formata nel tempo una specifica socialità femminile. Il clero, che esercita un'influenza notevole, impedisce ogni manifestazione festosa o ludica. Una costrizione che, sommandosi allo smarrimento causato dall'irruzione di una modernità, avvertita come un elemento di pericolo, spinge le donne del villaggio ad abbandonarsi per sedici anni (1857-1873) a manifestazioni isteriche. Ci viene così proposta una fenomenologia illuminante la condizione di sofferenza della donna nel XIX secolo.

Nella primavera del 1857, due ragazze che si preparano alla comunione sono le prime a manifestare dei disturbi. Ben presto imitate dalle altre adolescenti, urlano, si contorcono, bestemmiano, insultano gli adulti che cercano di calmarle. Le donne, garanti dei valori di una comunità incapace di integrare l'apporto esterno e che desidera continuare a vivere ripiegata su se stessa, si scatenano a loro volta.

L'isteria è una spia anche — o forse soprattutto — della sofferenza individuale delle fanciulle in cerca di un'identità. Fanciulle che non possono andare a ballare, ossessionate dalla paura di restare zitelle, e che provano infine piacere nell'imitarsi a vicenda sulla scena del delirio collettivo. Le giovani dichiarano la propria indifferenza nei confronti dei genitori, le madri nei confronti dei figli. Le figlie insultano il padre, rifiutandosi di obbedirgli. Le mogli picchiano i mariti; le donne, stravolgendo le forme del rituale, si beffano delle pratiche religiose. Il 30 aprile 1864, le isteriche scatenate tentano di far fare una brutta fine al vescovo che proibisce di esorcizzarle. Ancor maggiormente rivelatore è il rifiuto del lavoro da parte delle donne; queste si mettono a giocare a carte, bevono i liquori riservati agli uomini, non vogliono mangiare le patate e pretendono ormai esclusivamente il pane bianco.

In privato, il parroco, nonostante le raccomandazioni dei superiori, tenta, senza successo, di ricorrere all'esorcismo. Le autorità francesi, intervenendo dopo il 1860, intraprendono una vera e propria crociata civilizzatrice nella speranza di calmare le donne. Aprono strade, installano una guarnigione, organizzano balli. Soprattutto l'alienista Constant, dotato di un grande ascendente, cerca di circoscrivere il delirio nella sfera privata; conta sulla separazione, l'isolamento, l'individualizzazione dei casi. Otterrà finalmente dei risultati positivi all'alba della Terza Repubblica.

Occorre tener presente che esistono altre tracce, trascurate, di sofferenza e rivolta delle donne. Ne citeremo alla rinfusa alcuni esempi. Nel 1848, una epidemia dello stesso tipo scoppia in piena Parigi, in una fabbrica dove lavorano quattrocento operaie. Nel 1860, a scatenarsi sono le allieve della Scuola Normale di Strasbourg; nel 1861, le comunicande della parrocchia di Montmartre; nel 1880, le interne di una scuola di Bordeaux. Manifestazioni isteriche scoppiano nel 1883 in uno di quei laboratori-internato dell'Ardèche in cui le ragazze recluse si dedicano alla lavorazione della seta.

Il forte interesse da cui è circondata l'isteria sfocia in quell'avvincente teatralizzazione del male che si svolge alla Salpétrière tra il 1863 e il 1893. Teatro sconvolgente, terrificante dove la donna isterica lancia quel grido di angoscia pura così profondamente significativo dell’intima angoscia del secolo.

Il teatro della Salpétrière

Un teatro voluto, imposto da Charcot, che ha tracciato il quadro codificato le fasi del grande attacco isterico. Il professore vi fa recitare delle donne ubbidienti, desiderose di catturare la sua attenzione e quella dell'ambiente. Pur permanendo uno scarto tra il loro desiderio e l'ingiunzione del maestro, queste sembrano trarre godimento dalla rappresentazione del proprio dolore narcisistico. Charcot esibisce le sue pazienti davanti ad un pubblico di artisti, scrittori, pubblicisti, uomini politici; ad alcune delle sue lezioni del martedì, è possibile incontrare Lavigerie Maupas-sant o Lépine. La rappresentazione dell'isteria, fissata in immagine dai fotografi Régnard e Londe, accentua il segno, sottolinea la facies, spinge all'imitazione, rivela l'erotismo delle posizioni. Si diffonde così nella opinione pubblica l'attrazione per le malattie nervose. Si impone una gestualità che si ripercuote sulla scena dei teatri parigini. Sarah Bernhardt mima le malate, divenute attrici del grande luminare. Dagli strazianti rimorsi della Kundry wagneriana (1882) all'interminabile grido di vendetta della Elektra (1905) di Richard Strauss, le eroine dell'Opera sembrano rivaleggiare con le vedettes della Salpétrière, oramai famose in tutto il mondo occidentale.

Tra letteratura e psichiatria si allacciano sottili rapporti; in una trilogia, basata su un'ampia documentazione, Edmond de Goncourt traccia il quadro dell'isteria come odio per il maschio (La Fille Elisa), dell'isteria religiosa {Madame Gervaisais) e della nevrosi della giovanetta (Chérie). I tormenti di Marthe Mouret descritti da Zola in La Conquète de Plassans (1874), quelli di Hyacinthe Chantelouve in Là-bas di Huysmans ancorano l'immagine del delirio codificato alla Salpétrière. E intanto, ipnotizzati da Charcot, trascinati dalla moda, gli stessi scrittori confessano oppure si fingono isterici.

Si monta un palcoscenico della quotidianità su cui la donna, simulatrice, crede di interpretare una parte. L'«ammiccamento», l'equivoco sorriso dell'isterica propongono un'immagine patologica della seduzione femminile. A questo punto gli uomini sono fortemente tentati a stabilire dei nessi tra malattia e deliri dell'orgasmo o provocazioni delle peripatetiche. Ogni donna che fa delle avances ad un uomo evoca, che lo sappia o meno, Augustine, la giovane e graziosa prima attrice della Salpétrière. Charcot e i suoi allievi non si stancano mai delle sue «occhiate», dei suoi «atteggiamenti passionali», delle sue «estasi»; le fanno, senza tregua, mimare lo stupro, rappresentare la propria disgrazia, finché un bel giorno Augustine non decide di fuggire.

Perché un teatro di questo genere? Per quale motivo questo insaziabile diletto di medici che sembrano trarre piacere da tali osceni transfert di cui beneficiano? Come si spiega l'incredibile ascendente del grande primario ritenuto — o che in alcuni casi sembra ritenersi — un novello Bonaparte o un nuovo Gesù Cristo? L'intento terapeutico, per altro incontestabile, la necessità di esercitare l'occhio clinico non bastano a spiegare tale compiacimento nel suscitare l'espressione di un erotismo femminile accompagnato da sofferenza, a giustificare questo gioco a rimpiattino consistente nel pascersi di un piacere mimato. Il teatro dell'isteria è forse la semplice tattica di una sottile economia del desiderio maschile; è soprattutto il sintomo, e forse l'inconscia terapia, di un male dell'essere dell'uomo. Sulla scena della Salpétrière, in questo complesso gioco di esibizionismo e voyeurismo, si tenta di rappresentare, da una parte e dall'altra, il rapporto difettoso con il desiderio.

La clientela privata di Charcot è immensa, in parte composta da stranieri. Ogni anno l'illustre clinico riceve nel suo consultorio esterno cinquemila persone. Come sorprendersi quindi nel trovare tante isteriche nelle case o meglio nel constatare che una semplice ragazza piena di slanci come Marthe venga considerata dai parenti una incurabile malata?

Una attività frenetica che si risolve in crudeli — nonché inutili — interventi terapeutici. Non intendiamo qui riferirci al teatro in sé, che quanto meno consente alle attrici di godere di una condizione di privilegio nell'inferno della Salpètrière, ma del moltiplicarsi — malgrado Charcot — delle isterectomie, delle cauterizzazioni del collo dell'utero — ad opera dello stesso Charcot —, dell'isteria sperimentale per via ipnotica; e, per finire, della tentazione della droga per queste donne torturate che finiscono per diventare alcolizzate, eteromani o morfinomani.

Il gusto dell'alcol, una nuova realtà

Ubriacarsi può costituire un piacere; ma il più delle volte si tratta di un gesto rivelatore di una difficoltà a vivere. È significativo che con il XIX secolo si assista alla nascita dell'alcolismo e alla comparsa della figura del bevitore solitario. Una nuova calamità attorno alla quale si accendono violente polemiche. Con ampiezza di argomenti, i membri delle classi dominanti, valendosi dell’appoggio della medicina pongono in relazione la propensione all’alcol con l'immoralità della classe operaia. Per sconfiggere la nuova pestilenza che getta il disordine nella famiglia, contravviene al ferreo principio del risparmio, favorisce il calo demografico, accelera la degenerazione della razza, rinfocola la discordia sociale, attenta alla dignità patria, è opportuno in primo luogo operare una moralizzazione del proletariato. Si organizza una campagna antialcolica, a partire dal 1873 vengono create delle leghe che fanno affidamento sulla scuola, la caserma, la città-giardino, l'inquadramento dei divertimenti operai, e, soprattutto, sull'azione moralizzatrice della donna. Più sotterraneamente questa campagna prende di mira l'alcolismo mondano. L'assenzio, in particolare, desta preoccupazione. Lesivo alle cellule cerebrali, fattore di epilessia, rischia di saccheggiare, al pari della sifilide sua alleata, il patrimonio genetico delle classi dominanti. L'uomo rispettabile che beve smodatamente fra le luci del caffè offre, inoltre, uno spettacolo degradante che non deve assolutamente divenire consueto.

Il movimento operaio, a partire dal 1890, rilancia la campagna orchestrata dai notabili; sulle basi tuttavia di una totalmente diversa analisi del male, le cui cause sono ora individuate nella miseria del proletariato. Il che non incide sulla vivacità dell'impegno contro l'alcolismo. In questi ambienti, la droga sempre più diffusa è accusata di far da freno alla organizzazione dei lavoratori; la si vede come il nuovo oppio del popolo. Nel momento in cui si allenta la presa della religione subentra l'alcol come elemento di confusione della coscienza, che blocca lo sviluppo della lotta di classe. Anche qui, alla donna è affidato un ruolo moralizzatore. L'operaia ha il dovere di convertire il marito alla temperanza allo stesso modo della borghese redentrice cui spetta la missione di ricondurre il marito miscredente sulla via dell'ortodossia.

Per differenti che siano le molle di questa doppia offensiva, i cui a priori rischiano di sviare lo storico, tutti i testimoni concordano nel sottolineare la trasformazione della figura del bevitore. «All'ubriacone rubizzo, bonaccione, loquace, espansivo e gaio — osserva Chantal Plonevez — succede l'alcolizzato livido, cupo, talvolta violento, aggressivo e in alcuni casi criminale». Una sostituzione che corrisponde ad una evoluzione del modo di bere di cui potremo renderci pienamente conto rifacendoci agli esempi delle zone occidentali della Normandia e della Bretagna. Durante la prima metà del secolo qui trionfa ancora l'«ebbrezza selvaggia», l’«ubriachezza rumorosa e sregolata» (Thierry Fillaut). Quando nel ritmo della vita quotidiana si produce una frattura, il contadino si ubriaca. Le processioni, le feste del santo patrono, la fiera, le cerimonie familiari diventano occasione di sregolatezze, cui fa da cornice l'atmosfera festiva, e che si manifestano in una ebbrezza ostentata, che sfugge alla comprensione degli spettatori borghesi. I parigini che visitano la Bretagna, stupefatti nel vedere nei giorni di festa tanta gente ubriaca fradicia nei fossi, tendono a sopravvalutare i segni di una dissolutezza che sembra convalidare la loro immagine dell'animalità contadina.

A partire dagli anni 1870, l'alcolismo controllato ma cronico reprime le manifestazioni dell'ebbrezza provocatoria. Definito e denunciato nel 1849 dallo svedese Magnus Huss, l'alcolismo occupa ormai un posto di primo piano nell'eziologia delle degenerazioni. Tra il 1850 e il 1870 circa, si ha una fase intermedia durante la quale, osserva Thierry Fillaut, «ebbrezza e consumo quotidiano vanno di pari passo». Si verifica allora uno slittamento dalla scena pubblica alla scena privata. Una differenza riconosciuta dalle autorità; la legge del 1873 punisce l'ubriachezza pubblica, e ignora l'alcolismo nascosto. Mal applicata, di scarsa portata, la legge colpirà soltanto degli emarginati, spesso privi di domicilio, incapaci di circoscrivere nel privato le proprie abitudini.

Tutto fa pensare che il processo individuato nelle regioni occidentali possa valere quale esempio di portata generale; pur tenendo presente che gli episodi particolari differiscono secondo gli ambienti sociali. L'alcolizzazione segreta, nascosta, che si svolge nella sfera privata sembra essere di origine borghese, anche se sul fenomeno non sono ancora state condotte ricerche specifiche. L'abitudine dell'aperitivo, il caffè «corretto», lo stesso assenzio conserveranno a lungo la loro matrice elitaria, senza mai giungere a democratizzarsi realmente. La lenta degustazione dell'assenzio, la «fée verte», è preceduta da un elaborato rituale, indice di raffinatezza e che presuppone un consenso all'autodistruzione.

Fra le masse popolari delle città, l'alcolismo si sviluppa precocemente. I muratori migranti giunti dal Limousin consumano una maggiore quantità di alcol dei contadini rimasti nel luogo di origine; e questo a partire dalla Monarchia di luglio. Una alcolizzazione, si potrebbe obiettare, estranea al nostro argomento, in quanto connessa alla socialità e manifestata nello spazio pubblico. A meno, che non si voglia considerare la bettola popolare e la bottega del vinaio come spazi in cui si confondono i confini, e comportamenti pubblici e privati si intrecciano. L'oste, considerato un amico, prende parte alla conversazione. Ascolta le confidenze, presta dei soldi; se necessario si trasforma in procacciatore di lavoro. L'alcol, qui non è soltanto un bisogno fisiologico, ma è pretesto al rapporto privato. Si potrebbe, senza forzare troppo la mano, classificarlo come un coadiuvante nelle procedure di confessione.

Ma, nello stesso tempo, suggella la socialità del lavoro. L'operaio che non beve rischia l'esclusione. Fa la figura di aristo, «che si crede superiore agli altri» (C. Plonevez). Il consumo di alcol, segno riconosciuto di virilità, contribuisce a definire l'immagine dell'individuo. La lettura di Sublime di Denis Poulot consente di valutare il discredito che in questo ambiente circonda la sobrietà. Qualsiasi avvenimento lieto si accompagna ad una bicchierata: un compleanno, l'aver incontrato un amico, un telegramma, una nuova assunzione, e, soprattutto, la riscossione della paga.

Inoltre, la pregnanza del modello della termodinamica spinge a considerare il corpo come una caldaia, e in seguito come un motore, che bisogna alimentare con carburante; convalidando la fiducia nelle virtù dell'alcol. È l'illusione della «sferzata» a regolare il ritmo molto preciso del consumo del muratore di Parigi, dello scaricatore di Rouen e dell'operaio delle acciaierie di Valenciennes. Il «bicchierino» buttato giù in un solo sorso, a partire dalle cinque del mattino fa scordare la fatica, il rischio di incidenti, l'angoscia della condizione. L'alcol entra come componente fondamentale nell'economia di usura del fisico degli operai: il che contribuisce a spiegare la differenziazione sessuale nella quantità del consumo. L'operaia, infatti, si vale di specifiche tattiche, vietate all'uomo, che le consentono di resistere meglio ad uno sfacelo prematuro.

Gli storici hanno proposto altre spiegazioni all'aumento del consumo alcolico solitario, ma la validità delle loro tesi non è facilmente dimostrabile. Il decadimento delle antiche strutture festive, l'espropriazione da quelle specifiche abilità su cui si basava la dignità del lavoro operaio, la crescente monotonia del lavoro, l'aumento dei salari, e l'allungarsi del tempo libero che stimolano il bisogno di evasione e accrescono la difficoltà di «ammazzare il tempo» hanno potuto esacerbare un disagio psicologico che il lavoratore cerca di annegare nell'alcol. I più tentati dai piaceri dell'osteria sono infatti quegli operai che hanno raggiunto un certo benessere senza essere preparati a saper gestire il tempo libero.

La fabbricazione industriale, il calo dei prezzi degli alcolici, come pure la liberalizzazione delle rivendite, in seguito alla legge del 1880, hanno evidentemente favorito l'aumento del consumo urbano. Un'inchiesta condotta a Parigi consente di circoscrivere con maggior precisione i gusti popolari. L'operaio apprezza il vino, gli amari, il chinino e persino l'assenzio, anche se cerca di nasconderlo; preferisce l'acquavite al rum. In compenso, sidro e birra non sembrano tentarlo minimamente. Le donne, quando bevono, preferiscono gli aperitivi, i liquori e la frutta sotto spirito.

Gerard Jacquemet nota l'onnipresenza dell'alcol nella vita privata dei popolani di Belleville. L'ubriachezza rinfocola le discordie domestiche, esaspera la gelosia del marito tradito, stimola la violenza nata dal semplice sospetto, provoca la brutalità del marito rimproverato dalla moglie perché ubriaco. Qui le risse dopo la bevuta sono all'ordine del giorno, come pure il delirium tremens, tragica immagine che rende manifesto il pericolo della degenerazione.

La droga nelle campagne

L'alcol conquista più tardivamente la campagna. Per molto tempo i contadini si sono contentati di acqua, del latte, del vinello, o di quel liquido appena fermentato chiamato da quelli del Centro Ovest la «bibita». Ancora durante il Secondo Impero la gran maggioranza della gente di campagna del Limousin, alla fine del pranzo, va a bere l'acqua della fonte. La cronologia del diffondersi dell'uso di bevande alcoliche varia secondo le regioni. Nell'Ovest l'offensiva si scatena tra il 1870 e il 1880, e l'invasione si espande negli anni successivi. Il trionfo dell'alcol nei paesi avviene contemporaneamente alla grande crisi agricola, alla vittoria della repubblica e della scuola laica, per quanto questa tenti di limitarne gli effetti. In alcune zone della bassa Normandia il processo si avvia verso la metà del secolo; è decisamente posteriore nelle zone più esterne, in Vandea ad esempio, o, ancor più nel Finistère; regioni lontane dove le antiche usanze nel bere resistono a lungo. A proposito di quanto detto, è opportuno non sottovalutare l’alcolismo delle zone vinicole. Una efficace propaganda, sapientemente orchestrata, ha per molto tempo sostenuto l'immagine fittizia di una eccezionale sobrietà del viticultore.

Alla crescita del consumo nelle zone rurali concorrono, oltre la diminuzione del prezzo degli alcolici e il miglioramento del tenore di vita, altri fattori quali lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, una maggiore influenza della città sulla campagna e la coscrizione obbligatoria istituita nel 1872. Si aggiunge a ciò, come propone Hervé Le Bras, lo smarrimento causato dal deperimento delle antiche strutture antropologiche e dall'affievolirsi del sentimento religioso. L'isolamento dell'individuo o della famiglia è accentuato dall'esodo rurale. All'inferno della famiglia patriarcale il celibato assume una fisionomia più drammatica nel momento in cui la «casa» è in decadenza. Nelle campagne della Creuse, ed è solo un esempio fra tanti, il gruppo domestico invecchia, l'ambiente si intristisce; la bicicletta favorisce la diserzione dei giovani, attratti dai caffè del borgo. Solamente le analisi «antropologiche, basate all'occorrenza sui dati di indagini etnopsichiatriche, consentirebbero di individuare le radici della nuova condizione di sofferenza su cui si innesta la progressiva diffusione dell'alcol nelle regioni agricole.

Si giungerebbe così a spiegare il carattere privato di una prassi che interessa in misura quasi uguale uomini e donne. Nel segreto della abitazione della bassa Normandia, il «goccetto» non provoca nessuna resistenza femminile. Nei lontani pascoli della Normandia l'eco delle campagne moralizzatrici giunge attutito; spesso è come se esistesse un accordo per alcolizzarsi in due. L'acquavite non provoca quel tipo di violenza privata che si riscontra in città, ma condiziona, più profondamente di quanto lì non avvenga, la totalità della vita domestica. In questa regione, il consumo quotidiano di sidro, del «grappino» e, soprattutto del caffè annaffiato di calvados mina lentamente la salute dei contadini. I coltivatori di Mortanais, il cui consumo era a quell'epoca di mezzo litro di acquavite al giorno, non costituiscono più un'eccezione. La maggior parte delle famiglie consuma da 50 a 75 litri di alcol annualmente. Nel corso dei decenni si diversifica nelle campagne la gamma delle bevande domestiche. Nella regione di Porzay, il vermouth compare nel 1879, il rum nel 1880, il kirsch e il curaçao nel 1889, l'assenzio nel 1901. Raffinatezze che restano tuttavia secondarie, rispetto alla sempre prediletta acquavite.

L'emergere di una specie nuova

Il secolo XIX aveva relegato l'omosessualità fra le forme patologiche. Un atteggiamento ribaltato solo di recente che dimostra quanto dovesse essere difficile l'esistenza del «pederasta» nella perentoria e crudele società dell'epoca. E in quest'ottica che occorre affrontare la storia di un comportamento allora definito «contro natura». In questo campo l'analisi delle rappresentazioni e del linguaggio riveste una particolare importanza. Lo studio dell'immaginario consente infatti di comprendere parallelamente la mentalità degli eterosessuali, la repressione che grava sugli omosessuali e le condotte che questi sono costretti ad adottare per sfuggire alla condanna dell'opinione pubblica da cui si sentono braccati.

Semplice comportamento, talvolta determinato dalla casualità degli incontri, il più delle volte accompagnato da una corrente pratica eterosessuale: così si presentava ancora alla fine del XVIII secolo l'omosessualità. Ed ecco che improvvisamente la lente del clinico individua la nascita di una specie nuova. Dal confuso mondo del vizio si stacca un tipo umano, strano prodotto del determinismo biologico. Si inaugura in tal modo quella «dispersione delle sessualità» individuata da Michel Foucault.

La fede negli stretti rapporti intercorrenti fra fisico e morale inducono a tracciare una immagine femminile della nuova specie. L'amore per i gioielli, il trucco, i profumi, l'ondeggiamento delle anche, i capelli arricciati apparentano il «pederasta» alla donna.

Della donna condivide anche i difetti: la chiacchiera, l'indiscrezione, la vanità, l'incostanza, la duplicità. La medicina legale, che intende smascherare il personaggio, ne disegna un ritratto allucinante, bollandolo di tutti i marchi di infamia del XIX secolo. Per il dottor Ambroise Tardieu, che scrive nel 1857, il «pederasta» contravviene all'igiene, alla pulizia; ignora la lustrazione purificatrice. La sua stessa morfologia lo rende manifesto. La forma delle natiche, il rilassamento dello sfintere, l'ano a forma di imbuto, oppure la forma e la dimensione del pene indicano l'appartenenza alla nuova specie; al pari della «bocca di traverso», «i denti molto corti, le labbra spesso tumide, deformate» che attestano la pratica della fellatio. Mostro nella nuova galleria dei mostri, il pederasta ha fatto lega con gli animali; il suo coito ricorda quello del cane. La sua natura lo associa agli escrementi; egli ricerca il fetore delle latrine.

Dal punto di vista dei poliziotti, l'omosessuale è un individuo che travalica le barriere sociali. La pratica «contro natura» non è più appannaggio dell'aristocrazia. Anche l'alta borghesia e il mondo degli artisti si sono lasciati contaminare; le statistiche della repressione rivelano la presenza di una notevole percentuale di proletari nell'ambiente omosessuale. Il pederasta, in misura maggiore rispetto a coloro che sono attratti dalle donne di strada, subisce il fascino della fuga sociale; egli non esita se è il caso ad infrangere le barriere di classe e di razza. Un insieme quindi di comportamenti abominevoli agli occhi dei borghesi così scrupolosamente attenti nel preservare il corpo da ogni possibile contaminazione, abbarbicati al concetto di purezza del sesso, come gli aristocratici a quello della nobiltà del sangue.

Durante l'ultimo terzo del secolo, l'immagine composita del-l'«invertito» esprime l'accentuarsi dell'ansia biologica. La protosessuologia in fase evolutiva serializza la minaccia; schematizza i comportamenti, delinea le molteplici figure della perversione. L'«invertito» non è oramai altro che un tipo fra i tanti, accanto ai feticisti di vario genere, gli esibizionisti, e a coloro che intrattengono rapporti sessuali con gli animali.

Li accomuna il marchio della condizione patologica, vittime di volta in volta della «follia morale», della «nevrosi genetica», e in seguito dell'implacabile processo di degenerazione. Magnan e Charcot, all'interno del quadro da essi tracciato delle vittime dell'ereditarietà morbosa, riservano un posto di primo piano all'invertito.

Da quel momento l'omosessuale - il termine viene coniato nel 1809 — non è più soltanto un'immagine senza spessore, una morfologia, un temperamento; è anche una storia individuale, un modo di essere e di sentire. Lo svolgimento della sua infanzia, o persino della sua vita intrauterina, contribuisce a giustificarne il destino. Gli viene offerto il piacere di essere oggetto di interpretazione. Cessando di non essere altro che un peccatore, l'omosessuale è divenuto un malato, se non un tarato. Curarlo è un dovere. Si va elaborando un complesso sistema terapeutico, basato secondo i casi, sulla ipnosi, la ginnastica, la vita all'aria aperta, la castità oppure la frequentazione delle prostitute.

La disapprovazione sociale

Si è discusso ampiamente sull'intensità della repressione che grava sui «sodomiti» nel XVIII secolo. Sembra, ad ogni modo, evidente che il crimine, assai difficilmente riconoscibile allora nella pratica quotidiana, mentre è tollerato in alto loco, continua ad essere perseguitato nel popolo. Il più delle volte ci si limita a sottoporlo a sanzione quando è in relazione con un'altra colpa. Gli storici manifestano non pochi dubbi sulla portata di una liberalizzazione che si sarebbe avuta in questo campo durante il periodo della Rivoluzione. Comunque, in seguito, la repressione assume i suoi connotati per poi intensificarsi.

Fra motivi di ordine pubblico e teorie mediche sembra essersi stabilita un'intesa; l'opera del medico Tardieu è in sintonia con gli interventi del poliziotto Carlier. Il Codice penale del 1810 ignora la specificità del delitto di pederastia; sarà la legge del 28 aprile 1832 ad istituire il crimine di pedofilia commesso su minori inferiori agli undici anni; in base a questa legge è sottoposto a sanzione anche il tentativo di seduzione, e perfino la semplice carezza. Il 13 marzo 1863, l'età dei minori verrà portata a tredici anni. In realtà l'operato della magistratura e della polizia si rivela molto più duramente punitivo del testo della legge, tutto sommato anodino. Dopo il 1834, la polizia ricorre alle retate; è rimasta celebre quella del 20 luglio 1845, operata nei giardini delle Tuileries. Quel giorno i «pederasti» vennero addirittura bastonati dalla folla. Tra il 1850 e il 1880, la repressione si configura secondo gli stessi sistemi adottati contro le passeggiatrici; rivelandosi in alcuni casi anche più rigida: nel 1852 i giudici decidono di vietare il soggiorno nel dipartimento della Seine a quei pederasti di professione che non hanno fissa dimora né un mestiere confessarle. Nel 1872, Alfred detto La Saqui, uno che adescava gli uomini troppo sfacciatamente, incappa in due anni di prigione; l'arresto costituirà un caso giudiziario.

La vita privata dell'omosessuale si svolge sotto il segno di tale repressione. È obbligato a nascondersi. All'interno della grande città si elaborano forme di una specifica socialità, unico punto di appoggio per individui marginalizzati che di conseguenza finiscono per assomigliare al ritratto infamante che grava su di loro. Durante il Secondo Impero, si costituisce una antropologia omosessuale maschile, parallela alle teorie mediche e all'azione poliziesca. La necessaria segnalazione del desiderio, condotta con grande accortezza, a causa della repressione, impone la scelta di specifici luoghi di incontro appartati, tranquilli. La paura di una «soffiata» fa nascere un vocabolario gergale di esclusione; impone il complicarsi dei segni di riconoscimento.

La stigmatizzazione sociale, osserva Philippe Ariès, spinge talvolta la vittima affranta alla confessione patetica e penosa; alcuni, sconfitti, non sono mai riusciti a superare la condanna del proprio ambiente. Villemin, ministro della Pubblica Istruzione al tempo di Luigi Filippo, è morto pazzo, perché non era mai riuscito ad accettare il proprio trasporto per gli uomini. È bene tuttavia non calcare troppo le tinte. Almeno durante la prima metà del secolo alcuni omosessuali, come Cambacérès e Junot, hanno fatto delle brillanti carriere. L'opinione pubblica si mostra persino tollerante nei riguardi di amanti dello stesso sesso, purché le manifestazioni della loro inclinazione non travalichino la sfera privata. La buona società ^parigina ammette l'unione di Destutt de Tracy con un altro ideologo; tollera la coppia formata dal marchese de Custine e dall'inglese Saint-Barbe. Joseph Fiévée vive con Théodore Ledere, autore di proverbi drammatici; i due amanti verranno sepolti nella stessa tomba al cimitero di Pére Lachaise.

Ad ogni modo, i «pederasti» del XIX secolo hanno configurato il modello di una sessualità assolutamente edonica, scissa dalla procreazione. Un'immagine ricca di avvenire. Quando, abbandonando la clandestinità, giungeranno ad affermare la propria normalità, gli omosessuali proporranno alla gioventù una nuova immagine vincente della virilità.

La lesbica, sogno rivelatore dell'uomo

Non è ancora possibile attualmente ricostruire la storia dell'omosessualità femminile. Al di fuori di una pratica mondana ininterrotta dalle anandrynes della fine del Settecento alle ricche americane trasferitesi a Parigi durante la Belle Epoque, abbiamo come unico punto di riferimento le interminabili dissertazioni dei medici e dei magistrati sul diffondersi del tribadismo nei bordelli e nelle prigioni. In compenso conosciamo a fondo il fascino e-sercitato dalla figura della lesbica sull'immaginazione maschile dell'epoca, ulteriore sintomo di quel carente rapporto con il desiderio che mina gli uomini del XIX secolo. La posizione generale nei confronti delle pratiche saffiche si configura secondo strutture diverse da quelle che hanno costruito l'immagine del pederasta. I fantasmi maschili, che inducono a considerare quest'ultimo come un soggetto di patologia clinica, portano a poetizzare la figura della «lesbica». È proprio il XIX secolo ad avere inventato il termine «lesbica», «dolce immagine intrisa di delicatezza e di grazia, il cui solo nome — osserva Jean-Pierre Jacques —, risuona all'orecchio come una carezza».

Chiaramente i medici sono preoccupati di fronte ad un piacere femminile che esclude l'intervento moderatore dell'uomo; essi affermano perentoriamente che in tutti i casi una delle due partners fa propri gli atteggiamenti maschili e assume il ruolo virile; una convinzione che genera deliranti fantasie sulle mostruose dimensioni della clitoride e sulle deformazioni vulvari delle tribadi. La prefettura di polizia intende tenere sotto controllo le donne che vogliono «vestirsi da uomo»; esige che queste richiedano una autorizzazione; una ingiunzione cui è costretta a sottomettersi la pittrice Rosa Bonheur.

Un'immagine maschile che, tuttavia, non sempre condiziona il modo di pensare. Già prima del 1836 Parent-Duchàtelet aveva provato che nessuna caratteristica clinica distingueva la tribade dalla donna eterosessuale.

L'immagine di Saffo, elaborata dagli uomini di quel tempo, permane ambigua; è l'espressione di quel moto ondoso fra fascinazione esercitata dall'eccesso femminile e timore ispirato dal piacere della donna, quando si manifesta assente l'uomo.

L'amore saffico è uno degli argomenti prediletti delle conversazioni tra uomini, ossessionati dall'immagine dell'harem. Considerando le donne esseri sessualmente inferiori, agli uomini piace coltivare fantasiose immagini di una bulimia erotica di femmine lasciate libere di abbandonarsi ai propri sollazzi. Si diffonde l'immagine di piaceri sfrenati. Nelle sue sregolatezze, la lesbica, convulsa, insaziabile tocca tutte le corde del piacere. È il fantasma, di cui si avverte con tanta forza la presenza nella Fille aux yeux d'or, che spinge Fourier a trarre godimento, come più tardi i voyeurs dei bordelli, dai quadri-viventi che le donne compongono tra di loro. La rappresentazione dei corpi femminili, qui come nel teatro dell'isteria, funge da terapia maschile.

Paradossalmente tale bulimia saffica rassicura l'uomo: rivela l'insoddisfazione, prova il bisogno causato dalla sua assenza. Se Maupassant ci consente, l'amante non sembra sentirsi realmente tradito quando la sua compagna si concede ad un'altra donna; il duca di Morny, vecchio gaudente quant'altri mai, riteneva, così raccontano i Goncourt, che il saffismo rendesse le donne più raffinate; le iniziasse, senza pericolo, ad un erotismo di cui alla fine sarà l'uomo il beneficiario. Si spiega in tal modo la relativa indulgenza che, a somiglianza del marito di Claudine, l'epoca manifesta nei riguardi di una pratica di cui non potremo forse mai valutare l'esatta diffusione.

Va ad ogni modo detto, che quanto si conosce su alcune coppie di omosessuali, come ad esempio la coppia formata da Renée Vivien e Nathalie Clifford Barney, conferma l'immagine serena di una tenera e dolce relazione. Dall'intensità del sentimento scaturiscono i primi scritti delle amanti. Il salotto di Nathalie incoraggia le lesbiche ad uscire dalla clandestinità, e diviene un «crogiolo di passione e (di) libertà» (Marie-Jo Bonnet). In conclusione, l'immagine della omosessuale si emancipa dal giudizio del maschio; si delinea una nuova possibilità di felicità, tanto da farci ritenere quasi fuori luogo l'aver inserito questo aspetto della realtà in un capitolo dedicato alle manifestazioni del disagio individuale.

Aumento dei suicidi

Un eccesso di sofferenza individuale, maschile o femminile che sia, può risolversi in una decisione di autoannientamento; un gesto privato che è ancora una volta un grido; il disperato appello contro il fallimento della comunicazione. In tutta Europa, durante il X7X secolo il suicidio è in aumento; come avviene anche in Francia fino al 1894. Può anche darsi, ad ogni modo, che tale crescita risulti, in tutto o in parte, da un perfezionamento dei sistemi di registrazione, attuato a partire dal 1826. Ad ogni modo, il suicidio affascina: da Guerry e Quételet a Durkheim, passando per Falret e Brierre de Boismont, medici alienisti e sociologi di grande prestigio tentano di penetrare a fondo nel fenomeno. La visita all'obitorio, stimolati dalla voglia di guardare i corpi freddi stesi sui tavoli di marmo, entra a far parte dei riti domenicali delle famiglie parigine.

L'indebolimento della volontà di vivere si accompagna al crescente senso di insicurezza. L'individuo, che si rende conto di non costituire più di per sé un fine sufficiente, perde la capacità di illudersi; una condizione che può condurre al «suicidio egoista», secondo la definizione datane da Durkheim nel 1897. Lo scatenarsi dei desideri, il troppo pressante impegno nella mischia sociale moltiplicano i rischi di disillusione; nel momento in cui questo sentimento si rivela come troppo intenso, la prova cui è sottoposto spinge l'individuo, incapace di superarla, a ciò che ancora Durkheim definisce come «suicidio anomico». L'analisi dei dati statistici induce a sottolineare il peso dell'isolamento individuale e, contemporaneamente, di tutti quei processi di natura antropologica che lo favoriscono. Così, nel XIX secolo appare nettissima la prevalenza dei suicidi fra i celibi, i vedovi o i divorziati. Mentre il matrimonio, o almeno la presenza di figli, protegge dalla tentazione dell'autodistruzione. Detto ciò, non è qui il caso di mettere la parola fine all'interminabile controversia che, da un secolo e mezzo, oppone i fautori del primato del sociale a quanti ritengono che il suicidio derivi innanzitutto da fattori individuali, di carattere psichiatrico o genetico.

I motivi invocati dalle vittime stesse o dai testimoni non sono assolutamente convincenti. Le famiglie o le autorità tentano di edulcorare i fatti, manipolano le testimonianze, addomesticano le fonti. Ricordiamo, a puro titolo di indicazione, che nella gerarchia dei motivi cui si riconduce la morte di individui suicidatisi tra il 1860 e il 1865, dopo la malattia mentale, le cause raggruppate sotto la voce «amore, gelosia, immoralità», precedono la miseria e le disgrazie familiari.

Gli uomini si impiccano, le donne si annegano

Grazie alla precisione delle inchieste ufficiali, riusciamo a conoscere chi sono, nel XIX secolo, i suicidi in Francia. È evidente il maggior numero di suicidi maschili; secondo gli anni presi in esame, gli uomini che si danno la morte risultano essere tre o quattro volte più numerosi delle donne. Come già aveva notato Quételet, la predisposizione all'autodistruzione aumenta con l'età. La suddivisione secondo le categorie socio-professionali è più problematica. In maniera molto schematica, vediamo disegnarsi due poli di grande concentrazione dei suicidi ai due estremi della piramide sociale. Coloro che vivono di rendita, gli intellettuali e, in generale, coloro che esercitano le professioni liberali o che fanno parte delle gerarchie dell'esercito, soccombono più facilmente, rispetto alla media degli individui, alla tentazione dell'autodistruzione. Il che potrebbe far supporre che la pulsione di morte si accentui con l'elevarsi del livello culturale e del grado di coscienza individuale.

Ma altrettanto netta è l'alta concentrazione dei suicidi fra i domestici, soprattutto alla fine del secolo, quando si fa più intensa la presa di coscienza delle servitù imposte dalla loro condizione. Allo stesso modo, gli individui senza un mestiere o di professione ignota hanno una estrema propensione al suicidio, come pure i detenuti carcerati nelle prigioni centrali.

Nella Parigi della Monarchia di luglio, i «miserabili», quasi fossero incapaci di sormontare le nuove condizioni di vita imposte dalla grande città, si suicidano in numero impressionante. Invece, contrariamente a quanto si verifica ai nostri giorni, il tasso di mortalità per suicidio è, fra gli agricoltori, ad un livello estremamente basso.

Più della metà dei suicidi di sesso maschile si sono impiccati, un quarto si è annegato, fra il 15 e il 20 per cento hanno scelto di spararsi un colpo in testa o nel petto; nobile soluzione cui va la preferenza delle élites. La metà delle donne che sono riuscite a suicidarsi ha scelto la morte per annegamento; dal 20 al 30 per cento ha scelto di impiccarsi. Nella disperata popolazione femminile cresce, con il tempo, il rifugio nella morte per asfissia o per avvelenamento.

I suicidi nel XIX secolo avvengono di solito il mattino o nel pomeriggio, talvolta la sera, raramente di notte; il numero decresce dal venerdì alla domenica. È in aumento da gennaio a giugno, poi tende a diminuire da luglio a dicembre. In conclusione sembra che le giornate più lunghe, la presenza del sole, lo spettacolo della vita che ferve, la bellezza della natura spingano ad uccidersi in misura maggiore dell'intimità vespertina, delle angosce notturne, o dei rigori dell'inverno.

Nuove forme di aiuto

Le donne e il medico

A partire dagli inizi del secolo, all'interno dell'aristocrazia e della borghesia si accentua la presenza del medico. Il medico di famiglia è in questo ambiente un proprio simile, o addirittura un intimo. I suoi pazienti e le persone di famiglia comprendono la sua diagnosi, capiscono i suoi consigli; sanno mettere in pratica le sue prescrizioni; posseggono le strutture per rispettare le norme igieniche da lui raccomandate. «La loro volontà di vita — scrive Jacques Léonard — li pone su un piano di parità con la razionalità medica». Le relazioni che si intrecciano autorizzano la frequenza delle visite, che non si capisce più troppo bene se siano da ascriversi ad amicizia, buona educazione o a motivi professionali. Il medico si reca a casa dei suoi clienti per il tè o per passare la serata; la sua funzione lo porta a stringere rapporti con i magistrati; buon cavallerizzo, fa la sua figura alle partite di caccia del castellano. Il «buon dottor» Herbeau di Jules Sandeau, il dottor Sansfin, descritto da Stendhal, il cinico Torty di Bonheur dans le crime di Barbey d'Aurevilly sono tutti esempi di tale intimità.

Alla fine del secolo, il medico di campagna può tranquillamente allacciare dei rapporti di amicizia con il maestro o con il segretario del sindaco. Una crescente categoria di nuovi ricchi e di piccolissimi notabili, commercianti di legname o di bestiame, osti, mugnai, castratori di cavalli ricercano oramai la sua compagnia; fungendo così da mediatori che preparano la discesa delle pratiche scientifiche all'interno delle masse rurali.

I mezzi di cui dispongono consentono loro di pagare il medico, spesso in forma rateale, come si riscontra dai libri dei conti delle famiglie borghesi. Inoltre in quest'ambiente si manifesta molta gratitudine nei confronti di questi uomini competenti, rispettabili, e la cui devozione sembra impagabile.

La medicina privata, detta anchedi famiglia, assume in primo luogo i suoi connotati attraverso il ritmo del rapporto. Il medico di casa dispone liberamente del proprio tempo. Se necessario passa delle ore al capezzale dei suoi clienti, compensando la propria impotenza terapeutica con la pazienza dell'ascolto e l'attenta finezza della sua cortesia. Il medico conosce la famiglia e i suoi segreti. Se necessario si comporta da alleato. Aiuta a nascondere le tare ereditarie, a sbarazzarsi del familiare compromettente; favorisce i matrimoni difficili. Nella sua battaglia può contare sulla solidarietà delle donne. Per il medico è fondamentale piacere alle signore; sono loro a costruire o distruggere una reputazione; sono loro che, all'interno della famiglia, gestiscono le cose attinenti alla salute. La crescente importanza nella patologia delle «malattie di donne» giustifica questo tipo di attenzione privilegiata. Curare delle pazienti emotive e di un pudore esasperato richiede tatto e prudenza. Protetto dall'alibi terapeutico, il dottore, divenuto il confidente degli slanci e dei desideri del corpo, deve comprendere per accenni, guidare senza impaurire né trattare duramente. Nel corso degli anni questo personaggio la cui immagine si modella su quella del padre e dello sposo, riesce ad esercitare una sempre maggiore autorità. Poco per volta, il medico fa della donna la sua messaggera; «si procede insieme — scrive Jean-Pierre Peter — nel riparare, salvare, portare all'altare, ridare la salute».

Si è spesso deplorato il fatto che questa nuova forma di autorità abbia prevalso a spese dei tradizionali gesti femminili. L'obbedienza ai dettami del medico avrebbe comportato una vera e propria perdita di possesso di quel bagaglio di conoscenze trasmesso da madre in figlia. Molti indizi infatti confermano la progressiva affermazione degli indirizzi pediatrici consigliati dal medico. Questi sempre maggiormente fa valere il suo giudizio nella scelta della nutrice «in casa»; conduce una battaglia vittoriosa contro le fasce, milita a favore di variazioni alimentari per gradi, sconsiglia lo svezzamento improvviso. Le madri si rivolgono a lui per informare le figlie sui segni della pubertà. È ad ogni modo opportuno non sopravvalutare il ritmo dell'intervento medico sull'infanzia, in quanto si è trattato di un processo compiutosi molto lentamente.

Il medico e i poveri

La presenza del medico — il più delle volte si tratta sempre della stessa persona — nella vita privata delle famiglie povere

assume tutt'altri connotati. Dal divario culturale esistente tra il professionista e il cliente scaturisce una mancanza di comprensione: prescrizioni e spiegazioni devono essere elementari. Non è qui il caso di sconfinare nella medicina dell'anima. L'intervento medico è allora mirato, discontinuo; si inserisce nella prospettiva del soccorso di urgenza, sia che si tratti di malattia epidemica o che la gravità del male richieda una autorità terapeutica indiscussa. È una medicina che opera in un clima di intervento caritatevole. In alcuni casi il medico viene mandato su sollecitazione di un ente di beneficienza; le visite sono allora quasi gratuite. Altrimenti, il medico si sente in dovere di far credito ai propri clienti. Un insieme di circostanze che autorizzano un tono e dei rapporti paternalistici.

L'analisi dei proverbi aiuta a comprendere l'atteggiamento della clientela rurale. In questo ambiente esistono radicati convincimenti totalmente estranei alla razionalità e all'ottimismo dei Lumi. La malattia appare come qualcosa di ineluttabile e, molto spesso, incurabile. Il contadino non cerca spiegazioni psicologiche al male; come abbiamo visto crede nella medicina dei segni, basata sull'analogia che governa l'ordine cosmico, vegetale e animale. Per gli agricoltori il malato ha un ruolo determinante. Lo scompiglio scaturito dall'interno de! suo corpo è il risultato di una negligenza, di una colpa o di una predisposizione. Per vincerlo deve descrivere il male e lottare con stoico riserbo. Sembra di conseguenza inutile far intervenire la scienza medica quando si tratta di curare un bambino, in quanto questi non può descrivere il proprio dolore. Colui che soffre merita compassione, che non è però dettata da intenti terapeutici. Rivolgersi al medico è solo un rimedio come tanti altri. Ci si aspetta da lui un piglio risoluto e molta energia. Deve ridurre le fratture, scavare in profondità le piaghe. Il medico lavora in un ambiente ostile, o quanto meno pieno di diffidenza. Gli si fa colpa della sua giovinezza, del suo abbigliamento accurato, dell'attaccamento al denaro; non gli si perdona il minimo ritardo. Schernirlo costituisce per il contadino una rivincita sul sapere delle classi dominanti.

Meno conosciuto è l'atteggiamento della popolazione operaia nei confronti della medicina, prima del trionfo delle dottrine di Pasteur. Si cominciano tuttavia ad individuare in questo ambiente alcune elementari tecniche di prevenzione. In alcuni casi si elaborano dei sistemi spontanei di resistenza all'usura fisica, cercando di allentare il ritmo lavorativo. Cosi, quando si presenta la minaccia della tisi, l'operaio tenta di economizzare le forze, di ritagliarsi nell'orario piccoli spazi di riposo: cenni frammentari di un sistema di comportamenti ancora da studiare.

Gli inganni della tradizione

Secondo gli etnologi che si sono interessati ai comportamenti tradizionali nei confronti della malattia, nel XIX secolo è operante una medicina popolare fatta di ricette magiche e pratiche antichissime. Una medicina non scalfita dal tempo che sa abilmente far propri alcuni elementi della modernità senza abdicare alla propria coerenza. Sappiamo infatti che il ricorso agli stregoni e alle fattucchiere, i pellegrinaggi dai «romiti» o alle «fontane miracolose» sono fenomeni persistenti durante tutto il secolo. Immensa è anche la clientela di quanti posseggono alcune specifiche abilità, «conciaossi», maghi, e «guaritori» di ogni tipo. Questi conoscono il sistema di rimettere in sesto i corpi, spesso ricorrendo a pratiche crudeli che si risolvono tragicamente.

Si tratta tuttavia di procedimenti che non si discostano quanto si potrebbe supporre dalla terapeutica scientifica. Pur trattandosi di una assimilazione integrata in un diverso sistema di rappresentazioni della salute e della malattia, la medicina popolare assume spesso le forme di una pratica deviata, che riflette un'anteriore momento della scienza. Tra i diversi livelli di cultura si opera una circolazione continua. Il medico non disdegna all'occorrenza di valersi di rimedi alternativi; in alcuni casi incoraggia i pellegrinaggi; il ciarlatanesimo autorizzato prospera durante tutto il secolo.

All'interno delle classi dominanti funziona un complesso sistema di medicina parallela. Il curato e la sua fantesca, le religiose-maestre di scuola distribuiscono rimedi, dispensano consigli. Nei castelli esiste una farmacia, anche se rudimentale; le donne dell'aristocrazia la utilizzano. Sono loro a curare i poveri del circondario. Le madri di buona famiglia non esitano, almeno per le malattie di lieve entità, a ricorrere ai buoni vecchi rimedi della nonna. A casa dei Boileau, a Vigné-en-Saumorois, il medico viene chiamato solo raramente. In questa famiglia di notabili, ci si attiene ad una medicina domestica.

Intanto i venditori ambulanti e gli imbonitori da fiera diffondono i prodotti della farmacopea ufficiale; propongono ai sempliciotti delle protesi ortopediche. Si opera in tal modo uno scambio, tale da consentirci di considerarli quali i pionieri della medicaliz-zazione. I loro prolissi discorsi hanno contribuito a scalfire il fatalismo della gente di campagna. Gli stessi «guaritori», la cui attività è sempre più ridotta a causa della repressione dell'esercizio illegale della professione medica, si ispirano più o meno confusamente ai progressi della chirurgia e dell'ortopedia

Igiene di famiglia e contagio

Il peso dell'autorità medica sulla vita privata varia secondo la natura del rapporto intercorrente tra dottore e clientela; e varia anche secondo le epoche. Nelle famiglie della borghesia, fino al 1880 circa, il prestigio del medico è più condizionante della sua bravura. Purghe, sanguisughe, ventose e pochi altri semplicissimi sistemi costituiscono l'essenziale dei rimedi, qualunque sia la scuola cui si rifà il dottore. In compenso, nelle lacune della terapeutica, si va sviluppando un preciso e raffinato progetto igienico. Non si insisterà mai abbastanza sull'incidenza di tale «igiene delle famiglie». Modulata in base al sesso, l'età, la posizione, la professione, il temperamento e il clima, copre tutti gli aspetti della vita di gruppo; igiene corporea, naturalmente, che prudentemente incoraggia la toletta di pulizia; ma anche igiene alimentare che impone complesse norme dietetiche; e inoltre un insieme di prescrizioni che mirano a regolare il sistema di vita. L'igienista — ed ogni medico lo è in qualche misura — tende a stabilire una norma per gli esercizi fisici, la pratica dell'equitazione, la frequentazione dei balli, la lettura dei romanzi, e persino per i rapporti coniugali. La scienza medica estende le proprie regole alle manifestazioni della passione, alle divagazioni dell'anima e, con particolare attenzione, all'uso dei sensi. Il contenuto dei sogni non le è indifferente. È bene incoraggiare, in ogni aspetto della vita, la moderazione, il giusto mezzo, frenare gli eccessi, smorzare l'esaltazione.

Parallelamente si sviluppa una medicina naturale, nata da una ipotesi ecologica ancora non compiutamente espressa. Lo sviluppo della patologia urbana, la crescita anarchica dell'industria inducono a chiedersi se non siano ormai radicalmente compromesse le condizioni del buon vivere. Il problema angoscia le classi dominanti. Il medico raccomanda i «cambiamenti di aria», incoraggia le cure termali, poi, a partire dalla Monarchia di luglio, i soggiorni al mare.

Si va elaborando un'arte del riposo, che potremmo definire borghese, nata dalla paura latente della tisi. Intanto si affinano le tecniche di isolamento, destinate più che ad evitare il contagio, in cui non si crede minimamente, a nascondere il malato di petto o il mentecatto che depaupera il capitale genetico della famiglia.

Il trionfo delle teorie sulla trasmissione delle malattie per contagio e delle scoperte di Pasteur, durante gli anni 1880, trasforma le immagini, modifica i modi di essere, rivoluziona le abitudini; la natura delle relazioni fra medico e cliente ne sarà profondamente mutata. Il medico intende ormai affermare la propria capacità di curare efficacemente il corpo; il problema non è tanto sostenere il morale del malato ed evitargli le nefaste conseguenze degli eccessi, si interviene per guarirlo. La lotta è diventata più semplice, il cammino della terapia più lineare. In materia di igiene, la lotta al microbo è l'obiettivo primario. L'acqua, il sapone, l'antisepsi relegano ormai fra i retaggi del passato le complesse prescrizioni di una volta. Il medico che si lava accuratamente le mani prima di accostarsi al malato è il primo a dare il buon esempio. Non è più necessario che la sua presenza sia assidua come una volta. Il dottore si dimostra ormai più sbrigativo. In compenso gli verranno perdonati più difficilmente errori o sconfitte.

Le nuove teorie insistono sul rischio di contagio all'interno della sfera domestica. Da ciò deriva la reticenza dei grandi luminari nel riconoscere la contagiosità dell'etisia. Dimostrata da Villemin nel 1865, tale verità scientifica non riesce ancora ad imporsi all'Accademia di medicina nel 1867; quand'anche il rischio fosse reale, dichiara Pidoux, sarebbe opportuno tenerlo nascosto ad e-vitare che le famiglie siano tentate a sbarazzarsi dei malati. Nel J888 Koch isola il bacillo della tubercolosi, da quel momento non è più possibile nascondere la verità.

La necessità di individuazione dei microbi

In città, fino a circa il 1880, il medico dei poveri tenta di sventare il pericolo di infezioni causate dal sovraffollamento delle abitazioni popolari; qui il problema fondamentale è arginare le epidemie. In campagna, il medico intende svolgere il ruolo di mentore che risana la casa contadina e le zone circostanti; il messaggio non supera questi confini. Dopo il 1880 anche lì l'intervento diviene più metodico. Contemporaneamente all'antisepsi, vengono introdotte in campagna nuove forme di terapia; a titolo di esempio ricordiamo che nel Nivernais la diffusione dei medicinali si è verificata tra il 1870 e il 1890.

I seguaci di Pasteur continuano ad analizzare la minaccia di diffusione del morbo in termini di ambiente e non di rapporti sociali; ma anche le nuove teorie non sono meno gravide di conseguenze. Queste provocano un'azione sanitaria e sociale che comporta nuove tattiche di controllo sulle famiglie. Lue Boltanski ha dimostrato attraverso quali contorte procedure e con quante esitazioni si fa strada la nuova puericultura in ambiente popolare. La necessità della prevenzione e dell'individuazione, l'obbligo di allontanare il malato contagioso dalla famiglia, di controllare l'applicazione delle misure profilattiche spingono ad un intervento che tende a confondere i limiti tra pubblico e privato; tanto più che il microbo, non direttamente percettibile, impone delle procedure di individuazione più estese e sistematiche di quelle in uso un tempo per scoprire i focolai di infezione.

A questo punto fanno, molto timidamente, la loro comparsa i personaggi dell'infermiera e dell'assistente sociale. Alla tradizionale visita ai poveri delle dame di beneficenza, si sostituisce poco per volta un intervento più metodico. Ragazze dell'alta borghesia, desiderose di emanciparsi, o, in alcuni casi, di sottrarsi al matrimonio, cominciano ad affermare la propria personalità attraverso l'assunzione di responsabilità di nuovo genere. La lotta contro la tubercolosi favorisce in larga misura questa improvvisa apertura. Il dottor Calmette, per primo, ha l'idea di inviare degli «istruttori di igiene» presso le famiglie di Lille; faranno presto seguito le «visitatrici di igiene sociale». Si costituiscono delle scuole per la formazione di questo personale; la più famosa sarà quella aperta nel 1903 a Parigi in rue Amyot.

La comparsa di tali nuovi ruoli sociali conferma il nesso che si è stabilito tra potere medico e vittoria delle teorie di Pasteur sulla diffusione delle malattie per contagio. Solo così è stato possibile realizzare quel «colpo di Stato sanitario» di cui Jacques Léonard è riuscito a ricostruire il faticoso iter.

L'alienista e la vita privata

Non bisogna credere che l'attenzione per i fenomeni psichici si sia smisuratamente accresciuta tra il 1800 e il 1914; si tratta piuttosto di una evoluzione delle modalità dell'intervento. Durante i due primi terzi del secolo, l'inefficacia terapeutica, il sincretismo di cui danno prova i medici disorientati, che cercano di attingere a tutte le teorie possibili, la prolissità del dibattito scientifico a proposito della clorosi, l'isteria e il pericolo delle passioni; la convinzione che esista uno stretto legame tra fisico e morale alimentano una medicina dell'anima.

Almeno all'interno della clientela borghese si sviluppa una psicoterapia rozza, empirica, messa in opera da bonari e tranquilli professionisti. Lo stesso medico di campagna, per quanto lontano dalle raffinatezze teoriche dei grandi alienisti, si guarda bene dal dare scarsa importanza alle vertigini, gli incubi, le paure, i parossismi della passione.

Quando lo stato di confusione mentale si accentua, parenti e medici si trovano messi di fronte ad un problema di tutt'altra

portata. La vicinanza del pazzo accentua l'ansia del gruppo. Il tremendo segreto compromette l'onore della famiglia, minaccia le strategie matrimoniali più elaborate. Quando l'alienato è un bambino, sorvegliarlo rientra nella norma. Auguste Odoard, oppresso dalle proprie responsabilità di fratello maggiore dà segni di malattia mentale. Viene confinato nella sua camera, poi in uno stanzino adiacente all'ufficio del padre, prima di relegarlo in una specie di capannone vicino alla colombaia. Le sorelle minori, Sabine e Julienne, lo fanno mangiare, gli tagliano i capelli. Può accadere che il medico di famiglia, cui spetta il difficile compito di curare questi malati, ricorra ad un alienista, chiamato quale consulente; comincia così a prendere forma una pratica psichiatrica di cui sappiamo ancora assai poco. Nel 1866, 58.687 malati mentali vengono curati secondo questa prassi all'interno dell'ambiente familiare, mentre 323.972 sono ricoverati in manicomio.

La presenza del pazzo divenuto adulto, diventa intollerabile; il più delle volte, la cerchia dei parenti decide di allontanarlo, soprattutto se si tratta di una donna non sposata, meno utile dell'uomo al mantenimento del gruppo. Fino all'applicazione della legge del 1838, che definisce lo statuto dell'alienato, regna in questo campo la più totale anarchia. Su iniziativa della famiglia il ricovero può essere deciso in base ad un semplice certificato rilasciato dal sindaco, dal curato, da una suora o da qualsiasi notabile del luogo. Abbastanza spesso il malato viene internato dopo una sentenza di interdizione. Nella regione del Maine-et-Loi-re, a partire dal 1835, l'esperto che rilascia il certificato è sempre un medico. La legge del 1838 che cerca di mettere ordine nelle procedure di internamento psichiatrico rende obbligatorio il certificato rilasciato da un medico. Quando sarà finalmente riuscita a sbarazzarsi di questo peso morto, la famiglia dimenticherà rapidamente l'esistenza del malato. Secondo Yanick Ripa, il 29 per cento delle donne ricoverate nella capitale tra il 1844 e il 1858, riescono, guarite o meno, a sottrarsi alla promiscuità del manicomio. Ma, durante gli stessi anni, solo il 3 per cento delle donne di Parigi internate in ospedali di provincia sono riuscite a farsi liberare.

Negli asili pubblici, settori speciali sono, in alcuni casi, riservati ai ricoverati, divisi in varie categorie. Così accade, ad esempio, a Charenton, a Limoges, a Mareville, presso Nancy, a Yon nella Seine-Inférieure. Gli alienati di famiglia agiata possono beneficiare di un trattamento particolare, dispongono di un alloggio più spazioso rispetto a quello degli altri malati; possono scegliere il menu; talvolta sono accompagnati da un domestico, la cui presenza prova la relativa privatizzazione della loro posizione. Quando si applicherà l'ergoterapia, potranno sottrarsi all'obbligo di lavorare. Nel 1874, sui 40.804 malati racchiusi in strutture speciali, 5.067 riescono in questo modo a sottrarsi alle regole generali.

Si va insieme sviluppando una complessa rete di case di salute, confuso embrione del settore privato. Si tratta di istituti riservati ad una clientela privilegiata, più raffinata della grande massa degli internati. Nel 1874, 1.632 malati sono sparsi nelle venticinque case di salute private. Quella di Esquirol, posta prima vicino al Jardin des Plantes e poi a Ivry, il castello Saint-James a Neuilly, dove opera Casimir Pinel, e la clinica di Passy sono gli esempi più famosi di queste istituzioni private. Nel 1853, Gerard de Nerval, ospedalizzato due volte nel manicomio municipale Dubois, si ricovera nella clinica del dottor Bianche; vi porta i suoi mobili, le sue collezioni; l'anno successivo tornerà a far parte degli ospiti della clinica, dove sarà ricoverato anche Guy de Maupassant. In provincia funzionano cliniche meno note, come quella del dottor Guérin, aperta nel 1829 a Grand-Launay, nella regione della Mai-ne-et-Loire; ricchi alienati vengono curati in camere singole.

Per ultimo, numerose case di cura private accolgono i ricchi che soffrono di leggere turbe nevrotiche. In tutte queste cliniche, osserva Robert Castel, tra medico e cliente, cui è riservato un intervento personalizzato, si instaura un rapporto conflittuale; rapporto ben diverso da quello imposto dalla promiscuità delle grandi istituzioni psichiatriche. E un arcipelago di case di cura private dove si avrà la lunga incubazione di quella pratica di classe che sarà costituita dalla psicanalisi.

La nuova domanda «psico»

Infatti, durante l'ultimo quarto del secolo la vita privata viene ad essere messa a nudo e insieme intaccata dalla nascita di una domanda psicologica che non è più apertamente riferita all'alienazione. Si inaugura allora, contemporaneamente, l'uso di rivolgersi ad uno psicologo; un fenomeno già prevedibile dal rilevante numero dei clienti privati di Charcot. Non torneremo ulteriormente sulle cause del disagio che assale gli spiriti in quel momento. L'angoscia crescente, tra il 1857 e gli anni 1890, causata dall'ereditarietà morbosa, il prestigio, allora considerevole, della neurologia, l'aumentata fiducia nell'efficacia dell'appoggio psicologico determinano una sempre più estesa richiesta. Né va dimenticato l'atteggiamento dei medici generici di scuola pasteuriana; stimolati dalle vittorie che cominciano a riportare nella lotta alle malattie contagiose, non sono più disposti a sopportare gli interminabili resoconti dei malesseri dei clienti. L'ascolto diventa una specializzazione.

Una trasformazione che coincide con i progressi della conoscenza scientifica. Sostenuta dal prestigio di Hippolyte Taine, si costituisce una psicologia sperimentale, asservita al culto dell'intelligenza. Ben presto, dominata dalla personalità di Pierre Janet, illustrata dalle opere di Alfred Binet e di Théodule Ribot, avvalorata dai procedimenti dell'introspezione bergsoniana, la nuova scienza si sviluppa in due principali direzioni. L'analisi psicologica, definita da Pierre Janet nel 1889, ne rappresenta la principale innovazione. Tale metodo, basato sull'esame a tu per tu, sulla precisa notazione delle parole pronunciate e sull'individuazione dei precedenti, si presenta in primo luogo come una ricerca della traccia. La fede in un subconscio totalmente scisso dalla coscienza, di cui appare essere quasi un semplice brandello, sottende tale metodo di indagine.

L'altro apporto decisivo è costituito dalla misurazione dell'intelligenza. Basata sulla convinzione dell'esistenza di un continuum dall'idiota al genio. La scala metrica dell'intelligenza, definita tra il 1903 e il 1905 da Binet e Simon, e il test che permette di collocare ogni individuo a un livello di questa stessa scala entrano a far parte del nuovo credo della psicologia francese.

Si tratta di scoperte ricche di implicazioni. L'analisi psicologica impone un nuovo ideale terapeutico; porta all'abbandono delle procedure autoritarie e al rifiuto dell'ipnosi. Il metodo di Pierre Janet tende a sostituire l'ascolto allo sguardo; il silenzio ovattato dello studio privato si sostituisce alla teatralità dell'ospedale psichiatrico. Si delinea un nuovo spazio psichico, anche prima dell'introduzione della psicanalisi.

Va notato in proposito che, al momento, i sostenitori dell'inconscio di scuola francese rifiutano il pansessualismo freudiano. Ed essi opporranno fino alla guerra un compatto sbarramento alla diffusione delle teorie della scuola di Vienna. I tentativi di volgarizzazione, condotti a partire dal 1903 da Théodore Flournoy, e più massicciamente da un oscuro professore di Poitiers, Moricheau-Beauchant, non sono minimamente coronati dal successo. Comunque sia, l'analisi psicologica e poche altre conquiste della scienza sperimentale, quali la definizione del feticismo ad opera di Alfred Binet, o lo studio della patologia delle emozioni di Charles Feré, hanno sotterraneamente preparato l'imperialismo «psico» del nostro XX secolo.

Associate all'instaurazione, di fresca data, della scolarità obbligatoria, i metodi di misurazione del quoziente di intelligenza cominciano ad intervenire nella vita personale di molti bambini; grazie alla scoperta di Binet, la scuola «sorta di grande tribunale democratico» (Robert Castel e Jean-Francois Le Cerf) consentirà l'individuazione di una anormalità che sarebbe stato impossibile scoprire precedentemente. Già si conoscevano gli idioti e gli imbecilli, ci si appresta a scoprire le vittime delle deficienze mentali. Le nuove figure del ritardato, dell'instabile, del debole di mente, emergono da una massa giovanile fino a quel momento indifferenziata. La legge del 1909, che prevede l'istituzione di classi speciali, sanziona questa nuova scissione dell'infanzia anormale. Una legge che resterà tuttavia quasi inapplicata fino al 1950.

Gesti tradizionali e strutturazione del corpo

Le immagini e gli usi del corpo, rigorosamente subordinati ai bisogni socio-economici, risultanti dai rapporti gerarchici, dettano le leggi della pedagogia; questa, a sua volta, tenta di modellare i comportamenti e di imporre gesti e posizioni; ma un sordo movimento di liberazione segue in contrappunto la storia di questa forma di addestramento; accompagna l'ascesa di quella soggetti-vizzazione del corpo individuata dalla psicologia. Così il XIX secolo vede elaborarsi o accentuarsi, contemporaneamente, una gamma di discipline somatiche e di sistemi di resistenza di cui gli storici sono ancora lontani dallo stendere un repertorio completo. In questo, come in altri campi, sono ancora allo stadio di studio delle teorie. Il codice gestuale delle buone maniere, erede della civiltà lassalliana, le attitudini imposte allo scolaro, al collegiale, al soldato, al prigioniero, i gesti del lavoro industriale, le posizioni del riposo o della semplice distensione, la volontà di dare libertà al movimento, quale si manifesta durante la Belle Epoque, delineano un vasto campo di studi quasi inesplorato. La vita privata subisce il contraccolpo di questa storia degli addestramenti e dell'emancipazione del corpo. Ma ancora una volta è d'obbligo operare una distinzione secondo gli ambienti.

In questo settore, le rigidezze sono particolarmente evidenti in campagna. Le posizioni e i gesti dei contadini di Millet sembrano — ma forse è solo il risultato della nostra ignoranza — prolungare un lontano passato. Guy Thuillier, l'unico storico che abbia sollevato il problema, ha redatto un inventario, a proposito del Nivernais, di quei gesti antichi che, fino a circa la metà del secolo, sembrano testimoniare una storia immobile. Gli etnologi dell'equipe del Museo di Arti e Tradizioni popolari che si dedicano a questo difficile soggetto ritengono, a titolo di ipotesi di lavoro, che i gesti determinati dall'uso degli utensili da cucina non abbiano subito alcuna evoluzione dal XIV secolo al 1850. Da tale data, fino al 1920 circa, l'evoluzione delle tecniche e dei materiali avrebbe lentamente modificato le tradizioni. In seguito si opera quel profondo rivolgimento che conduce al totale rinnovamento dei gesti quotidiani che compongono la vita privata. Sarebbe essenziale precisare le tappe di questa cronologia. A ragione Philippe Joutard fa osservare che il repertorio dei gesti traduce una evidente coerenza; sapere in che modo il contadino afferra il fascio di fieno consente di indovinare i gesti dell'abbraccio amoroso.

In ambiente rurale, le tecniche di correzione, basate sulla fiducia nella plasmabilità del corpo, perdurano. Le matrone del XIX secolo continuano a modellare il cranio del bambino appena nato; l'uso delle fasce, anche se nella forma ridotta che lascia libere le braccia, si prolunga in alcune campagne fino ai primi anni della Terza Repubblica. La storia della protesi correttiva esprime a sua volta questo perdurare di una fiducia nella strutturazione del corpo; le madri della borghesia impongono alle figlie un po' curve terribili apparecchi; obbligandole a portare il busto di ferro che mantiene il dorso rigido si intendono aumentare le «doti estetiche» della ragazza da marito.

Raddrizzare il portamento e sconfiggere l'indolenza

Ma si tratta di forme arcaiche; grazie in particolare agli studi di Georges Vigorello è oggi possibile ricostruire le tappe di questa operazione di ristrutturazione corporea. Durante la prima metà del secolo la meccanica, poi, dopo il 1851, il modello energetico proposto dalla termodinamica portano ad una evoluzione delle immagini del corpo. Questo appare come un canale di forze, poi come un motore; l'importante non è più calarlo in una forma, ma tenerlo in allenamento. La nozione di esercizio esce dall'ambito militare; una ginnastica che si propone come fine di conferire al corpo una potenza ottimale penetra poco per volta in tutte le organizzazioni collettive.

Un'arte rinnovata esalta la correttezza del portamento. Per l'uomo si tratta di stringere la cintura, tenere il petto in fuori e la pancia rientrante. Un obbiettivo uguale, che accentua l'erotismo delle forme, trasforma il significato del busto femminile. Così si spiega la lordosi collettiva delle donne della Terza Repubblica. Nella sfera privata aumenta l'ossessione del «Stai dritto!» e «Tira in dentro la pancia!». Il timore della tisi si aggiunge a queste immagini per incoraggiare l'esercizio respiratorio, che si prefigge di utilizzare appieno, o di aumentare la capacità polmonare. Parallelamente si rinnova l'ortopedia; agli apparecchi rigidi destinati a rimodellare il corpo tendono a sostituirsi le macchine che canalizzano l'esercizio e facilitano l'allenamento. Nasce allora una ginnastica educativa e correttiva, basata su una serie di movimenti particolari.

La pedagogia scolastica e familiare si ispira a questi nuovi modelli. Insegnanti e genitori vogliono vincere l'indolenza, proibire le posizioni di abbandono connesse all'ozio. E’ il momento della vivacità dinamica. All'officina come a scuola, i momenti liberi e la diversità delle posizioni del corpo tendono un po' per volta a scomparire sotto l'effetto di una regolarizzazione scientifica delle discipline somatiche. Si calca l'accento sui benefici effetti degli «sforzi rinvigorenti» (Georges Vigorello). Una serie di obiettivi che, a partire dagli anni 1860, saranno avvalorati dalla paura del decadimento fisico; e in seguito dai progressi della zootecnia.

Alla fine del secolo come hanno giustamente dimostrato Eugen Weber e Marcel Spivak, la necessaria preparazione alla rivincita si inserisce a coronamento di questa storia del corpo correttamente impostato. La ginnastica diventa un dovere nazionale; i battaglioni scolastici, l'intensificarsi delle escursioni a piedi sono espressione del nuovo imperativo. Si produce allora una confluenza tra questa ginnastica competitiva e le attività ludiche, più disinvolte, di origine aristocratica, che a imitazione dei games inglesi, definiscono ciò che già si comincia a chiamare lo «sport». L'equitazione, gli esercizi della caccia, in seguito i giochi del pallone hanno tracciato un modello di attività che, al pari di molte altre, discende dall'alto della piramide sociale. A sua volta stimolato dalle teorie darwiniane e dalla minaccia tedesca, lo sport agisce sui comportamenti; favorisce e insieme dimostra il self-government dell'individuo; nasce l'assillo del punteggio più alto, che esalta il campione.

Verso la piena espressione del corpo in libertà

Un terzo indirizzo, ancora inesplorato, rafforza l'attenzione portata dalla fine del secolo allo sviluppo corporeo. La medicina naturale, precedentemente ricordata, raccomandava la passeggiata in campagna, l'escursione, alpina, poi il bagno di mare e la bicicletta. Nel corso degli anni, queste pratiche tendono ad emanciparsi; poco per volta escono dalla sfera medica. Questa volta l'obiettivo non è più tanto correggere, esercitare e neppure curare il corpo, quanto avvertire il benessere, la piena espressione del corpo in libertà. Sulla scena parigina la gestualità di Isadora Duncan, malgrado i riferimenti all'antico, simboleggia tale ricerca di una gamma di gesti e posizioni che consentono di meglio sperimentare un corpo che si continua a percepire come esterno a sé. Rivelatore in proposito è il constatare che questa ricerca è contemporanea alla nuova domanda psicologica e all'erotizzazione della coppia. La cenestesi non è più dominata dall'ascolto delle disfunzioni; è ora divenuta attenta alla percezione del benessere e del godimento. Presto il severo Paul Valéry analizzerà a sua volta i piaceri del corpo nudo immerso nel fluido elemento del bagno di mare.

Tale rivoluzione — non bisogna aver paura ad usare questo termine — su cui Marcel Proust, affascinato dai giochi delle graziose cicliste sulla spiaggia, tanto più si sofferma in quanto gliene è negata l'esperienza, porterà ad una completa trasformazione dei comportamenti che costituiscono la scena privata.